Diana – la storia segreta di Lady D, è un film del 2013 diretto da Oliver Hirschbiegel, tratto dalla biografia ricostruita da Kate Snell, incentrato sugli ultimi anni di vita della principessa e in particolare sulla storia d’amore tra Diana (impersonata da Naomi Watts) e il dottore anglo-pakistano Hasnat Khan (Naveen Andrews).
Sarà stata l’immagine del poster, il cui unico scopo sembra dover dimostrare la somiglianza meticolosamente ricercata tra l’attrice e la principessa, già sovraesposta su migliaia di tazze in memoriam sulle strade di Londra; saranno state le critiche feroci che il film ha incassato, e che hanno portato la stessa Watts a discostarsene con un po’ di imbarazzo; sarà stata la stroncatura dello stesso medico che ha liquidato il film come la versione romanzata e melensa di ciò che – effettivamente – solo lui conosce. Per tutti questi motivi, il film non ha destato particolare interesse. Tuttavia, se è vero che sicuramente la storia si concede qualche pomposità, è anche vero che la questione della somiglianza andrebbe approfondita riconoscendo a Watts una certa bravura – o almeno impegno – nel riproporre sguardi e atteggiamenti che davvero ricordano Diana non per mera imitazione, ma con partecipazione. L’attrice deve aver condotto un vero e proprio studio sulla principessa, basta confrontare l’esercizio della sua mimica con le espressioni di Diana colte durante la famosa intervista alla BBC del novembre del 1995; e se c’è chi ha asserito che il film ritrae una Diana troppo ragazzina, a me ha colpito realizzare, proprio dopo la visione del film, che Diana Spencer è morta a trentasei anni. Naomi Watts è riuscita a strappare Diana da quel ritratto un po’ troppo imbalsamato di donna che non può essere giovane perché l’età, dai suoi vent’anni, le è stata sempre assegnata dai ruoli; e invece no, magari con qualche leziosità, ma sullo schermo c’è una giovane donna di trentasei anni, logorata già da tanta vita, ma che si innamora, vuole essere riamata e tenta un’ultima disperata rimonta per una vita un po’ più normale. Che usa il potere accumulato nella vecchia vita per fare del bene.
Non è stata banale la scelta dei momenti da riproporre; scene ri-proposte in quanto spesso basate sulle tante testimonianze mediatiche (carpite con l’assenso o no) a nostra disposizione sulla vita (pubblica e non) dei reali d’Inghilterra. Una su tutte svela l’attenzione sulla cucitura del racconto: parlo della splendida scena in cui Diana è seduta, anzi poggiata, sulla passerella dello yacht di Al-Fayed (nel film la relazione ne esce come una sorta di farsa), sospesa sull’acqua, le gambe dorate penzoloni, un costume azzurro che segue il corpo sinuoso, la testa girata a lanciare uno sguardo distante e un gabbiano che le vola vicino; scena ispirata alla fotografia della Getty Images: pur in uno scenario lussuoso, l’immagine della solitudine assoluta.
Il film racconta una storia d’amore che cede sotto il peso della notorietà, e di vite che si concludono come è noto. Il riferimento all’intimità, agli spazi violati e alla ricerca di relazioni umane sincere è costante (il video Substitute for love di Madonna, del 1998, sembra sintetizzare https://www.youtube.com/watch?v=6rsdGjNWiIw). Diana aveva conosciuto il riservato Khan durante una visita in ospedale, ingaggiando con lui un tentativo di relazione o di normalità. Certo, vedere sul grande schermo la principessa che va a casa di lui, gli lava i piatti e lascia tracce del suo passaggio, lascia perplessi; ma se oltre questo si riesce a leggere in quell’atto di cura uno sforzo di riappropriazione di una dimensione più umana, un reclamare un’identità di persona non ingigantita dall’ombra prodotta dai flash, si può capire.
E finisce, perché finisce la relazione e poi la vita, e resta solo la poesia (di Rumi): ‘Ben oltre le idee di giusto e sbagliato, c’è un campo. Ti aspetterò lì’.