Galleria Borghese: La donna oggetto del desiderio maschile, violenza carnale e mito (seconda parte)

Sala III – di Apollo e Dafne 

La sala prende il nome dal celebre gruppo di Apollo e Dafne, realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625, collocato al centro, e strettamente correlato col dipinto centrale della volta, opera del pittore Pietro Angeletti, che rappresenta i diversi momenti del racconto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559).

Foto 1: Apollo e Dafne

Apollo e Dafne: il racconto

Dafne, giovane ninfa, figlia di Gea, la Madre Terra, e del fiume Peneo, viveva serena nella quiete dei boschi, quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità, Apollo ed Eros. La leggenda racconta che un giorno Apollo, vantandosi con Eros delle sue imprese, derideva il dio dell’Amore che invece non aveva mai compiuto delle azioni degne di gloria. Ferito dalle parole di Apollo, Eros preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne, e un’altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò nel cuore di Apollo. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, tanta era la passione che ardeva nel suo cuore. Alla fine riuscì a trovarla, ma Dafne, appena lo vide, terrorizzata scappò tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita, trasformò la figlia in albero: i suoi capelli diventarono foglie; le braccia si allungarono in flessibili rami; il corpo si ricoprì di ruvida corteccia e i piedi si tramutarono in robuste radici. La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che, disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare l’amata. Alla fine il dio, deluso, proclamò a gran voce che quella pianta, l’alloro, sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori. E non è un caso che nel nome della ninfa c’era già una predestinazione: il nome Dafne significa, infatti “lauro”, alloro.

L’epica è piena di miti che riguardano le divinità, i loro amori difficili, e le violenze carnali. Basti pensare alle tante sembianze ingannevoli assunte da Giove per sedurre attraenti fanciulle. Dafne qui è modello di virtù, è una donna che difende fino all’ultimo l’onore che Apollo vorrebbe intaccare, ma rimane vittima del desiderio possessivo del dio, che egoisticamente non tiene in considerazione la contrarietà e la sua sofferenza, arrivando a rovinarle la vita. 

In realtà il vero messaggio di questo gruppo scultoreo del Bernini è l’inutilità dei tentativi di conquistare l’amata, se questa non ricambia gli stessi sentimenti, e il senso del rispetto di una scelta, anche se non condivisa. A conferma di ciò un distico morale, composto in latino dal cardinale Maffeo Barberini (futuro Papa Urbano VIII), è inciso nel cartiglio della base, che dice: chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano.

Sala IV – Sala degli Imperatori – Il trionfo di Galatea e il Ratto di Proserpina 

La sala è detta “Galleria degli Imperatori” per la presenza di diciassette busti in porfido e alabastro di Imperatori. L’ampia volta è impreziosita dai dipinti ispirati alle vicende della ninfa Galatea, anche queste narrate da Ovidio nelle Metamorfosi. Al centro si colloca Il trionfo di Galatea, figlia di Nereo, desiderata dal ciclope Polifemo (rappresentato sulla sinistra) e amata dal pastore Aci (sulla destra). 

Plafond de la Salle des Empereurs – Le Triomphe de Galatée (de Angelis, XVIIIe)

Foto 2: Il trionfo di Galatea

La leggenda narra di Polifemo, ciclope perdutamente innamorato della giovane Galatea, che a sua volta invece era innamorata di Aci, un bellissimo pastorello, che un giorno, mentre pascolava le sue pecore vicino al mare, vide Galatea e se ne innamorò perdutamente. Una sera, al chiarore della luna, il ciclope vide i due innamorati in riva al mare baciarsi. Accecato dalla gelosia, decise di vendicarsi. Non appena Galatea si tuffò in mare, Polifemo prese un grosso masso e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo. Appena Galatea seppe della terribile notizia, accorse subito e pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Giove e gli dei ebbero pietà e trasformarono il sangue del pastorello in un piccolo fiume che nasce dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia, dove gli amanti usavano incontrarsi. 

Tanti paesini in provincia di Catania ricordano nel nome, composto con Aci, questa bellissima storia di amore negato.

Al centro della sala è collocato Il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, realizzato tra il 1621 e il 1622. 

Il grande gruppo marmoreo racconta un’altra violenza, dettata da uno smodato desiderio di possesso amoroso.

Foto 3: Il ratto di Proserpina

Proserpina, figlia di Demetra, fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati. A un tratto un terribile boato lacerò l’aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio trainato da quattro cavalli Plutone, dio degli inferi, che, afferrata Proserpina, la trascinò nel grembo della terra. Il dio si era innamorato perdutamente di Proserpina e aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l’aveva rapita.

La fanciulla, atterrita, levò terribili grida, implorò il padre Giove ma questi, avendo consentito il rapimento, non poté aiutarla.

La madre Demetra udì le grida della figlia dall’Olimpo. Sconvolta scese sulla terra, e per nove giorni e nove notti la cercò disperatamente. Il sole ebbe pietà di lei e volle svelarle la verità.  Allora Demetra, disperata, si allontanò dall’Olimpo e si rifugiò in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori ingiallirono. Alla fine la madre ottenne il permesso di far tornare per metà dell’anno la figlia sulla terra, per poi passare l’altra metà nel regno di Plutone: così ogni anno in primavera la terra si copre di fiori per accoglierla. 

In questo gruppo lo scultore sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, contrapponendo l’impeto delle figure (la mano di Proserpina spingendo arriccia la pelle del viso di Plutone, che affonda le sue dita nelle carni della vittima). Mentre il rapitore con passo potente e spedito trionfa fermo con il trofeo in braccio, dall’altro lato si scorge il tentativo disperato di Proserpina di sottrarsi alla violenza, mentre le lacrime le solcano il viso e il vento le sconvolge la chioma. In basso il cane a tre teste, guardiano infernale, abbaia. 

Sala VI – del Gladiatore – La Verità

La Sala prende nome da una scultura antica, il Gladiatore Borghese, già in questa sala e venduta a Napoleone nel 1807. Al centro è collocato il gruppo berniniano di Enea, che fugge dall’incendio di Troia, salvando il vecchio padre Anchise sulle sue spalle e il figlio Ascanio.

 Su un lato è collocata la Verità, un’opera allegorica realizzata dal Bernini per se stesso intorno al 1647-1648.

 Foto 4: La verità svelata dal Tempo 

L’opera nacque in un periodo in cui Bernini era caduto in difficoltà presso la corte papale, per le accuse mossegli dagli avversari contro il suo intervento nella basilica di San Pietro, che avrebbe causato problemi statici. La Verità si incarna in una figura femminile, nuda, come nella solita iconografia, seduta su un masso roccioso, e tiene nella mano destra il sole poggiando la gamba sinistra sul globo terrestre. La raffigurazione del Tempo, che doveva essere posta nella parte alta, non fu mai eseguita. C’è un espresso riferimento a Michelangelo per il voluto contrasto tra parti levigatissime e parti incompiute e alle figure femminili di Rubens per la prorompente fisicità. 

Sala VIII – del Sileno – Caravaggio

L’ultima sala del pianterreno, detta del Sileno, è oggi più nota per la consistente presenza di opere di Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole, Grosseto 1610).

Sulle pareti, decorate a finto marmo, si trovano, infatti, sei dei dodici dipinti del maestro lombardo posseduti in origine dal cardinale: Giovane con canestra di frutta, Autoritratto in veste di Bacco o Bacchino malato, San Girolamo, Madonna dei Palafrenieri, San Giovanni Battista e David con la testa di Golia

      

 Foto 5: Madonna dei Palafrenieri 

 La Madonna dei Palafrenieri (1605-1606), anche detta Madonna della serpe, offre un’immagine a dir poco insolita della Vergine: una madonna-popolana, con un lembo della gonna arrotolata e i capelli arruffati, colta alla sprovvista, si china mostrando il seno. Ha un volto molto conosciuto a Roma, quello della modella e amica del pittore, Maddalena Antognetti detta Lena; anche l’immagine del Bambino è insolita: completamente nudo e troppo cresciuto; e Sant’Anna, una vecchia dal volto rugoso, ha un atteggiamento distaccato, dimesso. 

Il dipinto fu commissionato dalla Confraternita dei Palafrenieri per il proprio altare, dedicato a Sant’Anna, nella nuova basilica di San Pietro (i Palafrenieri Pontifici sono gli incaricati della gestione delle scuderie del Papa); ma rimase nella sede originaria solo pochi giorni, l’acquistò il cardinale Borghese per una cifra irrisoria. Probabilmente fu rimossa per motivi di decoro, vista la prorompente scollatura della Vergine e la nudità di un bambino, troppo cresciuto per essere mostrato nudo; non piacque alla Confraternita nemmeno la mancata partecipazione all’azione di S. Anna, patrona dei Palafrenieri. O più probabilmente fu il desiderio di possesso del cardinale Borghese a consentire il trasloco.

Tre sono i personaggi presenti: Maria, Gesù e Anna, la madre di Maria. Il Bambino è intento, con l’aiuto della madre, a schiacciare con il piede la testa di un serpente, allegoria del diavolo. Nonostante la scena sembri riprodurre un episodio di vita quotidiana (la mamma che corre in aiuto del bambino), simbolicamente raffigura la vittoria del Bene sul male. Anna li guarda, quasi nascosta nell’ombra. Lo sfondo è scuro, non si vede nulla dietro di loro. L’atmosfera cupa, ricca di pathos, tipica dei quadri di Caravaggio, ci fa immergere in una scena di sapore teatrale. 




Nome di donna: l’importanza di chiamare le cose con il loro nome

Sabato 17 marzo, la Casa del Cinema di Roma ha ospitato la proiezione del nuovo film di Marco Tullio Giordana e la sceneggiatura di Cristiana Mainardi, Nome di donna (https://www.youtube.com/watch?v=WcQREWwm_J8), ispirato a una storia vera di molestie sul posto di lavoro.

La giovane protagonista, Nina (C. Capotondi), da tempo disoccupata, trova finalmente lavoro in una clinica in Brianza, dove si trasferisce con la figlia. Il prestigio apparente che circonda la struttura cela in realtà un odioso circuito di molestie e violenze sessuali, ricatti e umiliazioni, orchestrato dal direttore (V. Binasco) con la connivenza di un’altra figura dirigenziale della clinica, Don Ferrari (Bebo Storti). Nina sporge denuncia a seguito di un approccio sessuale tentato dal direttore nel suo studio, dalla cui finestra l’aveva seguita con sguardo rapace dal primo giorno; la travagliata ribellione della donna porterà alla luce la fragilità di un complesso sistema di omertà, ipocrisia, menzogne.

La forza del film non sta tanto nella vicenda processuale in sé (dopo la proiezione del film, Giordana chiarisce: ‘al di là del finale del film, sappiamo tutti che l’incriminato verrà poi assolto’) ma nello scoperchiare dinamiche distorte lungo un asse di potere verticale e gerarchizzato, come anche su un piano orizzontale di relazioni professionali inquinate: le colleghe di Nina non solo non la sostengono, ma la osteggiano minacciandola. Non è casuale la cornice sociale riflessa dalla protagonista, una ‘ragazza madre’ senza lavoro: in un contesto lavorativo reso precario e incerto come quello in cui viviamo, il lavoro può diventare la leva di un ricatto, specie per le persone più vulnerabili; la dinamica della molestia messa in atto ricorda molto quella della corruzione, tutte e tutti se ne lamentano e vorrebbero estirparla, ma i fatti non incoraggiano chi si ribella, percepito come elemento di disturbo.

Notevole l’impegno di attori e attrici, in primis di Capotondi, dato anche l’alto valore simbolico degli sguardi, forse più che delle parole, in una dinamica dove molto viene taciuto o fatto tacere. Binasco, che ha avuto il coraggio di interpretare un ruolo veramente detestabile, veste l’espressione imperturbabile del molestatore che sa di farla franca. Anche i personaggi minori, però, sono significativi: il compagno di Nina (S. Scandaletti) si cala in un percorso di crescita man mano che la battaglia della ragazza si fa più dura; la figlia e la moglie del direttore rappresentano le ‘altre’ vittime di violenza, quelle a cui è distribuito un carico diverso, ma pur pesante, di vergogna e dolore. Prezioso il riferimento all’avvocata Tina Lagostena Bassi, omaggiata nel personaggio dell’appassionata avvocata Tina Della Rovere (M. Cescon).

Adriana Asti interpreta un’ospite della clinica con cui Nina allaccia un rapporto particolare, e che circa le molestie dice: ‘Prima li chiamavano complimenti’. La frase ha ispirato il dibattito aperto dopo la proiezione del film, ‘Non chiamateli complimenti’, iniziativa proposta da Se non ora quando – libere, con la presenza in sala del regista, della sceneggiatrice, di Maria Serena Sapegno e di Cristina Comencini.

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Cristiana Mainardi commenta: ‘con la crisi economica stanno emergendo nuove fragilità circa la posizione delle donne. Ho riscontrato un portentoso mondo di omertà, di vergogna. Era facile parlare di molestie ma difficile arrivare alle donne che le hanno subite. Non è solo una questione di disuguaglianza, ma anche di potere e accesso al potere’. Sulla stessa linea, Comencini: ‘Questa faccenda è una valanga. È accettato come normale il silenzio delle donne e che gli uomini usino il potere; non c’è il sostegno del mondo della comunicazione, della stampa. Spesso le donne che denunciano subiscono un vilipendio perché hanno aspettato a farlo, come si dice. Nel contesto lavorativo, è bene sottolineare che non sono atti di seduzione, sono atti di potere volti a ricordare alle donne che possono lavorare a patto che siano ridotte in subalternità tramite il sesso’.

Giordana ringrazia la sceneggiatrice per aver dato voce alla vergogna delle donne che non riescono a parlare delle molestie, e prende posizione contro chi concorre a neutralizzare i racconti di violenza banalizzandoli con l’ironia. E conclude: ‘il senso comune è protettivo verso le molestie, è necessaria quella che con un termine un po’ nostalgico definirei una rivoluzione culturale; ma questo avverrà quando la gerarchia verrà vista come una responsabilità e non come privilegio’.

Eterogenei e molto vivaci gli interventi del pubblico in sala, a dimostrazione del fatto che film come questo sono necessari per diffondere rappresentazioni della violenza di genere che siano a portata di tutti e tutte, in un momento in cui tale tema va dibattuto, individuato, misurato e contrastato, perché così sta chiedendo la società.

 




Duemila donne contro “L’Italia che stupra impunita”

Erano arrabbiatissime le donne che  hanno protestato a Firenze contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Firenze ha assolto sei uomini dall’accusata di aver stuprato, nel luglio del 2008, una giovane donna nell’area del parcheggio della Fortezza da Basso.

Alla manifestazione, convocata da un nutrito gruppo di associazioni, sono intervenute in più di duemila da diverse città del centro e nord Italia per esprimere solidarietà alla donna e alzare la voce contro una sentenza che risulta essere più un giudizio sulle scelte di vita della vittima piuttosto che nei confronti di chi quella vita ha violato.

Le stesse motivazioni della sentenza racchiudono in sé giudizi morali nei confronti della donna che non ha avuto diritto di giustizia perché secondo i giudici la sua vita “non è lineare”, quattro pagine in cui sostengono che “il comportamento della ragazza ha dato modo ai ragazzi di pensare che la stessa fosse consenziente”. In un passaggio i giudici definiscono la ragazza “un soggetto fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”.

Erano tante le donne, ma c’erano anche uomini da alcune accettati da altre tollerati, che hanno prima sfilato intorno alla Fortezza da Basso, percorso autorizzato, ma poi hanno valutato che la gravità del caso pretendeva qualcosa di più che un girotondo e hanno deciso di osare di più.

Hanno prima occupato via Strozzi, davanti la questura, per proseguire verso il centro della città, via Cavour, la stazione ferroviaria, piazza del Duomo per tornare alla Fortezza.

Moltissimi i cartelli con l’hastag #nessuna scusa, ad indicare che non esistono giustificazioni per uno stupro, tanti slogan contro il patriarcato, alcuni anche duri sul tono “L’Italia stupra impunita, se non c’è giustizia ci sarà vendetta”. E non sono mancati riferimenti internazionalisti al coraggio e alle lotte delle “sorelle curde, yazide, nigeriane, indiane…”

La manifestazione, anche se in buona parte non autorizzata, si è conclusa intorno a mezzanotte e comunque senza incidenti, tra la curiosità dei molti turisti e la solidarietà delle e dei fiorentini che per qualche minuto hanno abbandonato la tv e si sono affacciati da balconi e finestre per salutare l’insolito corteo.

Anche a Roma, nel quartiere del Pigneto, in contemporanea con la manifestazione di Firenze, si è tenuta una protesta in solidarietà con la donna che ha subito violenza e contro la sentenza che ha assolto i suoi stupratori.

Per i giudici la giovane, all’epoca 23enne, avrebbe denunciato il rapporto sessuale per “rimuovere” un suo “discutibile momento di debolezza e fragilità”. E, comunque, i ragazzi possono aver “mal interpretato” la disponibilità della ragazza.

A questi giudici la ragazza ha voluto rispondere. Lo ha fatto con una lettera pubblicata sul blog Abbatto i muri: “Come potete immaginare che io mi senta adesso? Non riesco a descriverlo nemmeno io. La cosa più amara e dolorosa di questa vicenda é vedere come ogni volta che cerco con le mani e i denti di recuperare la mia vita, di reagire, di andare avanti, c’é sempre qualcosa che ritorna a ricordarmi che sì, sono stata stuprata e non sarò mai piú la stessa”. Lo ha fatto per ribadire alla Corte d’Appello che lei, nonostante la violenza sessuale, esiste ancora. “Esisto – scrive la ragazza – nonostante abbia vissuto anni sotto shock, sia stata imbottita di psicofarmaci, abbia convissuto con attacchi di panico e incubi ricorrenti, abbia tentato il suicidio più e più volte, abbia dovuto ricostruir a stenti briciola dopo briciola, frammento dopo frammento, la mia vita distrutta, maciullata dalla violenza: la violenza che mi é stata arrecata quella notte, la violenza dei mille interrogatori della polizia, la violenza di 19 ore di processo in cui é stata dissezionata la mia vita dal tipo di mutande che porto al perché mi ritengo bisessuale”. Per l’avvocata Lisa Parrini che ha difeso la vittima si tratta di una sentenza impregnata di moralismo dal momento che è stata portata avanti indagando sulle abitudini sessuali della donna violentata per stabilire se davvero si è trattato di stupro. “Ogni maledetta volta dopo aver lavorato su me stessa, cercato di elaborare il trauma, espulso da me i sensi di colpa introiettati, il fatto di sentirmi sbagliata, sporca, colpevole – scrive la ragazza – dopo aver cercato di trasformare il dolore, la paura, il pianto in forza, in arte, ecco un altro articolo che parla di me. E io mi ritrovo catapultata di nuovo in quella strada, nel centro antiviolenza, nell‘aula di tribunale”.

“Abbiamo perso tutti – condanna la ragazza – non hanno vinto loro, gli stupratori, la loro arroganza, il loro fumo negli occhi, le loro vite vincenti”. E, dopo che i giudici di appello hanno clamorosamente ribaltato la sentenza del primo processo che condannava i sei ragazzi del branco, arriva addirittura a pensare che, forse, tornando indietro non denuncerebbe le violenze subite. “Che se anche la giustizia con me non funziona prima o poi funzionerà – è l’auspicio – cambierà, dio santo, certo che cambierà”. “Ebbene sì – conclude – se per essere creduta e credibile come vittima di uno stupro non bastano referti medici, psichiatrici, mille testimonianze oltre alla tua, le prove del dna, ma conta solo il numero di persone con cui sei andata a letto prima che succedesse, o che tipo di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai mai baciato una ragazza, se giri film o fai teatro, se hai fatto della body art, se non sei un tipo casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e lottare per i tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi essere creduta”.




ITALIA – La toponomastica per misurare il sessismo delle città

di Marina Convertino

La toponomastica come scienza che studia i toponimi e i nomi di luoghi, così come l’abbiamo studiata e come siamo abituati a pensarla, nel 2012 vede un allargamento della prospettiva e una riconsiderazione radicale dei suoi confini, grazie all’idea di Maria Pia Ercolini docente e autrice di guide di genere, che semplicemente associando l’aggettivo ‘femminile’ al termine, rivela una verità presente da sempre, eppure da sempre ignorata: l’invisibilità delle donne in quello che è il catalogo delle memorie presente nelle strade.

A gennaio del 2012 viene fondato il gruppo Toponomastica femminile utilizzando il social network facebook: il gruppo cresce connettendo energie e competenze, allaccia relazioni strategiche e si sviluppa in maniera virale arrivando a superare oggi 8.000 adesioni di persone impegnate in uno studio di ricerca che investe sia il territorio nazionale che quello estero, catturando da subito la simpatia dell’opinione pubblica e l’interesse della stampa (da quella nazionale a testate straniere come la BBC e The Times).

Il lavoro collettivo, si muove  dal censimento di strade, piazze, giardini per evidenziare la disparità di genere esistente, articolandosi in breve tempo in numerosissime iniziative come  raccolte firme e campagne di sensibilizzazione per l’intitolazione di strade a protagoniste della scienza e della società civile.

Con le recenti scomparse di importanti donne di cultura, sono state avviate: “Una strada per Miriam” in onore di Miriam Mafai, “La lunga strada di Rita” per celebrare Rita Levi Montalcini, “Una Margherita sulle nostre strade” a sostegno di Margherita Hack e “Una scena per Franca” in ricordo di Franca Rame.

La campagna “8 marzo 3 donne 3 strade”, lanciata a un mese dalla fondazione del gruppo, è rivolta a tutti i Sindaci e le Sindache d’Italia con la richiesta di intitolare tre strade a tre donne: una figura di rilevanza locale, una di rilievo nazionale e una straniera, per unire le tre anime del Paese.

Per  approfondire la conoscenza delle partigiane che hanno contribuito alla liberazione dell’Italia e celebrare in ottica paritaria il 25 aprile parte il progetto “Partigiane in città” e  in occasione del 2 giugno il progetto “Largo alle Costituenti”, con l’intento di far riemergere dall’oblio  le madri costituenti.

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Attraverso una intensa collaborazione nell’ambiente virtuale della rete, la toponomastica è diventata all’improvviso un terreno fertilissimo di studio per misurare il sessismo che  caratterizza le città. Dai censimenti capillari condotti su tutti i Comuni italiani, si rileva un indice nazionale di femminilizzazione delle strade valutato intorno all’8%, vale a dire dodici strade dedicate a uomini per ogni intitolazione femminile, e si scopre che gli odonimi celebrativi contribuiscono a formare un immaginario collettivo fatto quasi esclusivamente di uomini illustri, che lascia uno spazio al genere femminile marginale e fortemente indirizzato verso figure religiose: sante e beate, madonne nelle diverse declinazioni, benefattrici e martiri cristiane. Poche le donne politiche, di scienza, di storia, d’arte.

Anche in Puglia, che è la regione dove molta attenzione viene dedicata alle politiche di genere e della quale ci occuperemo principalmente in questo spazio, alternando fotoreportage e articoli nazionali ed esteri, la ricerca sta facendo emergere una forte discriminazione nei confronti del genere femminile, scoprendo che  anche gli spazi urbani fatti di targhe stradali e commemorative, monumenti, pietre d’inciampo, riflettono una cultura androcentrica che non tiene conto di tanti nomi femminili meritevoli di essere ricordati.

Toponomastica femminile conduce una battaglia culturale di recupero della memoria femminile, scrivendo biografie femminili pubblicate su diverse testate on line e siti, che siano di supporto e di ispirazione alle Commissioni toponomastiche. Organizza ogni anno convegni nazionali e regionali, allestisce mostre fotografiche ricchissime di immagini provenienti dall’Italia e dall’estero; collabora con Wikipedia nella realizzazione di voci inedite. Con il supporto della FNISM – Federazione Nazionale Insegnanti – e il patrocinio del Senato della Repubblica, ha promosso il concorso “Sulle vie della parità” alla sua seconda edizione, rivolto a tutte le scuole di ogni ordine e grado.

Il lavoro coinvolgente ed appassionante del gruppo, che già nei primi mesi di vita è riuscito a raggiungere molti dei suoi obiettivi e ha saputo coinvolgere le amministrazioni locali e la pubblica opinione,  ha consentito di raggiungere diversi riconoscimenti: Toponomastica femminile vince il  concorso “Nome dell’anno 2012” indetto dalla Rivista Italiana di Onomastica» (RION), l’VIII edizione del concorso nazionale DONNAèWEB, promosso da Tag Gender Art & Tecnologies e Cna Toscana per valorizzare la creatività femminile in rete e il premio nazionale Immagini Amiche promosso dall’UDI.

Toponomastica femminile oltre a essere presente su facebook, ha un suo sito dove è possibile consultare i dati dei censimenti delle varie province e le tante sezioni dedicate ai percorsi femminili ai progetti, alle biografie, alle proposte di intitolazione: http://www.toponomasticafemminile.com/.

Da dicembre di quest’anno il gruppo si è costituito formalmente in Associazione, alla quale rivolgiamo i nostri auguri perché forte delle sue radici consolidate, cresca ancora di più nell’attività di ricerca e di recupero della memoria storica delle donne, di divulgazione della cultura di genere, contribuendo in misura significativa alla  sensibilizzazione delle istituzioni e all’ apertura degli orizzonti delle giovani generazioni.

Buon 2015 da Toponomastica femminile!

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Marina Convertino

Associazione Toponomastica femminile – Referente Puglia

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