La nostra politica risponde ai bisogni essenziali dell’uomo?

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Siamo reduci dalle ultime elezioni politiche e sono davvero innumerevoli le valutazioni sul voto di elettori ed elettrici e su come cambia il panorama politico. Lo sguardo della psicologia sociale riesce però a intercettare gli umori e i criteri decisionali a partire dai bisogni essenziali.

Il partito più votato in assoluto, specie al sud, è stato quello che prometteva il reddito di cittadinanza. Invece al nord ha prevalso una coalizione di destra e la difesa identitaria.

La progressiva colata a picco dell’area politica un tempo chiamata “sinistra” è stata invece l’esito del tradimento del mandato sociale che fino a pochi decenni fa consegnava a tale area gli interessi dei ceti medi e bassi, non tutelati dallo sviluppo delle società occidentali.
I cambiamenti sociali degli ultimi decenni che hanno visto un appiattimento della “buona vita” su immaginari di benessere ipercodificati in senso neoliberista (il consumatore ha preso totalmente il posto del cittadino), hanno visto la crisi fatale delle sinistre che hanno voluto inseguire modelli di benessere e visioni del mondo totalmente uniformi, perdendo di vista i bisogni reali delle parti sociali precedentemente rappresentate: lavoratori/lavoratrici e ceti medi.

Inseguire idee astratte di sviluppo e qualità di vita legate a indicatori economicistici e non a indicatori psicologici e sociologici chiari ha portato agli attuali risultati.

I bisogni essenziali delle persone, sono fuori dalla portata della politica.

Ma quali sono?

In estrema sintesi:

  1. continuità esistenziale
  2. progetto
  3. vita comunitaria

 

Tre tra i principali capisaldi psicosociali appartenenti alla stessa natura umana che gli attuali stili di vita e l’attuale contratto sociale neoliberista non prevedono più o che hanno reso sempre più faticosi ed elitari.

Già oggi il mercato del lavoro attuale non prevede se non in modo residuale alcuna possibilità di continuità esistenziale né di progetto. Ma se allunghiamo il nostro sguardo nel futuro prossimo è facile prevedere che le nostre società, per via della progressiva robotizzazione, faranno sempre più a meno del lavoro routinario e impiegatizio e i tassi di disoccupazione organici aumenteranno sempre di più, e mentre le garanzie sociali di istruzione, lavoro, sanità, abitazione, sussistenza si assottiglieranno, sarà sempre più difficile per i sistemi sociali occidentali far derivare i redditi dal lavoro per una grande parte della propria cittadinanza.

Se non si vorranno creare sacche di disagio grave sempre più ampie, sarà necessario sganciare il concetto di reddito da quello di lavoro, affrontando il pregiudizio di un neoassistenzialismo incombente (pregiudizio che, in altre realtà occidentali avanzate dove il reddito di cittadinanza è già operativo, non ha minimamente luogo).
Continuità esistenziale, progetto, vita comunitaria. Non esiste alcuna forza politica in grado di pronunciare parole attendibili su questi bisogni umani. Occorre dirlo e pensare ad altro, a qualcosa che ancora non c’è. Qualcosa che spodesti il “consumatore” e rimetta al proprio legittimo posto il “cittadino”.
Dovremo attendere l’autodissoluzione spontanea dei modelli di vita neoliberisti (che invece sopravvivono senza problema)? O invece possiamo cominciare a ripensare al ruolo della politica per la nostra vita quotidiana?

 

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Luigi D'Elia, psicologo, psicoterapeuta Gruppoanalista, cura dal 2013 la rubrica La Buona Vita. È autore del volume “Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società” dove esplora i nessi tra comuni stili di vita e conseguenze psicologiche.