ITALIA – Giorgiana Masi,vittima della violenza del regime.Roma, ponte Garibaldi, 12/5/1977

Di Andrea Zennaro

Non sorride ma il suo sguardo punta lontano, verso un futuro che non vedrà. Pur non essendo particolarmente bella, i suoi capelli lisci scuri le danno grazia. Con questa espressione si presenta la fanciulla, nell’unica fotografia nota con cui conosciamo il suo volto.

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È il pomeriggio del 12 maggio1977 quando una ragazza di diciannove anni cade a terra nei pressi di ponte Garibaldi a Roma. Tutti i soccorsi sono inutili. In un primo momento le cause del suo rapido decesso restano incerte, solo più tardi verrà notato il foro di un proiettile entrato nella sua schiena e fuoriuscito dall’addome. Nel frattempo i giovani intorno a lei continuano a correre senza meta, inseguiti, manganelli alla mano, dallo Stato, che colpisce anche dall’alto con una fitta pioggia di candelotti lacrimogeni. Giorgina Masi, meglio nota come Giorgiana, era uscita di casa quella mattina dicendo di star andando a una festa, anche se gli eventi di quella giornata erano alquanto prevedibili.

In piazza Navona si parla di femminismo e autodeterminazione, di aborto e divorzio, di parità sociale e libertà di scelta. L’iniziativa è stata indetta dal Partito Radicale per sfidare l’ordinanza imposta alla città dal sindaco Giulio Carlo Argan che vieta qualsiasi manifestazione pubblica in seguito agli scontri avvenuti il 12 marzo tra la polizia e il movimento, in particolare l’area dell’Autonomia, davanti alla sede centrale della Democrazia Cristiana.

Lo stesso Ministro dell’Interno Francesco Cossiga definisce il divieto illegale ed extra legem in quanto estrapolato non da una legge della Repubblica Italiana ma dal codice penale fascista, non riconosciuto dalla Costituzione del 1948. Quel 12 maggio un cartello, ironico ma neanche tanto, chiede ai militari schierati intorno alla piazza di non sparare sul pianista: tale è infatti l’aria che si respira nelle iniziative politiche da quando lo Stato ha inaugurato quella che è nota come “strategia della tensione”.

Commentare l’uccisione di una manifestante con le solite frasi – che in questi casi non mancano mai – del tipo “se l’è cercata” o “poteva starsene a casa o prestare più attenzione” non solo sarebbe semplicistico ed estremamente riduttivo, ma mancherebbe di rispetto a tutte le persone uccise da un regime contro il quale lottavano. Allo stesso modo non basta limitarsi a constatare quanto criminale sia stato l’operato delle cosiddette forze dell’ordine durante quella giornata: è necessario attribuire le responsabilità in modo corretto e soprattutto approfondire il contesto storico in cui l’assassinio è maturato.

Nessuna persona in buona fede ha mai sostenuto che si sia trattato di un incidente.

Negli anni ’70 la società italiana è in fermento. I sindacati riconoscono e tutelano soltanto chi ha un contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le nuove forme di lavoro sempre più frequenti. Le precarie e i precari, i disoccupati e le disoccupate, di conseguenza, non credono più nelle istituzioni in cui invece avevano creduto le generazioni precedenti.

L’estensione della scuola dell’obbligo e l’apertura dell’università a chiunque, indipendentemente dalla scuola superiore frequentata, fanno sì che l’università, prima riservata a un’élite, diventi di massa, esasperando l’agitazione studentesca: gli atenei non raccolgono più i figli della ricca e media borghesia ma l’intera società giovanile con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, diventando così il luogo di concentramento di disagi ben più grandi. Inoltre, le facoltà si ritrovano a essere, di fatto, anche sede di preparazione al lavoro salariato e precario, sfruttato ed estraneo alla rappresentanza sindacale. E per le istituzioni chi non è rappresentato costituisce un problema non politico o sociale ma solo di ordine pubblico. Diversamente dal Sessantotto, non sono intellettuali e studenti privilegiati a criticare la società, ad assaltare i centri della cultura, ma la parte più disagiata e meno riconosciuta della società, tagliata fuori dalla società stessa: la fantasia del decennio precedente lascia spazio a frustrazione e rabbia.

L’altro fattore di novità consiste nel fatto che le prime agitazioni studentesche scoppiano al Sud. Quando la riforma Malfatti diminuisce la possibilità di ripetere gli appelli d’esame e pone forti restrizioni al diritto degli studenti di scegliere liberamente quali corsi inserire nel piano di studi, le università già in fermento esplodono. La circolare Malfatti non è stata la causa determinante delle lotte ma solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scintilla su una polveriera già da tempo pronta ad incendiarsi.

Giorgiana vede un’Italia in fermento in cui i diritti individuali aumentano.

Nel 1974 un referendum sancisce il diritto al divorzio, nonostante la forte contrarietà della Chiesa e della DC. Pochi anni dopo venne il diritto all’aborto: la maternità deve essere una scelta consapevole e non un obbligo. Per il movimento femminista e per le donne in generale è una vittoria mai vista, inimmaginabile fino a poco prima.

È bene ricordare che il movimento del ‘77 è ostile non solo al governo democristiano ma anche e soprattutto al principale “partito non di maggioranza” (sarebbe fuori luogo definirlo partito di opposizione). Nel 1972 alla segreteria del PCI viene eletto Enrico Berlinguer, con cui il Partito cambia totalmente volto. In uno dei suoi primi discorsi da segretario, Berlinguer dichiara che la spinta propulsiva data dalla Rivoluzione del lontano ottobre 1917 è ormai finita e che c’è bisogno dunque di un’energia nuova. Il PCI, filosovietico ma non antagonista al sistema liberale, apre le trattative con il governo: il comunismo è messo in soffitta sostituito da una blanda socialdemocrazia. La CGIL, sindacato fedele al PCI, preme per calmare le spinte rivoluzionarie ancora presenti nelle fabbriche e nelle università, smettendo di fatto di guidarne le lotte.

In generale si potrebbe dire che la forma Partito, nata in Italia all’inizio degli anni ’20, egemone durante la Resistenza e ancora funzionante negli anni ’50, dopo il Sessantotto abbia smesso di funzionare e negli anni ’70 si sia ritrovata a essere come una scarpa troppo stretta rispetto ai piedi cresciuti di una società che si evolve rapidamente.

Abbandonati gli ideali rivoluzionari che avevano prima dato vita al PCI subito dopo il biennio rosso e poi animato gran parte della Resistenza contro il Nazifascismo, non riuscendo a ottenere alcuna maggioranza parlamentare per via elettorale pur crescendo nei sondaggi, il partito di Berlinguer cambia strategia cercando di avvicinarsi a posizioni di governo tramite accordi interpartitici. Il cosiddetto compromesso storico, noto anche come “governo della non-sfiducia” o “delle astensioni”, consiste in un governo “monocolore” (cioè monopartito) della DC reso possibile grazie all’astensione del PCI alla Camera, che non vota contro la fiducia al governo Andreotti per garantirsi un maggior peso istituzionale.

È chiaro che nel 1977 il PCI sia ormai un partito filogovernativo e quasi conservatore, ma in quanto forza egemone della sinistra, non può tollerare di essere deriso e non rispettato proprio da sinistra. Il PCI, scavalcato da questo nuovo movimento incontrollabile che non riesce a imbrigliare, non manca mai occasione di ripetere che chi occupa le università (e l’Autonomia in particolare) è estraneo alla legalità e quindi alla democrazia e che i raduni di giovani militanti sono solo covi di violenza, delinquenza comune e addirittura squadrismo quasi fascista.

La sfiducia di studenti e futuri precari versi il partito e il sindacato in cui le persone più anziane avevano creduto finisce per dar vita a un conflitto senza precedenti in cui la generazione protagonista della Resistenza si sente tradita da quella successiva che a sua volta si vede tagliata fuori da istituzioni obsolete.

Non c’è da stupirsi, quindi, che il Partito accusi pesantemente chi non crede nella legalità dello Stato repubblicano, né tanto meno che ragazzi e ragazze abbandonino le sezioni di partito per cercare rifugio altrove.

Del resto, gli artefici della guerriglia partigiana, cresciuti sotto il regime ed educati dalla scuola gentiliana a non disdegnare le figure autoritarie, vedevano molto più di buon occhio il rigore del Partito che la stravagante libertà del movimento. E il principale cavallo di battaglia della retorica vicina al PCI è sempre stato il mito dell’epopea partigiana. Quando a Bologna i carabinieri uccidono Francesco Lorusso, venticinquenne militante di Lotta Continua, il PCI indice un presidio sotto il monumento ai caduti della Resistenza per celebrare non un ragazzo ucciso, ma la legalità dello Stato; quando gli studenti occupano l’università di Roma, è proprio il segretario della CGIL, legata al PCI, a dar vita alla provocazione che conduce allo sgombero dell’università, ammettendo egli stesso che il fine di tale operazione è quello di riportare l’ordine e mettere fine alle agitazioni per “ripristinare la vita democratica e legalitaria all’interno dell’Ateneo”; quando gli studenti reagiscono alla provocazione e lo cacciano, i mezzi d’informazione legati al Partito sottolineano con insistenza che Luciano Lama è stato partigiano; quando viene uccisa Giorgiana Masi, il PCI si limita a tacere, continuando a votare la “non-sfiducia” al governo. L’apice di questo scontro avviene a Bologna in quanto storico baluardo del PCI e al tempo stesso città universitaria, quindi teatro della più grande incompatibilità sociale e generazionale.

Dopo aver lasciato a terra una ragazza, i manifestanti continuano la fuga disperata e le truppe proseguono il loro feroce inseguimento. Smarrito nella confusione e accecato dai gas lacrimogeni, un fotografo trentacinquenne vaga per il centro di Roma con la sua Leica sempre al collo. È uno dei pochi che ha mostrato ciò che nessuno ha voluto vedere, regalando alla Storia testimonianze fondamentali e di rara bellezza.

La sera stessa il Ministro dell’Interno dichiara di non aver mandato nessun agente in borghese nel corteo. Dichiara inoltre che non sono state usate armi da fuoco per l’attività di ordine pubblico. Dunque Giorgiana Masi risulta uccisa da una pallottola vagante sparata dai manifestanti in direzione delle forze dell’ordine. E questi, sicuramente autonomi ed evidentemente distratti, non hanno notato che in mezzo tra loro e il bersaglio vi erano altri manifestanti in corsa, tra cui la ragazza colpita.

È la versione ufficiale del Ministero.

Servirebbe poi un esperto di fisica fantascientifica per spiegare come mai una pallottola sparata da davanti l’abbia colpita alla schiena.

Un’immagine mai pubblicata dai quotidiani mostra un uomo in borghese con una pistola in mano mentre riceve istruzioni da un superiore e alle spalle ha un gruppo di uomini armati e in divisa difficilmente riconducibili all’Autonomia.

(foto 2)

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Così un fotografo ha palesemente smentito un ministro. La sua stessa Leica ha testimoniato la frettolosa violenza degli uomini in divisa: è un’immagine molto potente che richiama il mondo classico: gli uomini armati sullo sfondo fanno capire di cosa si parla, mentre lo sguardo disperato e intenso delle ragazze in primo piano mostra la tragicità della scena.

(foto 3)

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Accostare la bellezza e la pena, la grazia e la brutalità, è uno strumento efficace e fastidioso, di certo non gradito dal signor Ministro.

Un’altra immagine dello stesso autore mostra la determinazione delle donne che sotto una pioggia battente porgono l’ultimo saluto alla loro sorella “uccisa dalla violenza del regime”, come recita la targa in memoria di Giorgiana Masi presso ponte Garibaldi.

(foto 4)

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Le foto di Tano D’Amico sono importanti per rileggere gli ultimi decenni in quanto mostrano la bellezza, la grazia, la poesia dei volti e delle istanze di chi non dovrebbe averne, di chi l’Unità avrebbe preferito descrivere come teppista scalmanato attraverso immagini brutte e prive di significato. Quelle immagini sono sempre state tenute nascoste perché non si pensasse che le invadenti femministe avessero qualche ragione, che i cattivissimi autonomi si scontrassero con un Partito in cui era vietato avere dubbi, che gli stravaganti indiani metropolitani non facessero poi così schifo. Sono foto, quelle di Tano D’Amico, che non hanno bisogno di didascalie, che colpiscono e restano nell’eternità, diversamente da quelle dei giornali, che vivono un giorno solo per poi scomparire nel nulla senza lasciare segni nella memoria, fagocitate dall’oblio collettivo.

Nel 2001 un enorme movimento internazionale viene schiacciato dalla repressione.

A Genova i carabinieri uccidono un ragazzo di ventitré anni: prima uno sparo in faccia, poi una jeep dell’arma lo schiaccia due volte ancora vivo, e infine il colpo di grazia è un sasso che gli spacca la fronte per mano di un uomo in divisa. Ci vuole una buona dose di coraggio e immaginazione per sostenere che si sia trattato di un incidente. Il commento del Premier è “poteva restarsene a casa”; invece i galantuomini delle istituzioni osano molto di più, e non sorprende che a farlo per primo sia il vicepremier fascista, presente nella caserma in cui venivano torturati i manifestanti fermati: è legittima difesa spaccare la fronte a un ragazzo agonizzante a terra ed è legittima difesa schiacciarlo due volte con un defender, sparare in faccia con armi fuori ordinanza, figuriamoci, è degno di una medaglia, parole sue.

Nel 2001 Francesco Cossiga è senatore a vita ed è proprio lui a intervenire non interpellato quando una parte delle opposizioni presenta una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno dopo i tragici fatti di Genova; la cosa particolare è che Cossiga in aula non difende né il Ministro dell’Interno né il Premier né il Vicepremier ma se stesso: con un intervento furioso trova inammissibile la mozione di sfiducia in questione e rivendica la brutalità con la quale ordinò di agire nel 1977. A decenni di distanza, l’assassinio di Giorgiana Masi è motivo di vanto per il suo principale responsabile.

Oggi, a quarant’anni dal suo assassinio, una piccola strada intitolata a Giorgiana Masi è presente a Bassano in Teverina (VT) e in villa Pamphili a Roma (foto 5), dove la ragazza è ricordata insieme a varie antifasciste e donne eroiche della Repubblica Romana.

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Checché ne dica l’ex Presidente della Repubblica, ministro degli Interni ai tempi della sua e di altre uccisioni di Stato, la targa su ponte Garibaldi riconosce Giorgina Masi come “vittima della violenza del regime” (foto 6).

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ITALIA – Crisi economica: aziende tra licenziamenti e illegalità, non si contano i disoccupati

Ferragosto nero per il lavoro in Irpinia. Mondial Montemiletto chiude: 77 operai licenziati. Si è svolto l’incontro tra i rappresentanti sindacali e l’amministratore unico della Mondial Group s.r.l, Franco Monico, riunione convocata per comunicare l’avvio, a partire dal prossimo 15 agosto, delle procedure di mobilità per i 77 dipendenti dello stabilimento irpino che aprono la strada al licenziamento in tronco per gli operai. “Ci eravamo incontrati solo 15 giorni fa con i delegati dell’azienda in una riunione svolta in videoconferenza con la sede di Confindustria Avellino. In quella occasione si era concordato che, a partire da quella stessa data, sarebbero stata predisposta una procedura mista di cassa integrazione straordinaria e mobilità volontaria in attesa di trovare una soluzione definitiva per mantenere in vita lo stabilimento”. A parlare è Sergio Scarpa, segretario generale della FIOM-CGIL Avellino, che non manca di esprimere tutto il proprio dissenso per il cambio di linea improvviso da parte dei vertici del gruppo.

“Monico è stato perentorio e ha palesemente affermato di non avere alcun interesse per le sorti della sede di Montemiletto. La sola alternativa – ha proseguito Scarpa – da lui delineata è stata quella di un eventuale fitto dell’impianto ad altri imprenditori ma per quanto riguarda la Mondial, l’attività cesserà a partire dal prossimo ferragosto, giorno più, giorno meno”. La Mondial di Montemiletto, era in crisi da tempo. “Siamo partiti con due anni di ristrutturazione, con la concentrazione della produzione su di un unico piano, al fine di riorganizzare ed efficientare l’attività dello stabilimento. Due anni nel corso dei quali, questo è vero, i livello produttivi si erano significativamente ridotti. In questo periodo, però, la posizione dei lavoratori era stata garantita attraverso la cassa integrazione straordinaria cui è seguita quella ordinaria che terminerà il prossimo 14 agosto”. Data a partire dalla quale si sarebbe dovuto seguire lo schema definito durante l’incontro di due settimane fa, totalmente sconfessato da Monico che “non ha tenuto assolutamente conto dell’impatto sociale di una simile decisione. Stiamo parlando – ha ricordato il Segretario – di altre 77 operai che vanno ad ingrossare le fila della disoccupazione in questa provincia che conta già 81.000 persone senza lavoro. Molti di loro hanno intorno ai 50 anni ma vi sono anche giovani tra i 25 e i 35 anni, circa una 40in, che stanno vedendo sfumare le loro prospettive di futuro”.

Non risparmia critiche alla politica, sia nazionale che locale, Sergio Scarpa. “La vicenda di Montemiletto – ha affermato – sconfessa quanti sostengono, a partire dal Governo nazionale, che la crisi stia terminando: così non è, almeno non per l’Irpinia. Per di più, a causa delle riforme del mercato del lavoro di questi ultimi anni, a partire dalla Fornero per arrivare al Job’s Act, questi lavoratori vedono drasticamente ridotte le tutele loro garantite. La mobilità, infatti, è già passata da 4 a 3 anni e dal 31 dicembre di quest’anno dovrebbe ulteriormente essere calata a 2. Per cui, dalla fine del 2015, bisognerà anche capire quali saranno le prospettive”. A questo si aggiungerebbe il totale disinteresse da parte della politica locale visto che “Monico avrebbe incontrato l’Amministrazione di Montemiletto, nella persone del suo Sindaco, del Vice e i suoi assessori, per comunicare la propria decisione che nessuno avrebbe contestato. Per questo – ha concluso il Segretario – intendiamo chiedere un incontro proprio con il primo cittadino per chiedergli conto di questa circostanza e capire perché abbia deciso di tacere dinanzi ad una notizia tanto allarmante che va ad intaccare ulteriormente i livelli occupazionali e i diritti dei lavoratori di una provincia già estremamente provata sotto questo punto di vista”.

BARI – Tensione allo stabilimento Bridgestone della zona industriale di Bari, durante la prima delle tre assemblee sindacali indette per la giornata di oggi solo il provvidenziale intervento di alcuni presenti ha evitato che un lavoratore arrivasse alle mani proprio con uno dei rappresentanti sindacali.

A far scatenare l’ira del dipendente un modulo che i sindacati avrebbero distribuito nel corso dell’assemblea firmando il quale i dipendenti avrebbero consentito all’azienda di tagliare ulteriormente la busta paga mensile, negli ultimi dodici mesi già alleggerita di centinaia di euro, per una cifra vicina agli 80 euro. Via il cottimo dei bonus giornalieri, via gli scatti d’anzianità e indennità notturna pagata dal 50% al 10%. Stessi temi che verranno affrontati nelle altre due riunioni di giornata, una per turno di lavoro, fissate dalle 20.30 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 23. Facile immaginare, dunque, come l’atmosfera assai poco rilassata possa aleggiare sullo stabilimento fino a tarda sera.

La vicenda Bridgestone inizia nel 2013, quando dalla sede centrale decidono di chiudere lo stabilimento di Bari, mandando a casa 950 persone. Dopo gli scioperi, le mobilitazioni e gli interventi da parte delle istituzioni, l’azienda decide di presentare un piano di reindustrializzazione. Ad oggi però, nonostante tutto circa 200 dipendenti rischiano comunque di essere mandati a casa.

 SETTORE DEL MOBILE – I Finanzieri del Nucleo Polizia Tributaria di Bari, a conclusione di una articolata attività ispettiva nei confronti di alcune imprese operanti nell’area murgiana nel settore del mobile imbottito, hanno scoperto un insidioso
sistema evasivo. In particolare, dai riscontri documentali e dalle dichiarazioni rese in atti dai numerosi lavoratori, è emersa una società “terzista” che assemblava il prodotto finito per il committente, omettendo di fatturare la maggior parte di tale lavorazione ed impiegando manodopera irregolare o in nero, in spregio alla normativa in materia di lavoro e di previdenza. Infatti, ben 73 dipendenti sono risultati “in nero”. Inoltre sono state rilevate retribuzioni irregolari caratterizzate dal sistema dei compensi c.d. “fuori busta”. L’attività ispettiva, oltre alle numerose violazioni in materia di lavoro, ha permesso di contestare l’omesso versamento delle ritenute sugli stipendi irregolarmente corrisposti ai lavoratori per oltre 15.000 Euro, nonché l’evasione all’ IVA e alle imposte dirette per oltre 80.000 Euro di imponibile e 18.000 Euro di Iva.

MELFI –  Fiom: “la FCA licenzia prima di assumere”.  “In queste ore molti lavoratori in contratto di somministrazione presso la Fca di Melfi stanno contattando la Fiom e il Nidil per denunciare la mancata stabilizzazione ancor prima della scadenza di luglio del loro contratto. Da informazioni in corso di verifica, sarebbero quasi un centinaio i giovani a cui è stata comunicata questa decisione”. Lo dichiarano Michele De Palma, coordinatore nazionale Fiom-Cgil del gruppo Fca, e Massimo Brancato, della Fiom-Cgil Basilicata. “Eppure, il 28 maggio scorso, in occasione della visita di Renzi a Melfi, il dottor Marchionne annunciò la stabilizzazione di tutti i lavoratori assunti con contratto di somministrazione entro agosto. Per la Fiom si tratta di una vicenda che non può rimanere sotto silenzio. L’azienda, a cui la Fiom si accinge a chiedere un incontro urgente, motivi le ragioni delle sue scelte e dica quali sono i termini del percorso di stabilizzazione dei lavoratori interinali, ai quali la Fiom non farà mancare il sostegno per la tutela dei loro diritti”.

IKEA –  Nuova ondata di scioperi anche in Campania

Nuovo pacchetto di sciopero di 24 ore da gestire a livello locale, con iniziative che verranno decise di volta in volta per i lavoratori di Ikea. Lo rende noto la Filcams-Cgil secondo cui “durante il nuovo incontro di trattativa, le parti hanno formalizzato la sospensione della trattativa, registrando da ambo le parti il permanere di distanze ancora ingestibili”.

“Inevitabile – spiega il sindacato – la proclamazione di un nuovo pacchetto di ore di sciopero. Nel frattempo le assemblee dei lavoratori discuteranno sul merito delle proposte”.

“L’azienda ha anche annunciato che a settembre saranno effettivi gli effetti della disdetta unilaterale del contratto integrativo, avvenuta in maggio. Le organizzazioni sindacali sottolineano di non volersi sottrarre al confronto di merito, rigettano le accuse di indisponibilità alla trattativa che l’azienda ha formalizzato al tavolo e lavoreranno per proposte alternative che consentano l’individuazione di strade condivise. I lavoratori, dal canto loro, “hanno già manifestato con le iniziative diffuse sul territorio la loro forte contrarietà a ipotesi di taglio lineare delle retribuzioni: per loro sarà un’estate di mobilitazione, a difesa del loro contratto”.

La situazione è senz’altro complessa e probabilmente inedita, ma ormai la vertenza IKEA ha assunto un carattere del tutto originale.

Oggi, durante il nuovo incontro di trattativa, le Parti hanno formalizzato la sospensione della trattativa, registrando da ambo le parti il permanere di distanze ancora ingestibili.

Inevitabile la proclamazione di un nuovo pacchetto di ore di sciopero, ben 24, da gestire a livello locale, con iniziative che verranno decise di volta in volta. Nel frattempo le assemblee dei lavoratori discuteranno sul merito delle proposte.

L’azienda ha anche annunciato che a settembre saranno effettivi gli effetti della disdetta unilaterale del Contratto Integrativo, avvenuta in maggio.

Le Organizzazioni sindacali sottolineano di non volersi sottrarre al confronto di merito, rigettano le accuse di indisponibilità alla trattativa che l’azienda ha formalizzato al tavolo e lavoreranno per proposte alternative che consentano l’individuazione di strade condivise.

I lavoratori, dal canto loro, hanno già manifestato con le iniziative diffuse sul territorio la loro forte contrarietà a ipotesi di taglio lineare delle retribuzioni: per loro sarà un’estate di mobilitazione, a difesa del loro contratto.




ITALIA – Morti bianche: due storie recenti

Incidente sul lavoro  al Petrolchimico di Marghera. Il lavoratore era di origine albanese e ha perso la vita a causa della pressione di una pompa idraulica a cento atmosfere. Immediato l’intervento di ambulanza e automedica arrivate poco dopo che i primi soccorsi del responsabile sanitario dello stabilimento allarmato dai colleghi del’operaio. La vittima era dipendente di una ditta in appalto – la Sirai Srl – ed è deceduta nella zona del cracking dove stava lavando dei serbatoi con una pompa ad alta pressione.

La segreteria della Filctem Cgil di Venezia sottolinea che il sindacato denuncia di continuo la pericolosità del ricambio degli appalti basati sul massimo ribasso. Questo porta con sé la riduzione delle tutele dei diritti e delle tutele dei lavoratori. La Filctem Cgil chiama in causa l’Eni e le principali imprese di appalto perché vengano a confrontarsi sulle regole che vadano a tutelare a pieno i lavoratori con azioni di prevenzione e nella gestione corretta delle spese nel bilancio dedicate a salute e sicurezza. Invece – dice la Filctem – ad oggi la sicurezza viene vista come un costo aggiuntivo e non come una opportunità per qualificare il lavoro.

Miceli (Filctem), basta lavoratori appalti di serie B
“Accertare subito le responsabilità; seguiremo con grande attenzione l’evolversi della situazione, senza fare sconti a nessuno” . A dirlo è Emilio Miceli, segretario generale della Filctem. “Purtroppo – ha aggiunto il dirigente sindacale, che ha espresso le condoglianze e la solidarietà della sua organizzazione alla famiglia del lavoratore scomparso –, in Italia, i lavoratori in appalto sono ancora considerati di serie B, con scarsi diritti e tutele”.

Marghera, 22 luglio prima ora di sciopero
“A pochi giorni dall’incidente che ha visto come vittima un lavoratore in nero a Favaro Veneto dobbiamo registrare con sdegno e rabbia l’ennesima morte sul posto di lavoro. Ancora una volta si tratta di un dipendente di una ditta in appalto”. Così un comunicato della Cgil Venezia. Prima ora di sciopero dei chimici di Cgil Cisl e Uil, alla quale aderiranno categorie impegnate al Petrolchimico.

“Crediamo che, da subito, si debba affrontare seriamente la questione degli appalti su scala nazionale, con una legge che ne regoli le modalità e che scardini finalmente la logica del massimo ribasso. In questi giorni, in tutta Italia si sta impennando il numero di incidenti mortali. Nella gran parte dei casi, le vittime sono proprio di lavoratori impiegati nelle ditte in appalto. Questa è un’emergenza – lo sottolineiamo con forza -, da affrontare subito. Il periodo di crisi ha incrementato gli incidenti sul lavoro, che sono assolutamente sottostimati dai dati ufficiali, proprio perchè è altissimo il ricorso al lavoro irregolare, l’utilizzo degli appalti senza controllo che portano alla mancata denuncia o al camuffamento degli infortuni. La crisi ha portato come conseguenza l’abbassamento della qualità e la sicurezza del lavoro in una perversa spirale al ribasso. Invece, pensiamo che sia urgente prendere di petto la questione della qualità e della sicurezza del lavoro, perché sono questi i requisiti per una sana ripresa dell’economia del nostro Paese”, prosegue la Camera del Lavoro.

Nel caso del Petrolchimico, saranno le indagini degli organi competenti a dire se la ditta era in regola con tutte le prescrizioni di legge. Chiediamo a Eni di verificare la regolarità degli appalti, che ha stipulato sia al Petrolchimico che in Raffineria, visto che sta al committente garantire la gestione di tutte le fasi della filiera. Nei mesi scorsi, il sindacato ha tenuto un tavolo in Prefettura sulla sicurezza in Fincantieri. Chiediamo che un analogo incontro avvenga per Eni, al fine di predisporre azioni di prevenzione, piani formativi e bilanci che prevedano il giusto peso per le voci sicurezza, salute e tutela ambientale. I diritti e le tutele dei dipendenti diretti devono essere estesi a tutti i lavoratori a prescindere dall’azienda di provenienza. Questo deve avvenire in tempi stretti ed essere finalizzato ad una buona contrattazione sugli appalti. Contrattazione che deve avere come priorità la regolarità dei capitolati e la tracciabilità delle imprese in appalto. In qualsiasi caso, la Cgil ribadisce che nel terzo millennio non si può ancora morire di lavoro e porterà avanti in tutte le sedi il diritto dei lavoratori e dei cittadini ad avere delle aziende che rispettino la vita, la dignità e la sicurezza di tutti. Anche in questo caso, la Cgil è vicina alla famiglia ed è a disposizione per risolvere le pratiche legali e previdenziali”, conclude il sindacato.

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Un bracciante impegnato in Salento nella raccolta dei pomodori è morto dopo un malore mentre stava lavorando sotto il sole in un campo di raccolta nelle campagne tra Sant’Isidoro e Avetrana, nel tarantino. Si tratta di uomo di 47 anni proveniente dal Sudan. L’uomo, lavoratore stagionale presso una ditta di ortofrutta di Nardò, era impegnato nella raccolta di pomodori, ad una temperatura molto vicina ai 40 gradi, ha accusato un malore, dal quale non si è più ripreso. stando ad alcune testimonianze raccolte sul posto, l’ambulanza sarebbe arrivata troppo tardi perchè sarebbe stata chiamata dopo due ore circa.




ITALIA – Niente nani e ballerine: la vera Scuola in piazza. Il 12 maggio docenti in sciopero contro INVALSI

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Tre sigle sindacali hanno deciso di aderire allo sciopero breve del 12 maggio contro la somministrazione della prova Invalsi, contro l’ennesimo fenomeno demenzial-italiano di chi arriva in ritardo rispetto ad altri paesi che si sono liberati di qualcosa che hanno constatato essere superflua o addirittura controproducente.

Le tre sigle sindacali sono gli Autoconvati Scuole Roma, l’Unicobas Scuola, l’USI.

Sarà uno sciopero di mansione che consiste nel restare in servizio e svolgere l’attività di insegnamento, rifiutando di somministrare i quiz.  Si tratta di una modalità prevista dalla normativa generale, ma inedita per la scuola.

La commissione Cultura della Camera, il 7 maggio ha cancellato il comma dell’articolo 21  sulle deleghe al governo che prevedeva di affidare all’Esecutivo una specifica delega per la riforma. L’emendamento, che era stato presentato dal Pd, primo firmatario Stefano Fassina, è stato approvato con il parere favorevole del governo.

Restano congelati gli articoli dal 7 al 9 che riguardano i temi più caldi: organici, assunzioni ed assegnazione dei docenti.

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la Gilda ha lanciato la possibilità di bloccare gli scrutini, promettendo un fine anno di fuoco.

“Se dovessi dire che abbiamo la certezza che incontreremo il governo – ha detto la leader Cgil, Susanna Camusso, dopo essersi recata al Nazareno – direi una cosa non vera, anche se il Pd ha registrato la nostra richiesta. Abbiamo rispiegato le ragioni dello sciopero e del successo che ha avuto, abbiamo apprezzato la disponibilità di metodo per continuare a vederci ma – ha concluso – molti nodi li può sciogliere il governo non un singolo partito”. Camusso ha ricordato tra gli scogli da superare le questioni dei precari, del contratto fermo da 6 anni e della valutazione dei prof.

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La protesta della Scuola italiana in  30 scatti:

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