ITALIA – Xylella: nuovi tagli a Oria (Br). Fiaccolata in attesa del Commissario europeo

Il rumore sordo delle motoseghe è tornato a farsi sentire in contrada Frascata, a Oria. Un cordone di sicurezza protegge le motoseghe dalle possibili contestazioni.

Ma in attesa dell’incontro tra i vertici della Regione Puglia, gli scienziati e il  Commissario Europeo Vytenis Andriukaitis in visita in Puglia il prossimo 20 luglio il comitato #difendiAMOgliulivi, per il quale “la responsabilità della devastazione del patrimonio olivetato compiuta a Oria ricade sulla Commissione Tecnica Regionale”, che “agisce sulla base di teorie e ipotesi scientifiche senza tuttavia aver mai prodotto alcuna pubblicazione ufficiale riguardante il ceppo pugliese del batterio Xylella, l’eventuale patogenicità dello stesso ed una diagnosi che consideri tutti i fattori inerenti al complesso del disseccamento rapido degli olivi”, ha organizzato  la fiaccolata “Fuori la mafia della Xylella dallo Stato”.

Mentre infine la Procura leccese ha chiesto altri sei mesi di proroga per le sue indagini, sembra che la partita politico-istituzionale sulla Xylella si stia invece giocando proprio in queste settimane, se non in questi giorni. Tant’è che il commissario europeo per la Salute, Vytenis Andriukaitis, lunedì prossimo verrà qui in Salento a vedere la situazione. Ma lo hanno già “blindato”: ad ora le autorità italiane non hanno permesso alla Ong “Peacelink” (accreditata a Bruxelles) e neanche ai comitati locali d’incontrarlo.

Nella sua “Relazione sullo stato di attuazione delle misure di contrasto alla Xylella fastidiosa in Italia”, datata 6 luglio 2015, il ministero per le Politiche agricole certifica che dall’ottobre 2014 al giugno scorso sono stati effettuati 26.755 analisi campionarie su piante in provincia di Lecce e a Oria (Brindisi), l’87 per cento delle quali su ulivi, il resto su mandorli, oleandri e viti. E tra quelle piante esaminate, 23.867 non mostravano sintomi di contagio da Xylella. Risultati? La positività è stata riscontrata in 612, la negatività in 24.381.
A proposito, annota poi il ministero che “complessivamente in tutta Italia sono state portate a termine quasi 33.600 ispezioni” e “si può dichiarare l’intero territorio italiano ufficialmente indenne da Xylella, a eccezione delle aree delimitate delle Province di Lecce e Brindisi”.
Così adesso si spiega un certo, crescente, malumore a Bruxelles e la richiesta, che stanno mettendo a punto in Commissione, di dettagliati chiarimenti sull’intera faccenda.
Là qualcuno non pensa certo, almeno a stretto giro, di farlo sapere ufficialmente, ma comincia a sentirsi preso in giro. E non solamente per questi numeri. Perché, ad esempio, fin dal maggio scorso l’esito delle analisi effettuate su cinque dei sette ulivi tagliati a Oria il 13 aprile perché “infetti” era risultato sorprendente: solamente due avevano tracce di Xylella e solamente sulle fronde.
E allora, proprio sulla base di queste analisi, a Bruxelles ci si chiede quale senso avesse spedire a far diventare legna da ardere altri quarantacinque ulivi sempre di Oria. Poi, caso Oria a parte, l’Ue si domanda soprattutto perché si sia parlato d’epidemia, di milioni di ulivi da tagliare e di catastrofe agricola. Perché, insomma, il governo italiano descriva, appunto, una “situazione di emergenza non fronteggiabile con mezzi e poteri ordinari”.
La domanda ovviamente resta tutta: cosa sta disseccando parecchi ulivi salentini? Visto pure che sempre il nostro governo e sempre nella sua Relazione mette nero su bianco che è stata “esclusa qualsiasi forma inquinante del terreno e dell’ambiente” a fronte del “quadro sintomatologico fitosanitario alquanto complesso tale da definire un nuovo temine tecnico Complesso del disseccamento rapido dell’olivo”.

Sono in ballo finanziamenti da milioni di euro.

E le associazioni sostengono una “verità diversa da quella “finta” e “gonfiata” ufficiale”. Affermano che non si tratta di una epidemia che richiede uno stato di emergenza, che richiede aiuti per centinaia di milioni di euro.

​Il sipario va alzandosi. E la scena via via è sconfortante. Che nemmeno il 2 per cento (quasi l’1,8) del campione degli ulivi salentini analizzati sia risultato positivo alla Xylella ha dovuto adesso metterlo nero su bianco il governo italiano, nella sua relazione ufficiale consegnata una settimana fa alla Commissione europea. Eppure annota anche “la notevole criticità per la gestione di questa emergenza fitosanitaria, unica per la sua specificità” e, addirittura, una “situazione di emergenza che, per intensità ed estensione, non è fronteggiabile con mezzi e poteri ordinari”.

Fonti ufficiali sostengono che l’estensione dei focolai in Puglia è stata aggravata dalle condizioni climatiche dell’inverno 2013-2014, la cui particolare mitezza non è stata in grado di compiere un abbattimento di massa del vettore sufficiente a contenere la diffusione dell’infezione. Come concausa viene segnalato l’eccessivo sfruttamento agronomico del suolo, il cui humus si è impoverito; che nel 2015 alla distribuzione puntiforme dei focolai della provincia di Lecce se ne è aggiunto anche uno in provincia di Brindisi, nel comune di Oria, che attesta il travalicamento a nord dei precedenti limiti territoriali.

La Xylella è fortemente dannosa e, essendo anche non nativa dell’Europa, i protocolli la classificano come un patogeno da quarantena.

In California, ma anche in altri stati americani e in altri paesi come il Brasile, la Xylella è un problema rilevante, responsabile di numerosi danni agronomici. Non esistono cure.

L’ Europa non ospitava la Xylella  anche se ci fu una segnalazione non confermata in Kosovo nel 1998.

Non si sa come sia sbucata in Italia. Con i traffici commerciali è possibile che un microrganismo possa essere trasportato oltremare mentre tutti sono ignari. La pista investigativa ha poi negli anni successivi portato al Costa Rica, perché la Xylella analizzata ha un profilo genetico che appartiene a quello della sottospecie pauca, proveniente proprio da lì, a quanto pare arrivata tramite una pianta da caffè. Il batterio è trasportato da un insetto particolare che funge da vettore.

Qualcuno ipotizza che ci sia lo zampino della Monsanto.

La magistratura ha anche aperto un’indagine sul fatto che a fini sperimentali sia stato importato un ceppo a Bari, che non si sa come non si sa quando sarebbe stato rilasciato per sbaglio nel Salento. Il fenomeno ha iniziato a manifestarsi nel 2009/2010 nell’entroterra di Gallipoli e nella parte occidentale della penisola salentina. Focolai puntiformi molto virulenti del Complesso del disseccamento rapido dell’olivo sono segnalati su ulivi in tutto il Salento e nella provincia di Lecce, con centinaia di impianti già appassiti e morti.

Vedremo cosa concluderà, mentre il parere degli esperti è che non ci siano stati rilasci.

Immediatamente le autorità scientifiche si sono concentrate su di essa e hanno disposto l’allarme per la contaminazione, che si potrebbe estendere rapidamente, e per la ricerca del vettore. L’esportazione delle barbatelle da vigna è stata proibita in via precauzionale, per esempio. La Regione Puglia ha iniziato a emettere comunicati, forse poco cauti dato che nella popolazione si diffondono agitazione e allarmismo.

La rilevazione di Xylella fastidiosa nei tessuti vegetali viene effettuata presso il laboratorio Basile Caramia di Locorotondo, con un protocollo dell’Istituto di virologia vegetale, dal Cnr e dall’Università di Bari.

Ogni risultato positivo viene messo poi a conferma presso il laboratorio di riferimento a Bari. In media vengono analizzati 150 campioni al giorno, ciascuno pagato 10 € dal Servizio Fitosanitario Regionale. I test per la presenza di Xylella sono stati confermati non solo per gli ulivi, ma anche per verbena odorosa, oleandro, ciliegio, mandorlo, alcune varietà di mirto, ranno lanterno e rosmarino (generi Aloysia, Nerium, Prunus, Myrtus, Rhamnus, Rosmarinus). Si contano numerosi focolai sparsi a macchia di leopardo. Anche per questo le reazioni degli agricoltori del luogo sono contrastanti: alcuni lamentano morie impressionanti, altri praticamente cascano dalle nuvole.

Il vettore invece è stato scoperto dopo pochi mesi: è la sputacchina media (Philaenus spumarius), ordine Rhynchota.

Philaenus_spumarius_03

In Italia ormai l’unica logica che sembra contare è quella che vede come unico fine la sicurezza, nessuno si pone domande e cerca risposte, metodi alternativi all’abbattimento degli alberi.

Qualcuno ha forse pensato che per eliminare la Xylella sia innanzitutto necessario ripulire i terreni lasciati all’incuria dove è possibile che trovi condizioni ideali per riprodursi e diffondersi? Nessuno.

Gli abbattimenti sono ripresi dopo quelli del 13 aprile scorso e guarda caso stanno interessando alcuni alberi piantati nella stessa zona di quelli che, pochi mesi fa, hanno avuto lo stesso destino. Alcuni di questi ulivi erano centenari e le loro coltivazioni sono più che una fonte alimentare ed economica: sono oltre 2000 anni di storia e cultura, simbolo dell’identità italiana e pugliese.

Il Corpo Forestale dello Stato, invece di essere impiegato per far mantenere pulite e in ordine le campagne, che solitamente si trasformano in discariche pericolose perchè facilmente infiammabili, ha predisposto un cordone di sicurezza che impedisce a chiunque di avvicinarsi alla zona delle eradicazioni al fine di evitare eventuali disordini da parte di manifestanti contrari alle misure che si stanno adottando per contrastare la diffusione della Xylella Fastidiosa, il batterio che provocherebbe l’essiccazione degli ulivi.

ulivo

Tutte le vie di accesso ai campi siti lungo la Oria-Carosino, zona in cui le motoseghe stanno abbattendo gli alberi in questo momento, sono bloccate.

Si sa a malapena come contenere la diffusione della malattia e le zone colpite sono solo una parte della produzione olivicola regionale. Il timore è che l’infestazione giunga ai centri di Andria-Cerignola-Bitonto, e da lì in poi continui a propagarsi nella penisola (il che sarebbe una catastrofe).

Per questo il piano proposto fin da subito è totalmente drastico: estirpare le piante in una zona di quarantena con fascia-cuscinetto di sicurezza circostante.  Sono tanti i terreni con ulivi non coltivati  pieni di sterpaglie su cui non si agisce. Mentre vengono  stabilite varie “misure agronomiche da attuare negli uliveti” (arature, potature regolari, falciature) e un “piano di controllo degli insetti vettori e potenziali vettori” mediante l’applicazione di insetticidi sistemici sull’intero ecosistema agrario.

Anche l’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, ha rilasciato un parere tecnico-scientifico che porta a cercare di impedire ogni possibilità di contaminazione al di fuori delle zone colpite, temendo che il vettore non sia contenuto e che le misure agronomiche abbiano effetti deleteri sull’ambiente; mentre l’Unione Europea vuole mettere in quarantena buona parte del Salento. Il caso mediatico cresce.

A opporsi, oltre ad alcuni gruppi di agricoltori, sono i responsabili dei parchi naturali, poiché i trattamenti generali sono eccessivi per le aree protette secondo la legislazione.
Chi ci guadagna? Chi ci rimette?

Ci sono finanziamenti comunitari sia per il miglioramento della condizione di uliveti mal curati (e che facilmente vengono contagiati e quindi destinati all’espianto) sia per il piano di contenimento regionale (“bonifica” delle zone demaniali ed estirpazione, demaniale e privata). Per le estirpazioni non ci sono risarcimenti, mentre i fondi per i ricercatori a Bari languono. Sono domande che rappresentano una situazione di preoccupazione, confusione, timore e sensazione di essere presi in giro, diffusa fra gli abitanti. I produttori locali sono piuttosto sconfortati per varie ragioni:

la gestione del problema ha una cattiva tempistica ed emergono notizie confuse di primi focolai di disseccamento rinvenuti già nel 2010 se non nel 2008 (molto prima dell’outbreak ufficiale);
la prevalenza della Xylella negli alberi affetti dalla malattia manca all’inizio di dati chiari con pubblicazione esclusiva di quelli sui primi campionamenti totali, i quali erano stati fraintesi nei rilevamenti a campione (che confermavano circa 400 campioni positivi su 16.000 campioni casuali totali riguardanti piante sia sane che malate);
c’è impazienza sull’esito dei test di patogenicità;
mancano risposte su una possibile cura e sui stanziamenti per la ricerca i cui fondi languono;
l’ingente utilizzo di insetticidi e l’inquinamento della falde suscitano preoccupazione per la salute pubblica, nonché per il danneggiamento della fauna;
attualmente non ci sono indennizzi per i proprietari di oliveto che stanno andando incontro a espianto forzato.

Intanto il tempo passa e la situazione si fa sempre più caotica nei comunicati: ora eradicare, ora solo trattare, ora estirpare di nuovo, ora lasciar stare. I coltivatori locali si spazientiscono dopo tanti allarmismi. Ma a oggi, il Corpo Forestale definisce la situazione  fuori controllo.




International day of Happiness, ma il mondo guerreggia in 30 conflitti

Siamo caduti nel buco nero di un conflitto di tutti contro tutti di cui non si intravede la fine eppure oggi si festeggia il giorno della felicità. Quale? E dove prenderla? Perchè si dovrebbe essere felici se non si riesce nemmeno a essere contenti? Trovo che questa sia la festa più ipocrita che potessero istituire, visto che non riescono a garantire un sano tenore di vita nemmeno ai cittadini dei paesi più ricchi e sviluppati del mondo. Ormai sopravviviamo e lo dimostrano  le indagini per la misurazione della F.i.l. (Felicità interna lorda. Il termine FIL fu coniato all’inizio degli Settanta dal re del Butan, Jigme Singye Wangchuck), che prendono in esame variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili. Anche questa, tra crisi e guerre, con il Pil ha raggiunto i minimi storici.

Essendo la  socialità  la tendenza innata degli individui a convivere tra di loro, la nostra vita è tanto più felice quanto più ricche sono le nostre relazioni sociali. Perciò il concetto di benessere basato sul reddito o sul reddito pro capite deve essere allargato per includere variabili economiche diverse e considerare un insieme ampio di indicatori, quali  il numero di ore lavorate, il tasso di disoccupazione, la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita, per valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci oppure attraverso indagini nella popolazione che stimino il grado di soddisfazione percepito dai cittadini.

La classifica che mette al primo posto il Costa Rica,  definendolo il paese più felice del mondo,  non  include nell’elenco i paesi più infelici e forse bisognerebbe invertirla e domandarsi qual è il paese più infelice.

Mentre le guerre in Siria, Iraq e Ucraina riscuotono l’interesse dei mezzi d’informazione occidentali, sono una trentina gli altri conflitti di cui si parla pochissimo e che, in assenza di interventi, continueranno a colpire milioni di persone.

Le guerre civili nella regione del Darfur e negli stati meridionali del Sudan sono quasi sparite dai mass media anche se riguardano moltissime persone e nel solo Darfur hanno provocato 2,4 milioni di profughi.

La crisi nel vicino Sud Sudan è trascurata invece avrebbe un urgente bisogno di attenzione: è l’opinione di Jean-Marie Guéhenno, presidente dell’International crisis group, con sede a Bruxelles, che sta attualmente monitorandole guerre presenti in tutto il mondo.

Il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Siria sono stati considerati nel 2014 i paesi meno pacifici del mondo, secondo la classifica annuale compilata dall’Institute for economics and peace.

“L’orribile violenza alla quale si assiste ancora in Sud Sudan va avanti perché non c’è alcuna forma di pressione da parte dell’opinione pubblica”, sostiene Guéhenno.

Il secondo anno di guerra civile sta portando il paese più giovane del mondo sull’orlo della bancarotta e della carestia, e le violenze hanno costretto alla fuga almeno 1,9 milioni dei suoi 11 milioni di abitanti, uccidendone più di diecimila.

Secondo Guéhenno, se il Sud Sudan ricevesse una maggiore attenzione dai mezzi d’informazione occidentali, potrebbero essere adottate misure come un embargo sulle armi o un’azione seria per tagliare i finanziamenti alla guerra e simili pressioni avrebbero un seguito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

“Eppure questo conflitto resta fuori dei radar, tranne quando si verificano scontri più gravi”, afferma.

La Nigeria è un altro paese che risente della scarsità di notizie sui conflitti interni.
Anche se gli attacchi dei militanti islamisti di Boko haram ottengono qualche copertura, lo stesso non si può dire per le tensioni in corso altrove. Secondo Guéhenno, potrebbero esplodere gravi scontri nella regione del delta del Niger, ricca di petrolio.

“Nel caso di episodi di violenza dopo le elezioni, la notizia finirebbe su tutte le prime pagine perché la Nigeria è un paese molto importante in Africa. Ma sarebbe meglio se questioni del genere fossero affrontate già da adesso”, ha aggiunto.

Nell’ultimo decennio il numero di conflitti nel mondo è rimasto piuttosto stabile, oscillando fra i 31 e i 37, ma alla metà del 2014 il numero di profughi in fuga dalle guerre ha toccato il suo apice dal 1996.

Tuttavia, molte guerre compaiono raramente sui giornali o le tv occidentali.

Nel 2014 gli scontri nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo hanno costretto circa 770mila persone alla fuga, portando il numero totale di profughi a 2,7 milioni in un paese di 68 milioni di abitanti. Più di venti gruppi armati sono attivi solo nella provincia del Kivu Nord.

Altri conflitti sono in corso in Somalia, Yemen, Libia, Repubblica Centrafricana e Pakistan. Dopo il ritiro di gran parte delle truppe straniere, anche l’Afghanistan riceve meno attenzione.

Secondo i ricercatori, non è necessariamente la portata del conflitto ad attirare le attenzioni dei giornalisti.

Virgil Hawkins, professore associato alla Osaka school of international public policy dell’Osaka university in Giappone, ha osservato come il conflitto israelo-palestinese abbia una copertura mediatica significativa nonostante il numero di vittime sia inferiore rispetto a quelle della Repubblica Democratica del Congo.

Hawkins ha paragonato l’interesse riservato dai mezzi d’informazione all’inizio di gennaio all’attentato islamista contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi con il relativo silenzio su una serie di massacri compiuti quasi contemporaneamente da Boko haram in Nigeria.

“Le differenze non sono dovute al tipo di atrocità commesse, ma al luogo dove queste atrocità sono commesse e alle loro vittime”, ha scritto in un blog.

“Ci sono molti conflitti relativamente piccoli che covano sotto la cenere in paesi come l’India, la Thailandia, la Russia, la Turchia, la Birmania e l’Etiopia che non dovrebbero essere ignorati”, aggiunge.

I conflitti di portata ridotta spesso diventano più grandi nel momento in cui si collegano a una tematica più ampia, afferma Guéhenno. Per anni nessuno ha fatto molto caso ai microconflitti in corso nel Mali settentrionale, finché non sono diventati per il movimento jihadista un’opportunità per creare delle basi in quel territorio. “All’improvviso sono diventati strategici”, osserva Guéhenno.

“È molto difficile per i leader politici sollecitare un’azione politica su questioni che non riscuotono un grande interesse nei paesi occidentali”, conclude. “Quando le persone cominciano a essere uccise, allora c’è la mobilitazione”

Solo in Siria si contanto 220mila morti in quattro anni.

Era il 15 marzo del 2011 quando a Daraa, nel sud del Paese, si tenne la prima manifestazione contro il regime, dopo che il mese prima un gruppo di studenti erano stati arrestati con l’accusa di avere tracciato con lo spray slogan anti-regime. Un fatto senza precedenti nei 40 anni al potere della famiglia Assad. La reazione delle autorità di Damasco fu durissima. Nel sangue vennero represse anche successive manifestazioni in altre città, fino a quando l’opposizione cominciò a fare ricorso alle armi e i primi militari disertori fondarono l’Esercito libero siriano (Els). Da allora è stato un vortice di violenza che sembra non dover avere fine.

Il regime di Assad è ancora in sella nonostante l’ingiunzione lanciata fin dall’estate di quell’anno ad Assad dal presidente americano Barack Obama e dalla Ue perché lasciasse il potere. Il regime è riuscito a imporsi grazie alla fedeltà della maggior parte delle forze armate e all’appoggio dei suoi due grandi alleati, la Russia e l’Iran, anche se attualmente controlla con sicurezza solo una parte del territorio: da Damasco, attraverso la regione centrale di Homs, fino alla costa mediterranea, dove sono le roccaforti degli Assad. Nel nord Aleppo, quella che era una splendida città capitale economica e commerciale della Siria, è devastata dai combattimenti che da due anni e mezzo oppongono forze lealiste e ribelli. Più a est lo Stato islamico impone la sua versione oscurantista della Sharia nelle province di Al Hasakah e di Raqqa. A sud, presso il confine con la parte del Golan occupato da Israele, proseguono gli scontri con gruppi islamisti e il Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, mentre consiglieri iraniani e milizie sciite libanesi di Hezbollah appoggiano le forze lealiste.

Una conferenza di pace organizzata all’inizio del 2014 a Ginevra è fallita dopo due sessioni e l’estate successiva il mediatore dell’Onu e della Lega Araba, Lakhdar Brahimi, ha gettato la spugna, come aveva fatto prima di lui l’ex segretario generale Kofi Annan. Il nuovo inviato speciale, il diplomatico italo-svedese di lungo corso, Staffan de Mistura, sta cercando di favorire un dialogo che parta da obiettivi modesti, come tregue locali temporanee, a cominciare da Aleppo. Ma anche questa iniziativa sembra trovare notevoli difficoltà.

L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha detto di essere riuscito a documentare i casi di quasi 13.000 detenuti morti nelle carceri del regime per le torture subite. Ma quando le atrocità non sono riprese in video è impossibile che scuotano le coscienze come fanno le immagini degli ostaggi occidentali decapitati dai fanatici dell’Isis.

L’ultimo attentato ha ucciso oltre venti persone (tra cui quattro italiani, spagnoli e francesi) al museo Bardo di Tunisi, a pochi passi dal Parlamento, che proprio in quelle ore stava discutendo le leggi antiterrorismo. Ha colpito contemporaneamente la nascente democrazia araba e la sua fragile economia fondata sul turismo.

«La gente ancora non ha capito cosa è successo ma si tratta del più grande attentato mai avvenuto nella capitale tunisina».

«Il Bardo è il simbolo della Tunisia», continua il blogger Youssef Cherif: «Nel colpirlo i terroristi dello Stato Islamico hanno voluto colpire l’unico Paese in cui la rivoluzione araba ha avuto successo».  Il Bardo, uno dei più bei musei del Mediterraneo, raccoglie molti dei più preziosi mosaici di epoca romana.

La Tunisia è il Paese da cui era partita la serie di rivoluzioni che nel 2011 hanno sconvolto il Mediterraneo mettendo fine al regime decennale dei dittatori del Nord Africa. Ed è anche l’unico Paese che è riuscito ad eleggere liberamente il suo Parlamento e a formare un governo di unità nazionale in cui i laici di Nidaa Tounes e gli islamisti Ennahada sono riusciti a confrontarsi. In Egitto infatti il dittatore Hosni Mubarak è stato sostituito con un colpo di stato nel 2013 dal collega Abdel Fattah al-Sisi che ha eliminato fisicamente o imprigionato tutti i principali islamismi del Paese senza distinzione tra terroriste conservatori. La Libia invece è discesa nel caos e nell’anarchia con due principali fazioni politiche che si contendono il controllo e, nel farlo, lasciando territorio libero ai barbuti dell’Is.

«La democrazia non piace agli uomini dell’Is che sono allergici a qualsiasi cosa non sia esclusivamente religiosa», continua Cherif: «Da mesi sul web minacciavano il nostro Paese, il più secolare del mondo arabo. Avremmo dovuto aspettarci un evento simile».

Il problema è che da mesi la sicurezza è un enorme problema per la Tunisia. La criminalità è in aumento e il numero di tunisini partiti per raggiungere i ranghi dell’Is in Siria e in Libia è altissimo: almeno tremila persone, ma c’è chi ne stima settemila. Le risorse economiche e le forze di polizia non sono sufficienti. Perfino un obiettivo sensibile come il museo (di mosaici romani) più importante del Paese che si trova per lo più nello stesso piazzale del parlamento, è stato lasciato scoperto, facile preda di uomini armati.

“Ogni volta che viene commesso un crimine terroristico, ovunque sia, siamo tutti colpiti”. Questo il commento del presidente francese Hollande all’attacco di Tunisi. “Quando si tratta di vite umane spaventosamente schiacciate dalla macchina terrorista, che sia in Francia, in Tunisia o a Copenaghen, siamo tutti colpiti”

Per far ripartire l’economia e offrire una speranza ai milioni di giovani tunisini disoccupati Tunisi aveva lanciato lo scorso autunno una vasta campagna per il rilancio del turismo, puntando tutte le fiche sull’imminente stagione estiva. «Adesso questo attacco non solo finirà per annullare ogni sforzo pubblicitario compiuto negli ultimi mesi ma rischia anche di dare corda ai fautori della contro-rivoluzione, ovvero a coloro che sostengono che la democrazia non sia un sistema politico possibile in un Paese arabo e che si debba ritornare a uno stato di polizia. A una dittatura», sottolinea Cherif.

Intanto in Italia c’è chi comincia a contare i pochi, pochissimi chilometri che ci separano dalle coste tunisine. Da settimane, sul web, si moltiplicano le minacce a Roma, l’antica capitale del Mediterraneo.

Quale sarà il prossimo paese infelice?