Insonnia

0
731
image_pdfimage_print

Non riesco a dormire stanotte. Sto pensando a te, che non mi pensi. Bel pensare. Dovrei concentrarmi su qualcos’altro, scacciarti dalla mia mente per il tempo necessario ad acchiappare un sogno. Ma dove si prendono i sogni?  Forse i sogni li abbiamo dentro, e in questo momento il mio sei tu. Eccoti di nuovo, non va bene. Cambiamo domanda… dove si prende sonno? C’è un posto fisico, un mercato, un luogo in cui si incontrano la domanda e l’offerta di sonno?
Mi tuonano in mente le parole di quel prof così pieno di sé e così vuoto dentro “In concorrenza perfetta, nella teoria economica tradizionale, i mercati sono perfetti, quindi esiste un mercato per ogni bene.”
Probabilmente l’amore è un mercato imperfetto, deve essere così, non trovando quasi mai la corrispondenza.
Ma perché penso sempre all’economia poi? O all’amore o all’economia, sarà perché li studio entrambi all’università e ancora mi sfuggono.
A proposito, domani ho lezione alle 8.00. Devo svegliarmi presto! Ma che stupida, non mi devo svegliare se non mi addormento, no? Forse mi conviene restare sveglia, con gli occhi aperti a fissare il soffitto, e le luci che vengono da fuori e che si infilano nelle fessure. Per quanto possa chiudere le finestre, il buio non è mai nero.
Non si può impedire alle luci di entrare. Questo dovrebbe dirmi qualcosa, ma non sono particolarmente positiva da lanciarmi in metafore, la mia stanza non è la mia vita. So bene che la vita può completamente spegnersi. Mi sta venendo in mente proprio ora un esempio concreto di come. Speravo di essermi dimenticata, ma è marzo come lo era allora, è notte come lo era allora, sto fissando il soffitto come allora e soprattutto la mia finestra filtra la luce come allora. Solo che quelle luci erano sirene di ambulanze, e io ero in una camera sterile in un ospedale. Ci sarà tempo di raccontare come e perché ero dentro una camera sterile, per ora è sufficiente dire cos’è, perché per fortuna non troppe persone ci sono entrate (e per sfortuna alcune nemmeno ci sono uscite). In pratica si tratta di una camera più asettica possibile, dove chi entra deve disinfettarsi bene le mani, indossare guanti, cuffie, mascherina, para scarpe e camice. Ovviamente non ci entra quasi nessuno, se non infermieri e medici del reparto trapianti. E i tuoi familiari, solo negli orari prestabiliti.
Ovvio che la mia compagnia in quei mesi era la solitudine, e pur non apprezzandola, me la dovevo fare andare bene. A volte mi capitava, e mi capita tutt’ora, di litigare perfino con me stessa, quindi la solitudine non significava tranquillità. Ma quella notte, non erano i miei pensieri a tenermi sveglia. Dalla camera accanto provenivano rumori cupi, lamenti. C’era un gran movimento di personale, un via vai poco conosciuto dai corridoi del reparto. Io sapevo a chi appartenesse quella voce che pian piano diventava un urlo, sapevo che pur trattandosi di una persona più vecchia di me condivideva con me un piano terapeutico simile, essendo entrambi in quel luogo dimenticato da quel Dio eventuale così smemorato. Sapevo anche che stava per morire. Gli infermieri quella notte passarono spesso nella mia stanza, con la scusa di controllarmi ora la pressione, ora la febbre.
Ma io stavo benissimo, fisicamente.
Dentro invece sapevo che qualcosa si era rotto. Avevo capito che la vita non era una stanza, che nel buio si fa fatica a oscurare. Nella vita a volte succede che si spengano tutte le luci.  Che siano interruttori, fessure delle persiane, fiammelle di ceri in chiesa, chi decide di tenerle accese? In termini pratici, perché a spegnersi è stato  lui e non io?  Non avevo risposte allora, solo la paura.  Ora non ho né le prime, e nemmeno la seconda, per fortuna. Mi rimane un forte senso di non-senso. Forse ciò che mi può restituire un significato, riparare ciò che si è spezzato, è quello che mi tiene sveglia stanotte. Chissà se mi pensi.