Ansia, panico e stili di vita contemporanei

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Chi opera in ambito psicoterapeutico sa che esiste un nesso tra stili di vita e forme di patimento e che tali forme sono mutevoli in funzione dei mutamenti sociali e culturali. Più difficile è mettere a fuoco cosa di preciso dei nostri stili di vita ci ha cambiato tanto da determinare più o meno direttamente il modo in cui noi soffriamo psicologicamente.

Ad esempio, se pensiamo agli impegni maturatividi noi contemporanei sia nell’area affettiva (relazioni sociali, familiari, sentimentali, sessuali) sia nell’area socio-lavorativa (impegni formativi, lavorativi, sociali, progettualità personali, fondazione e continuità di coppia e famiglia), ci rendiamo subito conto che hanno radicalmente cambiato senso e contenuto non solo per le mutate aspettative/rappresentazioni e relative codificazioni sociali, ma ancor più a monte a causa di una radicale disarticolazione dei cicli vitalidegli individui avvenuta negli ultimissimi decenni della nostra storia, per cui quando oggi noi parliamo di prima infanzia, seconda infanzia, preadolescenza, adolescenza, tardo-adolescenza, età giovanile, età matura, maturità avanzata, terza età, terza età avanzata, non siamo più tanto sicuri di indicare, con queste denominazioni, connotazioni e denotazioni precise e inconfondibili collegate ad esse, tutt’altro. Basti pensare che oggi la parola “ragazzo-ragazza” si estende senza alcun problema e imbarazzo ad individui che oltrepassano i 50 anni. Ma non è solo una questione di denominazione, ogni contemporaneo sotto i 50 se chiude gli occhi e pensa a se stesso non vede un uomo o una donna, ma vedee sente un ragazzo o una ragazza. Letteralmente impensabile fino a soli 20-30 anni fa.

Incrociando dunque impegni maturativi(affettivi e socio-lavorativi) e cicli vitali disarticolatici accorgiamo immediatamente di come bisogni, impellenze, mete interne, aspettative personali, familiari e sociali, sono diventati come dei pezzi di un puzzle che non si incastrano più per formare un disegno intero e coerente.

Rimangono pezzi di un puzzle sparpagliati sul tavolo.

Ma cosa c’entra tutto questo con ansia e panico?

È presto detto. L’ansia e soprattutto il panico possono essere descritti icasticamente come una sorta di “ingorgo psichico”, come cioè una sorta di impallamento legato a sovraccarico di un sistema che non processa ordinatamente i dati e che quindi è costretto a fermarsi per resettare e ricominciare.

In genere invece lo si vive e lo si rappresenta (inizialmente) come una vulnerabilità somatica e non come una vera e propria difficoltà di adattamento assolutamente comune, direi ubiquitaria, di tutte e tutti, relativa a questa oggettiva difficoltà contemporaneaa definire una propria identità, un proprio posto nel mondo, una ordinata successione nel tempo e nella propria percezione autobiografica di compiti maturativi, una propria direzione chiara e autonoma.

Per uno psicologo che come il sottoscritto è abituato a trattare quotidianamente questi sintomi, essi non rappresentano, per quanto oggettivamente drammatici nel loro proporsi nella nostra vita, nulla di particolarmente “grave”, ma sono sintomi assolutamentebenigni, degli ammonimenti utili che anzi ci aiutano a fermarci per ricominciare su altri presupposti, dal momento che i presupposti precedenti ci hanno condotto al malessere. In genere le sintomatologie diminuiscono di intensità dopo non molto tempo dall’inizio di un lavoro terapeutico e molto spesso regrediscono alla fine di esso.

 

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Luigi D'Elia, psicologo, psicoterapeuta Gruppoanalista, cura dal 2013 la rubrica La Buona Vita. È autore del volume “Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società” dove esplora i nessi tra comuni stili di vita e conseguenze psicologiche.