In Her l’inganno della solitudine

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Di K.S.

Se inganni, inganna la morte, dice un proverbio irlandese.

L’ inganno della solitudine è il filo rosso che Spike Jonze ci regala in HER. La genialità della contemporaneità che il regista americano (ha diretto Be John Malcovich) raffigura attraverso un continuo di piani sequenza fatto di selfie e panoramiche su città futuribili, dove regina indiscussa è la tecnologia di un mondo prossimo ad essere.

Tra sguardi malinconici su panorami metropolitani dipinti di verde e di grigio come la pellicola degli anni 70, gente distratta e veloce s’aggira per strade e palazzi vestita di pantaloni, girocollo e camicie colorate di giallo e arancione, come fossero quelle si, l unica nota vivace di quotidianità ripetitive e piatte, dentro appartamenti magnifici con viste mozzafiato. Per delegare poi la nostra fantasia ad ologrammi che si agitano discreti in salone, al posto della televisione e del caminetto. Joaquin Phoenix il protagonista sul cui primo piano il film campa e si giustifica, per vivere scrive lettere d amore, per chi non può farlo, per chi non è capace come un antico scrivano dentro un’ abbazia di vetro o ai bordi di una stazione ferroviaria. Theodoro è bello e triste, è buono e asociale. Tutto è concesso in questa modernità tecnologica tranne la realizzazione fisica del desiderio che si nasconde inevitabilmente nella perfezione di una normalità che pure è fatta ancora di gite al mare tra amici, di divorzi dolorosi e di separazioni inevitabili. L’amore allora diventa una voce, accudente e attenta, presente ma distante, eterea, tanto da esistere e consistere se non in quella, una voce senza corpo senza odori senza gesti senza sguardi alla quale si può finanche rimproverare un sospiro. Come gli amori reali anche l’amore virtuale se ne andrà, finirà di esistere nella sua non esistenza reale, come se anche l ultimo baluardo di speranza di potere finalmente avere un amore in tutta quella solitudine, sia appunto un abbaglio, fatto di ricordi che rimandano solo a te stesso. Ma non è forse così, sempre? La virtualità delle relazioni prende forma in una realtà bucata, nella incolmabile solitudine sentimentale, quella si, senza tempo. Theodoro abbandonato a quel punto fa l unica cosa concreta e reale s affaccia sui tetti della città illuminata con la sua amica, anch’ella in preda alla devastazione abbandonica prima reale, il marito la lascia per farsi Monaco buddista, poi virtuale, quella con la voce di un’ amica che esiste soltanto in un suono fatto da algoritmi, e restano lì, insieme, seduti su un tetto a guardare il mondo, quel mondo che seppure ingrato e lontano è l unico dato, e per i tanti modi attraverso i quali lo si possa rappresentare, reale. Se vivi, possa tu vivere per ciò che sei, nella tua fallace contraddittoria insostituibile tangibilità, perché niente e nessuno può sostituirsi e sostituirci nell’ineffabile avventura del rapporto umano fatto, quello si, di stupidi abbracci, di inevitabili baci.

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