UK – Obama: “L’accordo tra Ue e Usa porterà miliardi alle nostre economie e farà da modello per il resto del mondo”

Il Regno Unito deve rimanere nella Ue non solo per ragioni economiche ma anche per permettere di combattere “più efficacemente” il terrorismo. Lo ha detto Barack Obama, a Londra con la moglie Michelle, dalle colonne del Daily Telegraph che oggi pubblica un suo messaggio all’alleato britannico. Parole nette, al di là di ogni diplomazia: con il presidente americano che oltre ai vantaggi economici del legame di Londra con Bruxelles, sottolinea l’interesse degli Stati Uniti che guardano con apprensione al referendum britannico sulla Brexit del prossimo 23 giugno, per decidere se restare o meno in Europa. Concetti poi ripetuti parlando a Londra durante la conferenza stampa congiunta con il primo ministro del Regno Unito, David Cameron e che hanno scatenato la dura reazione del sindaco di Londra che è arrivato a definire il presidente “un mezzo keniano”. Un attacco evidentemente non condiviso dal premier Cameron che ha definito Obama “un uomo che dà saggi consigli ed un grande amico del Regno Unito”.

All’intervento di Barack Obama sul Daily Telegraph, il sindaco Johnson ha risposto con un articolo sul Sun. Dove non solo definisce l’appello del presidente americano “incoerente, inconsistente e assolutamente ipocrita” aggiungendo che “gli Stati Uniti chiedono alla Gran Bretagna di restare nell’Ue ma non cederebbero mai il controllo di così tanta parte della loro democrazia come ha fatto il Regno Unito con Bruxelles”. Ma si appropria anche del celebre slogan elettorale di Obama “Yes we can”, piegandolo alla campagna referendaria degli euroscettici per dire che la Gran Bretagna “può riprendersi il controllo dei suoi confini, del suo denaro e del suo sistema di governo”.
Ma la polemica non finisce qui: nell’articolo sul Sun Johnson ricorda infatti un episodio, secondo cui Obama avrebbe fatto rimuovere dallo Studio Ovale un busto del celebre premier inglese Winston Churchill. Per il sindaco di Londra “l’esempio dell’avversione ancestrale del presidente mezzo keniano per l’impero britannico, di cui Churchill fu uno dei più ferventi difensori”. Peccato che l’episodio citato sia in realtà falso: la decisione di rimuovere il busto fu presa, in realtà, dal predecessore di Obama, George W. Bush, e certo non per motivi politici.

“Adoro Winston Churchill, un suo busto è appena fuori il mio ufficio”, è stata la risposta di Obama.

La gaffe di Johnson fa insorge il Labour che le definisce parole “offensive e razziste”. Prende le distanze anche il premier David Cameron, in una conferenza stampa a Londra con il presidente Usa, senza citare esplicitamente la Brexit e le affermazioni del sindaco di Londra: Barack Obama “è un uomo che dà saggi consigli ed è un grande amico”, ha detto. Per Cameron la Gran Bretagna resterà un forte alleato degli Stati uniti e dell’Europa. Il premier ha comunque fatto riferimento all’accordo di libero scambio tra Ue e Usa: “Porterà miliardi alle nostre economie e sarà da modello per il resto del mondo”, ha detto il premier riguardo all’intesa da cui il Regno Unito rischia di essere escluso qualora decidesse di uscire dall’Unione Europea al referendum in programma a giugno.

“Legittime le opinioni di leader stranieri”. Il premier britannico ha spiegato che la presenza o meno della Gran Bretagna nell’Ue ha conseguenze anche sugli altri Paesi europei e “su partner come gli Usa”, per questo le opinioni di leader stranieri sul referendum del 23 giugno (“che non è un’elezione politica”) sono legittime. Poi, semplificando, Cameron ha ricordato il ruolo avuto dal suo Paese per garantire, d’intesa con Washington, l’imposizione recente di sanzioni contro Mosca per quella che ha definito “l’aggressione della Russia” in Ucraina e ha aggiunto di non essere “sicuro” che tali sanzioni sarebbero state imposte e mantenute nello stesso modo se il Regno Unito fosse stato fuori dal Club dei 28.

Obama ribadisce: “No alla Brexit”. Durante la conferenza stampa, il presidente americano ha sottolineato che decidere se restare o meno nell’Unione Europea è una questione che riguarda i cittadini britannici, ciò premesso ha ribadito la sua contrarietà alla Brexit e ha rimarcato il vantaggio politico ed economico, anche per gli Stati Uniti, di una permanenza del Regno Unito nel Club dei 28: gli Usa “vogliono che l’influenza britannica cresca, anche nella Ue”, ha detto il presidente americano sottolineando di aver “parlato onestamente” al riguardo: “Il risultato del referendum è di grande interesse per gli Stati Uniti. Perché gli Stati Uniti vogliono un Regno Unito forte e il Regno Unito dà il suo meglio quando è all’interno di un’Europa forte. E questo avviene facendo parte dell’Unione europea”.

“Benefici se Londra nella Ue”. Secondo il presidente Usa “l’Unione europea amplifica i valori britannici, il mercato unico porta benefici al Regno Unito e per gli Usa è meglio quando uno dei suoi più forti alleati ha un’economia in crescita. Gli americani vogliono vederla crescere anche dentro l’Europa. Nel mondo di oggi servono azioni collettive. Gli Usa riconoscono che si rafforza la sicurezza e la prosperità con la Nato, col G20. E il Regno Unito si rafforza attraverso l’Unione europea”. Oggi, ha sottolineato Obama, “non sono le nazioni che fanno da sole a far sentire la loro voce ma quelle che fanno squadra. Vogliamo fare in modo che l’influenza della Gran Bretagna venga ascoltata perché quando il Regno Unito è coinvolto in un problema riesce ad affrontarlo e risolverlo nel modo giusto”.

“In Libia abbiamo l’opportunità di sostenere un nuovo governo” e di contrastare l’infiltrazione “degli estremisti” dell’Isis, ha detto Obama. “Non ci sono piani per l’invio di truppe di terra in Libia” ha chiarito il presidente degli Stati Uniti. “Non credo che sia necessario. Non credo” che i soldati “sarebbero i benvenuti”. L’invio dei soldati “manderebbe il segnale sbagliato”, ha aggiunto Obama sottolineando la sintonia e gli sforzi comuni di Usa e Gran Bretagna anche su altri dossier mediorientali, a cominciare dalla Siria. A questo proposito Obama non ha nascosto di essere “gravemente preoccupato” per la tenuta della tregua e di essere “scettico” sulle intenzioni del presidente russo Vladimir Putin, indicato come uno dei maggiori sostenitori del “regime assassino” di Bashar al-Assad. Ma allo stesso tempo ha sottolineato che una riduzione della violenza c’è stata nel Paese dopo gli accordi di cessate il fuoco e che la crisi siriana non può essere risolta senza un negoziato politico che coinvolga anche interlocutori “con i quali non siamo d’accordo” su diversi punti.

Durante il vertice i due leader hanno anche parlato della questione migranti: una sfida, a livello europeo e internazionale, da affrontare valutando la possibilità di un impiego della Nato anche nel “Mediterraneo centrale”, vale a dire a largo della Libia. Ma della questione migranti e di come colpire i trafficanti di persone “si parlerà meglio nel summit di lunedì ad Hannover con Francia, Germania e Italia”, ha aggiunto Cameron.

“La regina è un gioiello”. Inevitabile, poi, un riferimento a Elisabetta II: “La vostra regina è stata una fonte di ispirazione per me come lo è per tanta gente nel mondo. È una delle mie persone preferite. È sbalorditiva e fantastica. È un gioiello per il mondo intero e non solo per il Regno Unito”.

Sabato, ultimo giorno della sua visita nel Regno Unito prima di partire per la Germania dove incontrerà Angela Merkel, Obama parteciperà a una riunione municipale con giovani londinesi dove si parlerà proprio dei rapporti tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes ha riferito che durante la riunione di sabato Obama potrebbe ancora una volta esprimere il suo punto di vista su “Brexit”.




FRANCIA – Le vittime libanesi non interessano nessuno

Le fiamme che venerdì scorso hanno illuminato Parigi, pregne di morte e rabbia, hanno scosso le coscienze del mondo intero, provocato sdegno e generato intolleranza negli animi di chi ha sempre provato un’insofferenza latente nei confronti dei musulmani. Ad essi, però va ricordato che i terroristi dell’Isis hanno massacrato in Libano, due giorni prima degli attentati verificatisi a Parigi, 44 persone e ferito 139, tutti musulmani, ma le vittime libanesi non interessano a nessuno, come peraltro i 224 turisti deceduti nell’esplosione dell’aereo passeggeri recante bandiera russa, nei pressi della regione del Sinai. Durante la notte i jihadisti hanno esultato sui social network, postando messaggi come:”Ricordate, ricordate il 14 novembre di #Parigi. Non dimenticheranno mai questo giorno, così come gli americani l’11 settembre”, “La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”. La replica di Hollande è stata di far bombardare le basi strategiche e di addestramento dell’Isis, in Siria, sostenendo di non aver ucciso durante il raid alcun civile, come se gli ordigni sapessero distinguere e colpire solo gli jihadisti. Il giorno dopo la mattanza compiuta dai terroristi, la capitale francese si è svegliata stordita, sui muri erano ancora affissi alcuni manifesti che riportavano lo slogan “Je suis Charlie”, ricordando e denunciando il massacro avvenuto nella sede della testata satirica Charlie Hebdo, con l’unica differenza che in quell’occasione i monumenti erano stati tappezzati con matite, mentre in questi giorni la gente posa su di essi dei fiori. La gente s’incontra per strada, si abbraccia, cerca conforto nel dialogo, spesso s’incontravano per le strade gruppi di gente tra di essa sconosciuti. Uno dei luoghi colpiti dai terroristi venerdì è stato il teatro Bataclan, quando gli attentatori hanno fatto irruzione nella sala, era in corso il concerto della band statunitense Eagles of Death Metal,in cui ha perso la vita la studentessa italiana Valeria Solesin. Sin da subito, la priorità della polizia francese, è stata quella di arrestare la mente del commando, ossia il belga Abdelhamid Abaaoud, morto assieme a sua cugina, che si è fatta esplodere durante lo scontro a fuoco del 18 novembre, in cui le teste di cuoio hanno arrestato otto probabili jihadisti. Il clima di terrore, sta portando i paesi europei a rafforzare le misure di sicurezza, infatti nei giorni seguenti sono state sospese due partite di calcio, la prima tra Spagna e Belgio e la seconda ad Hannover tra Germania e Olanda a causa di un pacco contenente esplosivo. Avrebbe dovuto assistere a quest’ultima partita anche la cancelliera tedesca Angela Merkel.




EUROPA – Profughi: interviene l’Ue. Scontri a Mantova e in Germania, tragedia in Austria

Slogan minacciosi, offese reciproche, tensione che si taglia con il coltello. Finché non arrivano anche le botte: qualche pugno dei manifestanti di estrema destra colpisce gli agenti della polizia e questi, per tenere i neofascisti a distanza, alzano i manganelli e li fanno indietreggiare.

Da una parte circa 150 manifestanti scesi in piazza Sant’Isidoro per dire no all’accoglienza dei profughi ospitati all’ex hotel Maragò, dall’altra una quarantina di esponenti di associazioni di sinistra (La Boje, Mantova Antifascista). In mezzo gli agenti della polizia in tenuta antisommossa. Fuori dal palcoscenico della serata di violenza  sono rimasti loro, i profughi: un convitato di pietra attorno al quale si è sviluppata una serata che la città non è certo abituata a vivere.
La questura aveva autorizzato entrambe le manifestazioni ma con un veto preciso: nessun contatto tra i due gruppi né, naturalmente, tra i neofascisti e la struttura che ospita i migranti. Ma che non tirasse una buona aria si era capito già quando, in favore di telecamera, erano partiti i primi slogan da destra. In piazza – al di là del sedicente comitato apartitico per “Mantova ai virgiliani” – esponenti di Fronte Skinheads e Forza Nuova, guidati dal coordinatore del Nord Luca Castellini, e più di una voce che inneggiava al leader della Lega Nord, Matteo Salvini. Gruppi che, lo avrebbero spiegato loro stessi nel corso della serata, muovono soprattutto da Brescia e Verona e si spostano di città in città per protestare contro l’accoglienza dei profughi.

Poco dopo le 21 il momento di maggior tensione. I neofascisti hanno provato a superare il limite imposto dalla questura per procedere lungo via Stazione: in quella direzione avrebbero incontrato prima l’hotel dei profughi e poi, poco oltre, il presidio di La Boje. Quando si sono frapposti, alcuni agenti sono stati colpiti: inevitabile a quel punto la reazione della polizia che ha colpito i manifestanti con una rapida serie di manganellate. Non una carica prolungata o particolarmente violenta, ma sufficiente a far arretrare i manifestanti (uno dei quali, riferiscono, sarebbe rimasto ferito alla testa). Una notizia però non confermata. «Vogliamo andare dal titolare dell’hotel e dirgli che è un pezzo di m… – dicono alla cronista della Gazzetta – perché si arricchisce con i soldi dell’accoglienza dei profughi, con i soldi degli italiani».
All’inizio della serata era presente anche Luca De Marchi, consigliere comunale ex leghista. Che poi, visto il tenore della manifestazione, se n’è andato. I neofascisti lo hanno accusato di codardia, ma lui prende nettamente le distanze: «Io sono un uomo delle istituzioni: se la questura dice di rimanere in piazza Sant’Isidoro, io non vado oltre. Sono rimasto lì con il mio popolo, fatto di gente comune che i profughi non li vuole ma che non si scontra con la polizia. Sono volati pugni e manganellate? È una roba penosa che Mantova non merita».
Sempre a distanza la quarantina di simpatizzanti di La Boje e Mantova Antifascista: «Questi neofascisti replicano lo stesso schema in tutte le città in cui vanno – attacca Enrico Lancerotto di La Boje – provano a convogliare la rabbia della gente contro delle persone che hanno la sola colpa di scappare dalle guerre».

Angela Merkel bacchetta Italia e Grecia sull’emergenza profughi: i centri di registrazione dei profughi nei due Paesi vanno realizzati rapidamente, entro l’anno. Parigi e Berlino ritengono che, nell’emergenza attuale, i ritardi siano inaccettabili. Anche sulla gestione dei profughi, una situazione «straordinaria» in cui si trova l’Europa, Angela Merkel e François Hollande hanno accordato le voci, lanciando a Berlino un documento di lavoro comune, affidato ai reciproci ministri dell’Interno. Oltre a un richiamo all’unisono ai Paesi membri che non rispettano la piena comune applicazione del diritto d’asilo in Europa. La bilaterale col presidente francese ha preceduto di poco un incontro a tre con il presidente ucraino Petro Poroshenko sulla situazione nell’Est del Paese per rilanciare gli accordi di Minsk.

Merkel e Hollande hanno chiesto, incontrando la stampa in un primo momento da soli, che la Commissione europea «prema sui Paesi che non rispettano le condizioni del diritto d’asilo, per fare in modo che finalmente si verifichi». «Si tratta della registrazione, degli standard minimi dei centri di accoglienza e degli standard minimi sulle forniture sanitarie», ha puntualizzato la cancelliera. Poi il passaggio che riguarda Roma e Atene: «I capi di governo hanno stabilito che vengano allestiti dei centri di registrazione nei Paesi colpiti dai primi arrivi, come la Grecia e l’Italia, mettendo a disposizione personale comune. Questi centri devono essere fatti velocemente, entro l’anno. Ritardi non possono essere accettati», ha avvertito la cancelliera.
Le ha fatto subito eco Hollande, che ha rivendicato «un’accelerazione» su questo fronte. «È indispensabile» – ha insistito a sua volta il presidente- «che questi centri vengano realizzati, per registrare chi arriva sulle nostre coste e che qui si prendano le doverose decisioni su quelli che hanno diritto e quelli che non possono essere accettati». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ribadito l’allarme generale che vive il continente, alle prese con una sfida «molto difficile»: «Ci sono volte in cui l’Europa si trova di fronte a situazioni straordinarie. Questa è una situazione straordinaria», ha affermato, e «nessun Paese può risolvere da solo» il problema. Serve una stretta cooperazione europea. È Stata invece Merkel a ricordare che nell’Ue la «distribuzione (dei profughi) non è ancora equa».
TUMULTI IN GERMANIA – Gli ammonimenti arrivano a ridosso di un week-end difficilissimo in Germania, dove si sono verificati gravi tumulti in Sassonia, con 30 agenti feriti e panico fra i rifugiati. Merkel è alle prese con i numeri inattesi dei richiedenti asilo nel suo Paese – oltre 800 mila quelli stimati per il 2015, il doppio della cifra calcolata fino a qualche giorno fa – e l’insofferenza di frange di popolazione innescate dai populisti anti-immigrati di Pegida e dagli estremisti di destra.

BUDAPEST – Tragedia dell’immigrazione in Austria: da 20 a 50 rifugiati sono stati trovati morti in un tir abbandonato lungo l’autostrada orientale A4 tra il Burgenland Neusiedl e Parndorf. I migranti sarebbero rimasti asfissiati nel cassone. L’episodio arriva dopo l’ennesima strage nel Canale di Sicilia: ieri sono state trovate morte 51 persone su un’imbarcazione diretta dalla Libia all’Italia e nello stesso giorno in cui un nuovo dramma si concretizza in mare, con numerose vittime per un naufragio al largo delle coste nordafricane.

In una conferenza stampa, gli inquirenti austriaci hanno spiegato che c’è il sospetto che i profughi fossero morti già da un giorno e mezzo o due. Sarebbero morti prima di varcare il confine tra Ungheria e Austria. Il camion era fermo su una piazzola d’emergenza sull’autostrada orientale A4, tra le città di Neusiedl e Parndorf. Alla guida non c’era nessuno. La polizia sta dando la caccia al conducente del veicolo, del quale non si ha alcun indizio. Il camion ha richiamato l’attenzione degli agenti perchè da varie ore era fermo. Il capo di Gabinetto del premier ungherese Viktor Orban ha fatto sapere che la targa del veicolo è ungherese, intestata ad un cittadino romeno. La polizia ungherese sta lavorando con le autorità austriache per scoprire che cosa sia accaduto e chi sia responsabile dei decessi dei migranti.

Appello all’unità dalla Ue –  a Vienna i leader europei erano riuniti per un vertice sui Balcani occidentali. E in serata la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato: “Abbiamo raggiunto con Italia e Grecia l’accordo sul fatto che i cosiddetti centri di registrazione o Hot Spots debbano essere allestiti entro la fine dell’anno”. Merkel ha anche detto che “Italia e Grecia potranno accettare centri del genere, soltanto se altri Paesi sono pronti ad accogliere la loro quota di asilanti.

Da parte della Commissione Ue, nel pomeriggio, era arrivato un appello all’unità, davanti alla tragedia austriaca. In una nota si invocano “azioni comuni e solidarietà tra tutti”: “C’è la necessità urgente che tutti gli Stati membri sostengano le proposte avanzate dalla Commissione, anche chi sinora è stato riluttante”. Si sottolinea inoltre come ci si trovi di fronte “non a una crisi italiana, greca, franco-tedesca ungherese, ma europea”.

Il ministro dell’Interno austriaco, Johanna Mikl-Leitner, ha chiesto all’Ue di istituire subito dei centri di accoglienza sui confini dell’Unione europea “per permettere il trasferimento in sicurezza di profughi nei 28 stati membri”. Poi ha aggiunto: “Questo è un giorno buio, è necessaria tutta la forza e tolleranza zero contro i trafficanti di esseri umani”.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha espresso la propria solidarietà, amicizia e vicinanza al Cancelliere austriaco Werner Faymann di fronte alla drammatica notizia dei morti asfissiati nel camion. “Una morte assurda, che sconvolge la coscienza di ognuno di noi e che sottolinea, una volta di più se ce ne fosse ancora bisogna, la centralità e l’urgenza del tema dell’immigrazione in una Europa dove tornano ad erigersi muri”.

Siamo tutti sconvolti dalla notizia agghiacciante dei profughi morti nel tir. Questo è un ammonimento all’Europa a offrire solidarietà e a trovare soluzioni”, ha affermato la cancelliera tedesca Angela Merkel, per poi aggiungere: “Troveremo il modo di distribuire il carico e le sfide in modo equo”. Poco prima era intervenuto anche il ministro dell’Interno tedesco Thomas De Maiziere che ha ribadito in una conferenza stampa a Berlino “l’urgenza dei centri in Grecia e Italia” da allestire entro la fine di questo anno. Un invito che era arrivato pochi giorni fa anche dalla stessa Merkel e dal presidente francese Francois Hollande.

“Abbiamo un obbligo morale e legale di proteggere i rifugiati” e serve un “approccio europeo” alla gestione della crisi in corso, ha affermato l’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini, che ha rivelato che si sta lavorando a nuove proposte, con l’elaborazione di “una lista comune di Paesi d’origine sicuri e un meccanismo di ricollocazione”.

Record di arrivi in Ungheria. Intanto la rotta balcanica continua ad essere presa d’assalto dai migranti. Le previsioni espresse dall’Unhcr nei giorni scorsi sembrano trovare conferma nella realtà: nelle ultime 24 ore, secondo quanto riferito dalla polizia magiara, tremila migranti (tra cui 700 bambini) hanno raggiunto l’Ungheria. Si tratta del numero maggiore di arrivi in un solo giorno in Ungheria, dove dall’inizio dell’anno sono entrati 140 mila migranti della rotta balcanica, più del doppio rispetto all’intero 2014. Secondo il governo ungherese si potrebbe arrivare alla cifra di 300mila migranti alla fine dell’anno.

Nonostante la decisione di Budapest di erigere la barriera metallica lungo il confine con la Serbia (nei piani del premier Orban dovrebbe essere terminata il 31 agosto) i migranti riescono comunque ad oltrepassare il confine, e per questo le autorità hanno disposto l’invio di ulteriori 2.100 poliziotti alla frontiera, con cani, cavalli e l’appoggio degli elicotteri.

Il partito del premier Viktor Orban intende inoltre chiedere al Parlamento l’autorizzazione all’invio dell’esercito per bloccare l’enorme flusso migratorio. Secondo la polizia tale incremento di arrivi si spiega con il desiderio dei migranti di raggiungere l’Ungheria prima del completamento del muro “difensivo” previsto entro la fine di agosto.

Ieri la polizia ungherese ha lanciato gas lacrimogeni contro i profughi siriani nell’affollato campo d’accoglienza di Roszke, presso la frontiera con la Serbia. Gli scontri sono scoppiati dopo il rifiuto dei migranti di farsi registrare e prendere le impronte digitali, nel timore di essere poi costretti a chiedere asilo a Budapest, mentre il loro obiettivo è raggiungere il nord Europa.

Il grande afflusso di migranti sulla rotta balcanica, iniziato con l’approdo di migliaia di persone sull’isola greca di Kos, ha messo a dura prova Serbia e Macedonia, chiamate a fronteggiare un evento di difficile gestione. Oggi Belgrado e Skopje hanno chiesto un piano d’azione all’Unione Europa per rispondere alla crisi. “A meno che non abbiamo una risposta europea a questa crisi, nessuno si deve illudere che possa essere risolta”, ha detto il ministro degli Esteri macedone, Nikola Poposki, intervenendo al vertice, in corso a Vienna, tra la Ue ed i Paesi balcanici.

La questione dell’immigrazione è ovviamente al centro del “Western Balkans Summit”, secondo vertice del “Processo di Berlino” avviato con la conferenza dello scorso agosto. Vi partecipano capi di Governo e ministri di 6 Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia), di Germania, Austria, Francia, Italia, Croazia e Slovenia, ed inoltre il presidente della Commissione Ue, l’Alto Rappresentante Ue per gli Affari Esteri e il Commissario UE per l’Allargamento. Per l’Italia è presente il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.




GRECIA – La Germania vota l’accordo. Voto favorevole per salvare Atene

«So che ci sono molti dubbi sul fatto che la Grecia possa stare di nuovo sulle sue gambe, ma sarebbe irresponsabile non tentare questa strada e non dare una nuova chance alla Grecia». Esordisce così Angela Merkel al Bundestag riunito per pronunciarsi sull’apertura dei negoziati per un terzo pacchetto di aiuti alla Grecia. Il voto favorevole è dato per scontato malgrado la crescente opposizione all’interno della maggioranza. Nel corso di una riunione che si è svolta ieri, 48 esponenti del blocco conservatore dei 311 deputati che fa capo alla cancelliera hanno annunciato l’intenzione di votare contro.

Per il premier greco Alexis Tsipras l’intesa raggiunta è il risultato di una “dura battaglia” che pone il popolo greco “di fronte a decisioni difficili”. Ma queste decisioni, ha insistito, “permetteranno di mantenere la stabilità finanziaria della Grecia e daranno la possibilità del rilancio. L’applicazione non sarà facile”.

L’accordo in 5 punti:

1 – Un prestito dell’European Stability Mechanism (il fondo salva-stati) da 82-86 miliardi in tre anni.
L’accordo prevede che se il programma economico concordato rispetterà i dettagli e il calendario, sarà possibile prevedere un alleggerimento del debito con scadenze più lunghe e un periodo di grazia sui pagamenti.

2 – Creazione di un fondo indipendente di circa 50 miliardi stabilito in Grecia.
Si tratta di una piccola ma importante vittoria per Tsipras. Il fondo, infatti, non avrà sede in Lussemburgo, come inizialmente ipotizzato, sarà gestito dai greci anche se con la continua supervisione dell’istituzioni europee. Nel fondo saranno trasferiti dal governo asset da privatizzare: 25 miliardi saranno usati per la ricapitalizzazione delle banche, 12,5 miliardi per la riduzione del debito e 12,5 miliardi per investimenti per il rilancio della crescita.

3 – Riforme urgenti, entro mercoledì.
Il governo greco dovrà tradurre in legge tra domani e mercoledì alcune riforme urgenti. Solo da quel momento si definirà negli aspetti più tecnici l’intervento dell’Esm. Tra gli interventi più duri e immediati che il governo ellenico dovrà mettere in opera ci sarà la modifica delle aliquote Iva, con l’allargamento della relativa base fiscale, e la riforma del sistema pensionistico con l’abolizione delle baby-pensioni. Entro il 22 luglio, Atene dovrà anche intervenire sull’adozione del nuovo codice di procedura civile e la trasposizione delle norme europee per la risoluzione bancaria.

4 – I settori di intervento
Ci sarebbero altri settori d’intervento previsti dall’accordo e già al centro delle trattative nelle scorse settimane: l’apertura dei settori commerciale, della proprietà delle farmacie, di certe professioni come il trasporto via mare; la privatizzazione dell’operatore di trasmissione dell’elettricità Admie “a meno che non ci siano misure con effetti equivalenti sulla concorrenza”; revisione della contrattazione collettiva comprese le norme sui licenziamenti “con un calendario e un approccio concordato con le istituzioni”; misure per il settore finanziario in particolare per i crediti in sofferenza e per eliminare “le interferenze politiche soprattutto nelle nomine”.

5 – la nuova Troika
Torna uno degli elementi più contestati da Tsipras. Nel testo dell’accordo viene chiarito come il controllo dei creditori diventerà invasivo e spalmato su tutte le principali scelte pubbliche. Il governo greco, infatti, dovrà necessariamente consultare i creditori “su tutte le leggi sulle aree rilevanti prima della discussione in parlamento”.




GRECIA – Il Coniglio di Stato boccia il ricorso. Il 5 luglio si andrà al voto

Il referendum sul programma di aiuti proposto dai creditori è costituzionale. Il Consiglio di Stato boccia il ricorso contro il quesito e cade così anche uno degli ultimi ostacoli sulla strada della consultazione popolare in Grecia: domenica 5 luglio gli elettori potranno esprimersi a favore o contro il piano.

Al popolo greco è chiesto di decidere se accettare o meno una bozza di accordo tra la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale avanzata all’incontro dell’Eurogruppo del 25 giugno e che consiste in due documenti: il primo si chiama “Riforme per il completamento dell’attuale programma e per andare oltre” mentre il secondo si chiama “Analisi preliminare della sostenibilità del debito”.
– Se si rifiutano le proposte delle istituzioni, votare Non Approvo / NO.
– Se si accettano le proposte delle istituzioni, votare Approvo / SI.

Nel caso di una vittoria dei Sì  il governo di Alexis Tsipras sarebbe politicamente nei guai: avendo fatto campagna per il No e avendo criticato l’accordo oggetto della consultazione, ne uscirebbe sconfitto e sconfessato dagli elettori. Il ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha già annunciato che se vinceranno i Sì lascerà il suo incarico; Tsipras non è stato altrettanto esplicito ma ha fatto capire di non essere “un uomo per tutte le stagioni”. La vittoria del Sì renderebbe praticamente inevitabile un accordo con l’UE sulla base delle condizioni richieste a giugno, ma non è detto che Tsipras abbia intenzione di firmarlo: è plausibile che dopo un’eventuale sconfitta al referendum si dimetta e che a quel punto i partiti che hanno fatto campagna per il Sì formino un nuovo governo di unità nazionale, con l’obiettivo minimo di concordare le condizioni per il prestito.

Se vincessero i No Il governo Tsipras uscirebbe dal referendum immediatamente rafforzato e potrebbe ripresentarsi davanti alle autorità europee con una nuova legittimazione popolare, chiedendo e sperando di ottenere modifiche favorevoli alle richieste dei creditori per ottenere un nuovo prestito. La vittoria del No sarebbe anche una sconfitta politica per i leader europei che hanno sostenuto la linea più dura, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, e che hanno scommesso su un indebolimento del governo Tsipras e delle posizioni della Grecia.
Tsipras ha detto che la vittoria del No farebbe ripartire i negoziati e permetterebbe di ottenere un accordo migliore per la Grecia, ma non sarebbe comunque facile: la ragione è che in ogni caso la Grecia sta finendo i soldi e senza un prestito internazionale è destinata alla bancarotta, che vinca il Sì o che vinca il No.

A poche ore dalla chiamata alle urne, mentre i sostenitori dei due schieramenti opposti scendono in piazza per le ultime manifestazioni, cresce la tensione sul fronte Atene-Bruxelles. Fonti dell’agenzia Reuters hanno rivelato che le potenze europee avrebbero cercato di bloccare il report del Fmi (poi diffuso giovedì 2 luglio) in cui si chiedeva di tagliare il debito greco: un documento che è subito diventato uno dei punti a cui si aggrappa il premier Tsipras nelle sue argomentazioni per il “no” e che mette in difficoltà l’Ue. Dal punto di vista finanziario, le banche greche hanno fatto sapere di avere la disponibilità di un miliardo di euro fino a lunedì. Poi, in base al risultato del voto, sarà la Bce a decidere come comportarsi. Il vicepresidente della Banca centrale europea Vitor Constancio ha già fatto sapere che “se vincerà il sì, si potrebbe allentare la stretta sui fondi della liquidità d’emergenza. Se vincerà il no, allora sarà più difficile per l’intesa essere raggiunta”.

L’ennesima giornata di passione per i greci si chiude con due manifestazioni ad Atene dei due schieramenti opposti per il referendum. Circa 25mila le persone a piazza Syntagma, per sostenere il fronte del ‘no’. Qui non sono mancate le tensioni poco prima dell’inizio dell’evento: circa 300 persone con il volto coperto dai passamontagna hanno cercato di forzare un cordone di poliziotti posto all’inizio di via Ermou. Nei pressi dello stadio Panathenian, invece, il raduno di coloro che propendono per il ‘sì’: stando alla polizia, 17mila i partecipanti.

Dopo la diffusione dei risultati di un sondaggio ancora incompleto sulle intenzioni di voto dei greci, la cautela è d’obbligo. Mentre il premier greco Alexis Tsipras invita i cittadini a non farsi suggestionare (“È meglio stare calmi e aspettare che il popolo prenda nelle sue mani il suo futuro. Andiamo a votare tranquilli”), il presidente della commissione Ue Jean-Claude Juncker continua a schierarsi per il “sì” (“Se i greci rifiuteranno il programma di aiuti, la posizione della Grecia sarà drammaticamente indebolita”). Il leader greco poi attacca il Fondo monetario internazionale: “Ora l’Fmi afferma che il debito greco può essere sostenibile solo con un taglio del 30 per cento e un periodo di grazia di 20 anni”. Ma questo rapporto, diffuso nelle scorse ore, “non è mai stato condiviso con le istituzioni nei cinque mesi in cui abbiamo negoziato”.

Tutti gli occhi sono puntati però sul risultato. Per il momento sono i numeri stessi a non consentire un’analisi: i nuovi rilevamenti aggiornati a venerdì 3 luglio, quando in Grecia mancano due giorni alla consultazione, fotografano una situazione in bilico, con l’elettorato diviso quasi perfettamente a metà tra favorevoli e contrari. Secondo quello realizzato dalla società Alco per il quotidiano Ethnos, i sì sarebbero al 44,8% mentre i no si attesterebbero al 43,4%. Gli indecisi scendono all’11,8%. In compenso il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona e solo il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale. Spaccatura degli elettori e sostanziale parità sono confermate anche da un sondaggio commissionato da Bloomberg all’università della Macedonia: no al 43%, sì al 42,5.

Considerato il numero degli indecisi e il margine di errore di qualsiasi poll, impossibile trarre conclusioni. Il sostegno al no, cioè la posizione sostenuta dal governo, è comunque calato rispetto allo scorso sabato, quando si attestava a oltre il 50%. Nella notte il premier Alexis Tsipras ha parlato di nuovo in tv garantendo: “Il giorno dopo il referendum sarò a Bruxelles e un accordo sarà firmato” entro 48 ore dal voto. Mentre il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis ha detto che non solo un accordo è in vista” anche con la vittoria del no, ma “è più o meno fatto”. Da Bruxelles, puntuale, è arrivata la smentita: se vincesse il ‘no’ “la posizione greca ne uscirebbe drammaticamente indebolita“, ha detto il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker. E “anche in caso di vittoria del ‘sì’- in seguito alla quale iTsipras ha fatto capire di essere pronto a dimettersi – dovremmo affrontare negoziati difficili”. Parole smentite duramente anche dal presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: “Un accordo già fatto? Affermazione totalmente falsa”.

Il fondo salva Stati: “Grecia ha fatto evento di default ma non chiediamo restituzione immediata dei prestiti” – Intanto il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf) ha diffuso un comunicato in cui attesta che Atene, non avendo pagato martedì la rata da 1,6 miliardi dovuta al Fondo monetario internazionale, ha fatto quello che viene definito un “evento di default”. Di conseguenza i Paesi dell’Eurozona che ne sono azionisti “si riservano il diritto di richiedere prima della scadenza il rimborso di 130,9 miliardi di euro di prestiti”. Vale a dire che per ora, come auspicato due giorni fa dal vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, hanno deciso di non chiedere il pagamento immediato, cosa che avrebbe accelerato il percorso della dichiarazione di default delle Gracia. Il capo dell’Efsf, Klaus Regling, ha detto però che “questo evento di default è motivo di profonda preoccupazione. Si rompe l’impegno assunto da parte della Grecia di onorare i suoi obblighi finanziari verso tutti i suoi creditori, e si apre la porta a gravi conseguenze per l’economia greca e il popolo greco”. L’Efsf resta “in stretto coordinamento con gli Stati membri dell’area dell’euro, la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale per decidere le sue azioni future”. In ogni caso il mancato pagamento greco “non ha alcuna influenza sulla capacità dell’Efsf di rimborsare i propri obbligazionisti. Gli investitori sanno che le obbligazioni Efsf beneficiano di una struttura di garanzia solida”.

Forniture problematiche nelle Cicladi a causa delle limitazioni ai pagamenti verso l’estero – Nel frattempo la popolazione, al quinto giorno con le banche chiuse e tetti ai prelievi ai bancomat, è sempre più in difficoltà. Secondo l’edizione online di Kathimerini, diverse isole dell’arcipelago delle Cicladi sono già alle prese con problemi di approvvigionamento, soprattutto per alcune categorie di generi alimentari, come la carne, e per le medicine. Alla base del problema, secondo la Camera di Commercio, c’è il fatto che le imprese locali non possono pagare i fornitori esteri a causa del limitazioni ai movimenti dei capitali. L’associazione ha chiesto al governo di intervenire per evitare ripercussioni sul turismo. Il vice ministro competente, Elena Kountoura, ha assicurato che da lunedì sono stati fatti tutti gli sforzi per dare priorità all’invio dei pagamenti di alberghi e ristoranti e limitare questi problemi. L’Associazione delle agenzie turistiche elleniche (Sete) calcola però che negli ultimi giorni il calo delle prenotazioni, rispetto alle attese, è stato superiore al 30 per cento.