Le terme di Diocleziano: metamorfosi di un monumento

La terza parte dell’itinerario racconta il diverso riutilizzo che i romani hanno fatto di ciò che restava del complesso termale, e in questa storia spicca una figura femminile: quella di Caterina Sforza di Santafiora, che ha voluto la costruzione della chiesa di S. Bernardo, dedicandola al santo borgognone Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), fondatore dell’Ordine dei Cistercensi, al quale la nobildonna era particolarmente devota.

Figlia di Vincenzo Nobili, nipote di Giulio II della Rovere, e moglie del Conte Nobili Sforza di Santa Fiora, acquistò il terreno degli Orti del cardinale Bellay nel 1593 con i resti dell’ambiente termale, finanziò i lavori di trasformazione, affidando la chiesa ai francesi dell’ordine dei Cistercensi Riformati di san Bernardo, i Foglianti.

I granai

In occasione del Giubileo del 1575 il papa Gregorio XIII ordinò la realizzazione del primo granaio pubblico della capitale, che doveva servire da deposito delle scorte alimentari della città per un intero anno. Fu scelta l’area delle antiche terme, perché era spaziosa, ventilata e riparata dalle inondazioni del Tevere; gli antichi muri perimetrali vennero riadattati alle nuove esigenze con l’inserimento di tre diversi livelli, dove il grano veniva prima rivoltato, poi asciugato e infine conservato. Si aprirono delle finestre sfondando in più punti il muro e l’ingresso al granaro fu aperto sul fronte dell’odierna piazza Termini. Gli ambienti erano tra di loro comunicanti, successivamente furono sventrati dall’apertura di via Cernaia.

In copertina. Resti dei granai gregoriani

Sotto il pontificato di Paolo V, tra il 1609 e il 1612, fu creato un nuovo granaio che si aggiunse a quello gregoriano. Urbano VIII (1623-1644) realizzò un ulteriore ampliamento dei granai, e l’ultimo granaio fu realizzato da Clemente XI nel 1705 su progetto dell’architetto Fontana.

Benedetto XIV (1740-1758) fece costruire in un’aula delle Terme, già facente parte del granaio paolino, la piccola chiesa di S. Isidoro, la cui facciata è tuttora visibile su via Parigi.

FOTO 1. Chiesa di Sant’Isidoro alle Terme

Tra il 1763 e il 1764, sotto Clemente XIII, altri locali termali furono adibiti alla conservazione dell’olio: ancora oggi il portale dell’Annona olearia, restaurato nel 1999, è riconoscibile tra il granaio gregoriano e l’ingresso alla chiesa di S. Maria degli Angeli.

FOTO 2.  Portale Annona olearia e chiesa di Santa Maria degli Angeli

Successivamente, diventata ormai inutile la funzione dell’Annona, tutta la zona fu destinata a opere assistenziali: ospizio per i poveri, carceri, con sezioni maschili e femminili, ospizio per sordomuti, orfanotrofio, Scuola Normale Femminile, ospizio dei ciechi. Intanto alcuni ambienti, rimasti in abbandono, erano stati utilizzati come botteghe di maniscalchi, carbonari, deposito di vetture o trattoria. Furono tutti abbattuti a partire dai primi del Novecento, mentre già nel 1894 era stato inaugurato il Grand Hotel, sorto in seguito alla demolizione dell’ospizio dei sordomuti. Agli inizi del ‘900 si cominciò a profilare per tutta quest’area un intento di musealizzazione, che si realizzò pienamente solo nel 1936. Furono abbattuti i vecchi granai, l’area di fronte al Grand Hotel fu adibita a zona commerciale con l’apertura della Galleria Esedra, e furono aperte nuove strade, come via Parigi, che consentiva un collegamento col palazzo del Ministero delle Finanze.

La scuola normale femminilepreparava le donne alla prima professione “intellettuale” cui loro potessero accedere e che rappresentava anche l’opportunità di procurarsi un’autonomia economica, spesso necessaria alternativa al matrimonio. Si trasformerà poi, con la legge Baccelli n. 896 del 25 giugno 1882, nell’istituto superiore di magistero Femminile, con sede a Roma e a Firenze.

Aula ottagona

L’aula ottagona era l’ambiente posto all’angolo sud-ovest del complesso delle Terme di Diocleziano, corrispondente a un ambiente simile all’angolo opposto, ora distrutto. La costruzione, in pietra cementizia e laterizio, era rivestita di lastre marmoree ed era decorata nelle parti alte con stucchi, ormai perduti. L’assenza di sistemi di riscaldamento, l’estesa luminosità, le porte di comunicazione fanno pensare a una funzione di passaggio. L’esistenza di una vasca, testimoniataci da un disegno di Baldassarre Peruzzi, della prima metà del Cinquecento, rimanda a una sorta di frigidario minore per abluzioni.

La pianta dell’aula è quadrata all’esterno, ottagona all’interno, e il raccordo è realizzato con quattro grandi nicchie semicircolari negli angoli. La copertura è a cupola a ombrello; il piano del pavimento attuale non corrisponde a quello antico, che si trovava a un livello più basso. Verso la fine del Cinquecento anche questa aula fu adibita a granaio (detto granaro tondo), e fu modificata con l’inserimento di tre livelli. Nell’Ottocento i granai furono trasformati nel Pio Istituto Giovanile di Carità e l’ambiente era utilizzato a livello terreno per le cucine, e ai due livelli superiori come cappella rispettivamente per gli uomini e per le donne.

Nel 1878 con l’apertura di via Cernaia l’aula ottagona ebbe vita autonoma, diventando dapprima la sede della Scuola Normale di Ginnastica, poi la sala per proiezioni cinematografiche Minerva, infine nel 1928 la sede del Planetario, per proiezioni astronomiche. Di quest’ultima funzione si è voluto conservare l’elegante intelaiatura in reticolo geometrico poggiato su colonnine metalliche con capitelli di ghisa. L’esterno dell’edificio fu ripristinato secondo i canoni dell’architettura fascista: due colonne doriche sostengono una trabeazione dominata dalle aquile imperiali. Dal 1979 la Soprintendenza archeologica ha iniziato un progetto di musealizzazione.

FOTO 3. Aula ottagona

Santa Maria degli Angeli

Nel 1561 le rovine delle grandiose Terme di Diocleziano furono consacrate da Pio IV e si avviò la costruzione di una chiesa dedicata a Santa Maria degli Angeli, ricavata nel grandioso corpo centrale delle distrutte terme; in questo, che era stato uno dei più maestosi edifici pubblici della Roma di Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani, abbandonato e trasformato dall’incuria del tempo in ruderi imponenti, sorse una delle più belle creazioni del tardo rinascimento romano, quasi una rivincita della cristianità sul paganesimo. I primi progetti di riutilizzazione di quest’area risalgono al 1516 e portano i nomi di Giovanni da Sangallo e Baldassarre Peruzzi. Ma solo più tardi il grande Michelangelo, ormai ultraottantenne, ebbe l’incarico di costruire la chiesa.

Il grosso problema fu di trasformare le terme in chiesa ricorrendo il meno possibile a nuove costruzioni, dato anche l’esiguo impegno economico disposto dal Pontefice. Si scelse la soluzione di utilizzare la pianta centrale a forma di croce greca in cui la grande aula del tepidarium fosse una lunga e unica navata, e l’edificio fu assegnato ai Certosini, per cui fu necessario costruire un monastero e un chiostro, collocati nell’antico frigidarium.

Con l’ingresso all’estremità dell’attuale braccio destro del transetto, entrando, si aveva la straordinaria ed emozionante visione della sala centrale delle terme, lunga più di 90 metri, trasformata in chiesa. Dell’antica costruzione romana furono usate le colossali colonne granitiche. Non è più visibile quasi nulla della sistemazione michelangiolesca, i rifacimenti settecenteschi rivestirono completamente l’edificio originario salvando solo le colonne e le volte.

Infatti, a partire dal 1700 i Certosini operarono delle grandi trasformazioni che stravolsero il progetto originario di Michelangelo, chiudendo l’ingresso previsto dal Buonarroti sull’attuale via Cernaia, realizzando una grande meridiana sul pavimento chiamata “Linea Clementina” in onore del pontefice Clemente XI e adornandola di un rilevante numero di tele donate in più riprese dai pontefici che resero la chiesa simile a una pinacoteca. Nel 1749 i Certosini invitarono il Vanvitelli a restaurare il complesso. A lui si deve anche la facciata, molto sobria, verso piazza della Repubblica e il raccordo tra la pavimentazione della chiesa e quella della piazza che era più alta.

FOTO 4. Facciata vanvitelliana

Nel 1800 Santa Maria degli Angeli fu requisita dalle truppe francesi e adibita a caserma. Nel 1896, vi si celebrò il matrimonio di Vittorio Emanuele III con Elena di Montenegro e con questa cerimonia la chiesa assunse un ruolo di rappresentanza nazionale, ospitando tutte le cerimonie ufficiali dello Stato italiano. Nel 1910 fu smantellata la facciata del Vanvitelli e si ripristinò la facciata disadorna, in cotto, quale doveva essere quella del calidarium delle terme di Diocleziano.

Elena di Montenegro, seconda regina d’Italia, fu una figura completamente diversa dalla suocera, prima regina d’Italia. Mentre Margherita amava la vita di corte, i balli, il lusso, i gioielli, Elena era schiva, riservata e amava la sua privacy.

Jelena Petrovic era chiamata la pastora, perché era nata nel 1873 a Cettigne, un grosso borgo fra le montagne montenegrine abitato per lo più da pastori, figlia del futuro re del piccolo regno del Montenegro, Nicola I. Aveva studiato in un collegio di Pietroburgo. Fu la regina Margherita ad appoggiare la sua candidatura a sposa del figlio. Il matrimonio, celebrato il 24 ottobre 1896 in Santa Maria degli Angeli, fu una cerimonia ricca, ma non sfarzosa. Elena assisteva il marito in tutto, gli faceva da traduttrice per il russo, il serbo e il greco moderno; aveva anche imparato il piemontese, per capire il marito quando le si rivolgeva in dialetto. La sua semplicità e il poco interesse che nutriva per i fasti del regno lasciavano perplessa la regina Margherita che, invece, aveva dedicato tutta la sua vita alla regalità. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Jolanda, poi la sfortunata Mafalda, quindi l’erede Umberto, infine Giovanna e Maria. Elena, cosa riprovevole per la suocera, si dedicava alla cura del marito, dei figli e della casa. Preferiva gli arredi moderni, semplici e funzionali, ai mobili antichi e austeri che riempivano i palazzi di famiglia. Chiamava ad alta voce il personale da una camera all’altra, indossava il grembiule per dirigere le cameriere; insegnava alle figlie a cucire, a lavorare a maglia, a fare i dolci. Faceva venire regolarmente una sartina a palazzo per riadattare i vestiti suoi e quelli delle figlie.

La coppia reale fu sempre oggetto di critiche e pettegolezzi. Elena era più alta di Vittorio Emanuele e le gravidanze l’avevano resa matronale. Per il tragico terremoto di Messina del 1908, si dedicò personalmente ai soccorsi; durante la prima guerra mondiale Elena fece l’infermiera a tempo pieno e trasformò il Quirinale in un ospedale. Finanziò opere benefiche a favore degli encefalitici, per madri povere, per i tubercolotici, per gli ex combattenti ecc. Sembra che sia intervenuta presso il re anche a favore degli ebrei ai tempi delle leggi razziali. Terminata la guerra, il 9 maggio del 1946, Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto e andò in esilio con Elena ad Alessandria d’Egitto, ospite di re Farouk. Elena rimase in Egitto fino alla morte del marito, avvenuta il 28 dicembre del 1947, dopo diciannove mesi d’esilio, poi si trasferì a Montpellier, dove morì di cancro il 28 novembre del 1952.

FOTO 5. Elena di Montenegro

La chiesa di san Bernardo

Alla fine di via Torino si erge il profilo curvo della chiesa di S. Bernardo, la cui costruzione faceva parte del recinto esterno delle terme, nel lato di sud ovest, opposta a un’altra rotonda, in parte ancora visibile in via del Viminale. Nelle terme l’aula circolare aveva quattro ingressi disposti a croce e durante i lavori di costruzione della chiesa vennero rinvenute grandi quantità di piombo. Questo fece pensare che l’ambiente fosse probabilmente un deposito d’acqua rivestito di piombo; secondo altri invece doveva essere uno spheristerium, sala per i giochi con la palla, delle terme.

I lavori, iniziati nel 1598, furono terminati nel 1600, anno giubilare. Per costruire la chiesa fu necessario apportare molti cambiamenti: dei quattro ingressi, uno fu ampliato per accogliere il coro, i due laterali furono utilizzati per collocarvi due altari, e l’ultimo rimase aperto per fungere da entrata. Le quattro nicchie che si aprivano lungo il perimetro interno della rotonda furono raddoppiate affinché potessero accogliere le otto statue di Mariani. E’ conosciuta come la “chiesa senza finestre”, perché prende luce solamente dall’impluvium, il grande foro circolare (oggi chiuso da un lanternino) posto al centro della grande cupola del diametro di 22 metri, ornata di file concentriche di cassettoni ottagonali decrescenti verso la sommità.

FOTO 6. Chiesa di San Bernardo alle terme

Camillo Mariani (1567-1611), scultore vicentino, è l’autore delle otto statue disposte nei nicchioni, realizzate in stucco. Esse rappresentano Sant’Agostino, S. Monica, S. Maria Maddalena, S. Francesco, S. Bernardo, S. Caterina da Siena, S. Girolamo e S. Caterina d’Alessandria. Sono rivolte alternativamente a destra e a sinistra e creano, nell’andamento curvo della Chiesa, quasi un dialogo binario.

Santa Monica(Tagaste, 331 – Ostia, 387), nata in un’agiata famiglia cristiana, poté studiare e meditare sulla Bibbia. Convertì al cristianesimo il marito Patrizio, che la lasciò vedova a trentanove anni. Ebbe tre figli, e seguì a Roma il primogenito Agostino, che, convertitosi anche lui al cristianesimo, fu filosofo, teologo e vescovo. Monica, anche se all’epoca alle donne non era permesso prendere la parola, partecipava con sapienza ai discorsi del figlio, che volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre.

Santa Caterina da Siena, nata Caterina Benincasa (Siena, 1347 – Roma, 1380), è stata proclamata patrona d’Italia nel 1939 da Papa Pio XII (assieme a San Francesco D’Assisi) e compatrona d’Europa da Papa Giovanni Paolo II nel 1999.

Figlia di un tintore di panni, ventiquattresima di venticinque figli, votatasi al Signore, rifiutò il matrimonio, e a sedici anni entrò a far parte delle Terziarie Domenicane, che a Siena si chiamavano Mantellate per il mantello nero che copriva la loro veste bianca. Non sapendo né leggere né scrivere, più che alle preghiere, allora recitate in latino, si dedicò all’assistenza di malati e bisognosi, e fu attiva soprattutto presso l’ospedale di Santa Maria della Scala, assistendo soprattutto quei malati che nessuno assisteva, o perché non avevano parenti, o perché erano afflitti da malattie contagiose.

Iniziò poi a essere accompagnata dalla “Bella brigata”, un gruppo di uomini e donne che la seguivano, la sorvegliavano nelle sue lunghe estasi, la aiutavano in ogni modo nelle attività caritative. Scrisse tante lettere, anche a personalità importanti dell’epoca, nelle quali affrontava problemi religiosi, ma anche morali e politici.

Secondo la leggenda, nell’aprile 1375 Caterina ricevette le stimmate nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, stimmate che solo lei poteva vedere, e che furono rese visibili poco prima della sua morte. Al Papa, trasferitosi ad Avignone, chiese insistentemente di tornare a Roma e il 18 giugno 1376 ad Avignone fu ricevuta dal Papa.

Caterina era una visionaria. La notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, donandole un anello visibile solo a lei, e sposandola misticamente. Dopo essere stata accolta dalle Mantellate, frequenti furono le sue estasi, continui i colloqui con Gesù Cristo suo Sposo.

Fu sepolta a Roma, nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva, dove il suo corpo è ancora conservato. Ma l’anno successivo, nel 1381, le fu staccata la testa per portarla a Siena come reliquia.

Santa Caterina d’Alessandriaè venerata come santa dalla Chiesa cattolica, e da tutte le Chiese Cristiane che ammettono la venerazione dei Santi. Incerta è la sua data di nascita (probabilmente il 287), e altrettanto poco si sa della sua vita, tanto che è difficile distinguere la realtà storica dalle leggende popolari e addirittura si dubita della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto.  Secondo la Leggenda Aurea, che risale al XIII, Caterina sarebbe stata una bella giovane egiziana, orfana del re Costa, e educata nelle arti liberali. Nonostante fosse stata chiesta in sposa da molti uomini importanti, non volle sposarsi, avendo avuto la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola suora.

Nel 305 un imperatore romano la condannò al martirio su una ruota dentata, avendo lei rifiutato di onorare gli dei pagani; ma lo strumento di tortura si ruppe e fu necessario decapitarla: dalla sua testa sgorgò latte, simbolo della sua purezza. Nel XIX secolo la studiosa Anna Jameson identificò molte caratteristiche comuni tra santa Caterina d’Alessandria e Ipazia, la matematica e filosofa pagana uccisa proprio ad Alessandria d’Egitto nel 415 da una setta di fanatici cristiani. La stessa Chiesa cattolica ha spesso espresso dei dubbi, resta comunque il permesso di festeggiarla come santa.

 

 




Le Terme di Diocleziano (parte seconda)

Le terme di Diocleziano, costruite in meno di otto anni tra il 298 e il 305 d.C., furono le più grandi tra tutte quelle realizzate a Roma e nel mondo romano (doppia estensione di quelle di Caracalla, costruite tra il 212 e il 217),) e le ultime ad essere costruite per il popolo (le terme di Costantino, più recenti, furono riservate a un pubblico limitato e selezionato).

Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 d.C. Era un illirico, poco colto, ma di grande esperienza militare, ereditò un impero minacciato da orde barbariche; da solo non poteva fronteggiare la situazione e associò al governo un suo generale, Massimiano, proclamato Augusto, affidandogli la difesa dell’Occidente e la sede a Milano, riservando a sé la difesa del fronte orientale. Il 303 Diocleziano e Massimiano fecero il loro ingresso trionfale a Roma su un carro trainato da elefanti, ma Diocleziano rimase a Roma solo 4 settimane, e non fece in tempo a vedere l’apertura delle terme.

Nell’ampia area in cui si estendevano, tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre, sono ancora visibili i resti. Per ottenere lo spazio necessario fu smantellato un intero quartiere con numerosi edifici privati e case d’abitazione, e fu utilizzato il lavoro di un enorme numero di cristiani. Tutto il complesso occupava una superficie di oltre tredici ettari; era racchiuso da un recinto rettangolare, e una grande esedra lo chiudeva dal lato opposto, fungendo probabilmente da teatro (da qui il nome della piazza, fino alla proclamazione della Repubblica). Oggi questa esedra è ricalcata dai due palazzi porticati che inquadrano via Nazionale. Poteva accogliere fino a 3000 persone contemporaneamente, e oltre a una piscina di 3500 metri quadrati, e ai classici ambienti delle terme, conteneva palestre, biblioteche, sale di studio, spazi deputati al divertimento e allo spettacolo, piccoli teatri, fontane, mosaici, pitture e gallerie d’arte, addirittura negozi. Assolveva quindi anche alla funzione di luogo di ritrovo e passatempo oltre che essere usato a scopi terapeutici.

Per l’approvvigionamento idrico fu costruita una diramazione dell’Acqua Marcia che faceva capo a un’ampia cisterna, distrutta tra il 1860 e il 1876 per la costruzione della stazione ferroviaria denominata Termini, toponimo derivato proprio dalla parola “terme” (a piazza dei Cinquecento sono ancora visibili grandiosi resti di nudi muri in laterizio).

Figura 1 Pianta delle Terme di Diocleziano

Legenda: 1 Calidarium. 2 Tepidarium. 3 Frigidarium. 4 Natatio. 5 Palaestrae. 6 Entrata. 7 Grande esedra.

Tecnologia degli impianti termali

L’invenzione non è romana, poiché pavimenti con canalizzazioni sotterranee per la circolazione d’aria calda sono noti in Grecia già nel terzo secolo a.C., ma i romani presero spunto anche dalle caratteristiche esalazioni di vapore diffuse nella regione flegrea. Si trattò di sostituire una fonte di calore artificiale a quella naturale delle fumarole e di immettere quel calore sotto i pavimenti degli ambienti balneari. Verso la fine della repubblica fu introdotto il riscaldamento col sistema detto hypocaustum (letteralmente “che scalda o brucia da sotto”): consisteva nella realizzazione di un’intercapedine pavimentale, che rendeva il pavimento sopraelevato (suspensura) su pilastrini di mattoni sovrapposti (pilae). Anche le pareti, attraverso l’utilizzo di particolari tegole o tubuli di terracotta, erano dotate di intercapedine (concameratio) dove circolavano i vapori caldi prodotti dalla fornace (praefurnium).

Le terme romane: usi e costumi

L’uso delle terme si ritrova già nell’antica Grecia, ma furono i romani a sviluppare un vero e proprio tipo di architettura, che diventò sempre più diffuso man mano che i costumi si allentavano: meno ci si dedicava all’impegno militare e a quello politico e più si andava alle terme.

Di solito ci si andava nel pomeriggio, alla fine di una giornata di lavoro. Le donne invece preferivano andarci di mattina. Ci si svestiva nello spogliatoio (apoditerium), si faceva un po’ di ginnastica nel cortile riservato (palestra), o nel gymnasium coperto e, dopo una buona sudata, si tornava nello spogliatoio, dove ci si faceva detergere il corpo con lo strigile, un raschiatoio ricurvo in metallo o avorio, e massaggiare con oli e unguenti profumati. C’era poi chi continuava con una nuotata in piscina (natatio), chi preferiva invece una sosta nel tepidarium, un’ampia sala dalla temperatura costante che immetteva nel calidarium, dove si trovavano la vasca con l’acqua calda e il bacile per le abluzioni. Adiacenti al calidarium erano il laconicum e il sudatorium, ambienti che possiamo paragonare alle attuali saune. Un tuffo nella piscina fredda, il frigidarium, concludeva il bagno. In questo modo, sudando, ungendosi e raschiando via le impurità dalla pelle, i romani, che non conoscevano il sapone, facevano un vero e proprio trattamento di pulizia, non solo, ma, alternando bagni caldi e freddi, provocavano nel corpo una reazione benefica.

Le terme divennero un appuntamento quotidiano: l’esiguo costo d’ingresso e in molti casi la completa gratuità ne consentivano l’accesso a tutti gli strati sociali: i meno abbienti trovavano qui sollievo alla loro vita di stenti, mentre i ricchi, pur disponendo spesso di terme private nelle loro case, non rinunciavano al piacere di condividere il momento del bagno con altri. Le terme divennero quindi col tempo un luogo di incontro, dove recarsi per curare il proprio corpo, ma anche semplicemente per conversare, conoscere gente: talvolta l’appuntamento alle terme costituiva addirittura un’occasione per sbrigare gli affari.

La clientela femminile

Tra i frequentatori delle terme non mancavano le donne, di tutte le classi sociali: le proprietà benefiche delle acque, la cura del corpo, i trattamenti di bellezza, divennero passatempo prediletto anche nel mondo femminile. In un primo momento, nell’osservanza del buon costume, gli impianti termali prevedevano una sezione maschile e una femminile, costruite a specchio, con un’unica fornace, o la regolamentazione dell’orario con turni diversi per uomini e donne; queste precauzioni però vennero meno con il tempo, suscitando talvolta l’indignazione degli scrittori, turbati da questa promiscuità.

La donna a Roma ha sempre occupato una posizione inferiore rispetto a quella dell’uomo; più libera di quella greca, era comunque sottomessa prima al pater familias e poi al proprio marito, doveva accudire i figli e mantenere la casa ed era totalmente esclusa dall’accesso alle istituzioni pubbliche. Nell’età imperiale, però, le romane cominciarono a fare meno figli e ad appropriarsi di tutte quelle occupazioni che in età repubblicana erano riservate agli uomini. In parecchie circostanze le donne dell’epoca imperiale proclamarono la loro parità di diritti, ma lotte e proteste femminili non ebbero, difatti, effetti rilevanti, dal momento che non miravano ad un’emancipazione in senso moderno: erano solo manifestazioni di donne ricche, dell’élite dominante, che si prendevano la libertà di gestire il proprio denaro, che osavano fare letteratura o esprimere pareri politici, giuridici o filosofici.  Le donne umili difficilmente ebbero modo di fare sentire la propria voce. Ma nell’ambiente termale tutte, ricche, potenti e serve, si illudevano di godere pari diritti rispetto all’altro genere e si comportavano come se quella parità fosse stata raggiunta. Accompagnandosi a donne del loro stesso ceto sociale, si dedicavano all’igiene personale e parlavano di trucchi, abbigliamento, o si confidavano pensieri nascosti.

Le terme di Diocleziano nella storia

Le terme di Diocleziano subirono il destino di tantissimi monumenti romani, spogliati per essere utilizzati nei secoli come cava di materiali edili per altre costruzioni, mentre le aule venivano adibite ai più svariati usi. Nell’età di Teodorico (493-526) le terme erano ancora in funzione. Un primo restauro fu condotto dopo l’invasione di Alarico, intorno al 470. Ma dopo la distruzione della città da parte di Totila, furono chiusi gli acquedotti (537) e cominciò per il complesso termale una lenta, ma inesorabile decadenza. Alcuni ambienti erano già stati cristianizzati: nel 499 veniva registrato un titulus, una primitiva ecclesia domestica, nella casa di Ciriaco, definita iunxta thermas.

Nel Medioevo le rovine diventarono meta di pellegrini che scrissero il loro entusiasmo al cospetto dell’antichità, come l’inglese Magister Gregory o il Petrarca, che all’amico Colonna descrive un luogo spazioso e silenzioso.

Dal Rinascimento in poi tornarono a nuova vita: alcune aule termali furono trasformate nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Altre parti superstiti diedero vita alla chiesa di San Bernardo, il vasto complesso dell’ex convento dei Certosini occupato dal Museo Nazionale Romano, i vecchi Granai Clementini, l’ex Planetario, una facoltà universitaria e altro ancora.

 

In copertina. Donne romane nel frigidarium delle terme, da un dipinto di Lawrence Alma-Tadema

 




Roma – Le Terme di Diocleziano: dalle Naiadi all’imperatrice Livia

Comincia da questo numero la serie dei percorsi di genere romani, che, attraversando quartieri della città di Roma, o visitando musei e gallerie, o inseguendo un filone tematico, mirano alla  ricerca di figure femminili, personaggi storici, mitologici, sante ed eroine che vi hanno lasciato traccia.

La serie si apre con le Terme di Diocleziano.

Inaugurate nel 306 d.C., si estendevano tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre. Furono le più grandi tra quelle realizzate nell’antica Roma (occupavano una superficie di oltre tredici ettari) e nel corso del tempo subirono cospicue distruzioni e trasformazioni. Seguiremo le metamorfosi di questo complesso monumentale, scavando nella sua storia per inseguire ed esaltare le memorie femminili, per la verità scarse, nascoste nelle sue pieghe.

Dalle Naiadi, raffigurate nella fontana al centro di piazza della Repubblica, visiteremo la Chiesa di S. Maria degli Angeli, che si affaccia nella stessa piazza, dalla Fontana dell’Acqua Felice, in piazza San Bernardo, arriveremo al Giardino dell’imperatrice Livia, splendidamente conservato nel museo di Palazzo Massimo alle Terme.

 

Piazza della Repubblica, che ancora oggi qualcuno ricorda come piazza Esedra (il cambio in “piazza della Repubblica” è avvenuto dopo la guerra e la proclamazione della Repubblica), situata a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, sorge nell’area delle antiche Terme di Diocleziano. Nello stesso luogo, alla fine del ‘500, sorgeva la bellissima villa Montalto Peretti, voluta da papa Sisto V, opera dell’architetto Domenico Fontana (1576).

Il precedente nome della piazza trae origine dalla grande esedra (l’esedra in architettura è uno spazio semicircolare) delle terme romane, il cui perimetro è ricalcato oggi dal colonnato semicircolare che chiude la piazza verso via Nazionale. I portici che l’abbelliscono furono edificati proprio in memoria degli antichi edifici che vi sorgevano: i palazzi porticati, risalenti al 1887-1898 sono opera dell’architetto Gaetano Koch (Roma 1849 – 1910), romano nonostante il cognome che gli deriva dall’origine tirolese del nonno, pittore di una certa fama.

Koch ha legato il suo nome anche ad altre opere realizzate nella Roma umbertina: Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, Palazzo Mengarini, residenza romana della famiglia Agnelli, sempre a Roma, e Palazzo Boncompagni Ludovisi o Margherita, attuale sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Via Veneto.

Con i palazzi porticati a piazza della Repubblica ha creato lo scenario d’ingresso alla nuova via Nazionale, diretta a piazza Venezia, una delle porte di ingresso alla città. Il richiamo al classicismo è evidente nell’ordine gigante delle arcate monumentali che sorreggono i tre piani. Il materiale delle facciate è il caldo travertino romano e gli ornamenti sono di stucco.

FOTO 1. La ninfa dei laghi

La Fontana delle Naiadi, in stile liberty, al centro della piazza è opera del palermitano Mario Rutelli (Palermo, 1859-Roma, 1941) bisnonno dell’ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, realizzata nel 1901. Le quattro naiadi rappresentate sono la Ninfa dei Laghi, riconoscibile dal cigno che tiene a sé, la Ninfa dei Fiumi, sdraiata su un serpente d’acqua, la Ninfa degli Oceani, in sella a un cavallo (sarebbe piuttosto una nereide, in quanto, secondo la mitologia greca, infatti, le “naiadi” sono ninfe delle acque dolci, mentre quelle dei mari erano note appunto come “nereidi”), e la Ninfa delle Acque Sotterranee, poggiata su un drago. Al centro si trova il gruppo del Glauco (1912), divinità protettrice dei porti, un uomo nudo, di struttura atletica, che stringe, tra le braccia vigorose, un guizzante delfino, dalla cui bocca si eleva, altissimo, un getto d’acqua che ricade sui numerosi zampilli laterali: rappresenta l’uomo vittorioso sulla forza ostile della natura.

Foto 2. La ninfa dei fiumi

Nonostante sia stata restaurata nel 1998, la fontana è molto rovinata: gli oggetti di bronzo, e, in modo particolare quelli esposti all’aria e all’acqua, si ossidano e possono anche corrodersi.

Una prima fontana fu inaugurata il 10 settembre 1870, dal papa Pio IX, dieci giorni prima della breccia di Porta Pia e della fine del suo regno temporale (Pasquino commentò: Acqua Pia, oggi tua, domani mia), come mostra dell’Acquedotto dell’Acqua Pia Marcia, che il papa aveva fatto ricostruire, e che allora era il principale rifornimento idrico della città. Era situata un po’ più vicino all’attuale stazione e consisteva in una semplice vasca, circondata da rocce da cui partivano numerosi zampilli verso il centro.

Fu ricostruita nel 1888, su progetto di Alessandro Guerrieri, che la spostò nell’attuale sistemazione, e la modificò in tre tazze circolari concentriche a diversa altezza poste su una base ottagonale con i lati alternativamente retti e concavi. Sui lati retti si aprono quattro vasche semicircolari e l’intera struttura è immersa in un’ampia piscina poco profonda. In occasione della visita dell’imperatore tedesco Guglielmo II, si decise di abbellirla e il Guerrieri pose attorno alla grande vasca circolare quattro leoni accucciati di gesso; questi furono poi sostituiti nel 1901 dai quattro gruppi di bronzo dello scultore Mario Rutelli.

Foto 3. La ninfa degli Oceani

A lavoro terminato, la visione delle quattro naiadi nude distese in pose lascive lasciò perplessi e, in attesa dell’inaugurazione, la fontana fu chiusa da una cancellata: la vecchia Roma papalina mal sopportava che, di fronte alla basilica di S. Maria degli Angeli, fossero mostrate queste bellezze femminili, cui avevano fatto da modelle alcune ragazze di Anticoli Corrado, paesino vicino Roma, famoso per la bellezza delle sue donne.

La sera del 10 febbraio 1901, incuriosita dalle polemiche giornalistiche, una gran folla di gente si era andata ammassando attorno allo steccato: stanchi di curiosare attraverso le fessure, qualcuno cominciò a scavalcare, altri a schiodare, finché lo steccato non fu completamente abbattuto.

Foto 4. La ninfa delle acque sotterranee

Le cronache del tempo però non raccontarono di un popolo scandalizzato, le Naiadi non fecero arrossire nessuno. Nei giorni successivi, tra le visite illustri si registrò anche quella della regina Margherita: l’eco delle polemiche aveva suscitato la sua curiosità. Giunta in carrozza ordinò al cocchiere di fare il giro della fontana ben tre volte e ripartì mostrando un vivo compiacimento. Per il gruppo centrale Rutelli aveva realizzato un primo modello in malta dal soggetto molto contorto: si trattava di tre figure avvinghiate in lotta con un delfino e un polipo. Il “fritto misto”, così fu chiamato dai Romani, fu trasferito ai giardini di piazza Vittorio, e per la fontana Rutelli stesso realizzò un altro gruppo più sobrio, col Glauco che abbraccia un delfino.

A proposito delle Naiadi licenziose il Sor Capanna compose uno stornello:

C’è a piazza delle Terme un funtanone

Che uno scultore celebre ha guarnito

Co’ quattro donne ignude a pecorone

E un omo in mezzo che fa da marito.

Quant’è bello quer gigante

Lì tra in mezzo a tutte quante:

cor pesce in mano

annaffia a tutt’e quattro il deretano.