Le balie della Valdinievole

Con il riordino e l’apertura al pubblico degli Archivi storici della provincia di Pistoia, nel 1995, è riemersa una realtà a lungo tempo dimenticata, quella delle balie che dalla Valdinievole emigravano per vendere l’unica cosa preziosa che possedevano: il loro latte.

Il baliatico è una questione esclusivamente femminile, “marginale” nell’interesse degli storici: è un lavoro sommerso, talvolta ignorato dagli stessi discendenti delle protagoniste. Le donne hanno sempre parlato malvolentieri di questo mestiere anomalo, di breve durata e legato alla quantità e qualità del latte prodotto: non solo testimoniava lo stato di miseria, ma riportava alla mente il doloroso distacco dal proprio figlio neonato.

Il fenomeno si può circoscrivere in un periodo abbastanza preciso: dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta del XX secolo, in qualche caso anche dopo la Seconda guerra mondiale. I luoghi di espatrio erano essenzialmente: la Francia del Sud e la Corsica, talvolta anche la Tunisia, l’Algeria, la Svizzera, la Germania.

Foto 1. Gruppo di balie della Valdinievole in Francia, inizio Novecento. (Biblioteca comunale di Chiesina Uzzanese)

Le donne che partivano erano casalinghe, contadine, bisognose di dare un contributo economico alla famiglia, e per farlo lasciavano a casa la loro creatura appena nata, che veniva allattata da una vicina o una parente. La mortalità infantile dei figli delle balie era più alta della norma perché erano privati del latte materno e affidati a donne non sempre sane o poco attente alla cura e all’igiene dei piccoli.

Anche il viaggio verso un luogo sconosciuto dove avrebbero trovato una nuova lingua e un ambiente ben diverso dal proprio, costituiva un sacrificio, ma l’esperienza poteva rivelarsi utile da vari punti di vista: erano ben nutrite e ben vestite, si occupavano esclusivamente del bambino loro affidato, mangiavano a tavola con i padroni, in estate si trasferivano in bellissimi luoghi di villeggiatura, sottoscrivevano un regolare contratto che prevedeva una visita medica e un salario stabilito, potevano ricevere doni, vivevano una sorta di emancipazione e di autonomia economica, instauravano rapporti anche belli e duraturi con i loro “figli di latte ”, frequentavano ambienti che mai più nella vita avrebbero conosciuto. In Valdinievole mancavano le industrie, si viveva di agricoltura e del poco che offriva l’area palustre del Padule: il latte appariva dunque una risorsa da sfruttare, preferibile a una vera e propria emigrazione familiare.

Le donne locali erano molto richieste perché godevano fama di essere pulite e attente all’igiene, diventavano madri in giovane età, molte sapevano leggere e scrivere e parlare un buon italiano, dato essenziale per ricche famiglie che vivevano all’estero ma desideravano insegnare la lingua d’origine alla prole.

Esistevano, sul luogo, delle “procaccine” che curavano il rapporto domanda-offerta; verificavano lo stato di salute delle future partorienti e le prenotavano per i propri clienti; dopo il parto veniva controllata l’abbondanza di latte, si firmava il contratto e si partiva verso l’ignoto, di solito con un accompagnatore di fiducia, in treno o in nave.

Per tutto l’Ottocento e oltre, in assenza di latte artificiale, il baliatico al proprio domicilio non era affatto raro, e si praticava anche negli ospedali.

Foto 2. Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala

In Toscana due casi emblematici sono l’Ospedale degli Innocenti di Firenze e l’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena dove molte donne (di solito madri nubili o vedove o madri cui era morto il neonato), legate con regolare contratto, allattavano i trovatelli (fino a cinque ognuna), per un periodo che poteva arrivare fino a diciotto mesi, finiti i quali erano impiegate come balie “asciutte”.

Foto 3. Il pannello della mostra di Toponomastica femminile “Donne e Lavoro”

 

 

 

 




Le donne del blues e del jazz

Di Livia Capasso e Maria Pia Ercolini

Nell’ambito del Festival Le Compositrici, organizzato nella capitale dall’Università Roma Tre e della Scuola Popolare di Musica di Testaccio, si apre domani al pubblico, nei locali del teatro Palladium, a Garbatella, una nuova sezione tematica della mostra Donne e Lavoro, curata dall’associazione Toponomastica femminile.

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FOTO 1

Il festival, giunto alla sua terza edizione, vuole mettere in risalto opere scritte da musiciste, spesso rimaste nell’ombra, a cui la storia non ha riservato un posto nella memoria collettiva. Molte opere sono disperse, poche sono pubblicate, e anche quando le loro autrici hanno incontrato successo in vita, sono state spesso dimenticate dopo la morte.

Autrici e autori della nuova sezione della mostra sono per lo più docenti d’ateneo e di conservatorio, musiciste e orchestrali.

Non mancano interventi trasversali al tema della composizione, incursioni in altri territori musicali, sguardi sulla contemporaneità.

E tra questi cade lo sguardo sui pannelli dedicati alle donne del jazz e del blues, opera di Mauro Zennaro, relatore, tra l’altro, di un “duetto” con il docente e sassofonista Eugenio Colombo, alla giornata di studi Le Compositrici (Giovedì 14 aprile – Istituto di Scienze della Formazione, Università Roma Tre).

Saranno le successive immagini a raccontare, in due puntate, la storia di queste grandi artiste.

2.Gertrude   3.Bessie

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“È difficile definire il blues. Come per tutta la musica popolare, ne abbiamo notizie certe solo da quando è stato possibile registrarne i suoni. Sul prima, si possono fare solo ipotesi. La musica popolare nasce dalla voce, lo strumento più universale ed economico, adatto a cantare melodie e parole. Come il flamenco, il fado, il rebetiko e tanti altri generi, il blues parla di amore infelice, di soldi che non bastano mai, di sesso: molto dolore e qualche piacere.”

4.Billie    5. Rosetta

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“Il popolo nero, deportato nel Nuovo continente in schiavitù, adattò i suoi canti alla nuova lingua e inventò modi nuovi di suonare gli strumenti che trovava: qualche semplice percussione, la chitarra, il banjo, l’armonica, l’armonium delle chiese rurali. Nelle piantagioni la gente nera era allevata con criteri zootecnici e i maschi in eccesso venivano venduti. Nasce dunque una canzone tipica: il blues del letto vuoto, quello delle donne che improvvisamente perdevano i loro uomini. Con la fine della schiavitù le donne continuarono a restare, lavorando nelle case bianche come domestiche, mentre gli uomini emigravano seguendo il lavoro stagionale nei campi e quello definitivo nelle industrie del Nord. “Mi sono svegliata questa mattina” e ho trovato il letto vuoto: I woke up this morning è l’incipit più tipico del blues.”

6. Big Mama  7. Nina

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“Le grandi donne del blues nascono povere, hanno vite difficili ma hanno dato vita alla grande musica del Novecento. Il jazz, il rock e anche tanta musica “colta” sarebbero impensabili senza il loro canto.”

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Non solo viaggiatrici

Di Maria Pia Ercolini e Barbara Belotti

(prima parte)

Tra Ottocento e Novecento, sfidando le convenzioni sociali, molte donne viaggiano, anche da sole, raccontando la loro personale visione del mondo. Partono, osservano, studiano, disegnano, scrivono, fotografano, ritornano.

Per riportare alla luce questa realtà, che sfugge all’immaginario collettivo, abbiamo selezionato alcune figure precorritrici, le cui esplorazioni precedono il Settecento, e una rosa di nomi scelti tra le numerose protagoniste dei secoli successivi.

Provengono da Paesi e ambienti diversi e sono mosse da motivazioni e intenti differenti, ma in tutte emerge il desiderio di mettersi alla prova, di conoscere e di trasmettere.

La curiosità le rende libere.

Le loro immagini, accompagnate da brevi didascalie, sono entrate a far parte della mostra itinerante di Toponomastica femminile, Donne e lavoro, di cui parleremo nelle prossime settimane: ImPagine ne raccoglie i tratti essenziali.

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Microsoft Word - 5.Bly-Croci.docx

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ITALIA – Il lavoro delle donne in mostra

Di Andrea Zennaro

1.REPORTAGE.Euroma2_esterno.BN.bassa

Chiude in questi giorni la bella mostra fotografica e documentaria DONNE E LAVORO, esposta al Centro Commerciale EUROMA 2 della capitale: 90 pannelli, curati dall’Associazione Toponomastica femminile, attraversano gli spazi lavorativi delle donne, fra tradizione e modernità.

2.REPORTAGE.uomo bianconero1bassa

Allestita per la prima volta in maggio ai Musei Capitolini (Centrale Montemartini), l’esposizione ha raggiunto in settembre il Museo Archeologico di Terni e la Biblioteca Comunale della stessa città e, dopo la nuova esperienza romana, sarà presto accolta a Padova, arricchita di nuovi pannelli sulle attività produttive locali: faranno dunque la loro comparsa immagini e testi sulle lavoratricidei bachi da seta e sulle “mistre”, abilissime orlatrici di scarpe della Riviera del Brenta.

3.REPORTAGE_massa_studentiBN-bassa

I pannelli, provenienti da tutta Italia, vogliono sollecitare una riflessione su un impegno femminile, costantemente presente, seppure in forme diverse, e in continua evoluzione: testimoniano la fatica, ma anche i successi delle lotte sostenute dalle donne per raggiungere la parità e intendono sollecitare le amministrazioni a promuovere la memoria dell’operato femminile attraverso l’odonomastica cittadina.

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Le targhe stradali restituiscono infatti storie dimenticate o non raccontate, e contribuiscono a mantenere vivo il ricordo di figure esemplari: ma la presenza di parchi, giardini e aree di circolazione intitolate a donne è ancora marginale e soprattutto mancano dalle nostre vie quei modelli femminili moderni che costituiscono una preziosa fonte d’ispirazione e stimolo per le nuove generazioni.

5.REPORTAGE.Hack_5a

6.REPORTAGE.nonno.gelso_acqua_sindache.BN.bassa

La prima mostra fotografica di targhe stradali intitolate a donne risale all’ottobre del 2012 (Roma, Casa Internazionale delle Donne), in occasione del 1° Convegno nazionale di Toponomastica femminile. Da allora, una ventina di esposizioni hanno attraversato la capitale: dai corridoi della Sapienza alle biblioteche, dai centri culturali alle strutture scolastiche. Per le scuole è stata un’occasione di apertura verso la cultura di genere e di collegamento tra contesto formativo e impalcatura istituzionale.

L’area laziale ha avuto molteplici occasioni di presentare alla cittadinanza riflessioni e immagini in chiave di genere sull’odonomastica: Tivoli, Albano, Colonna, Ariccia, Aprilia, Formia, Cori, Sacrofano, Bassiano, Sora…

Altre iniziative in ambito nazionale hanno toccato Palermo e Catania, per poi risalire la costa tirrenica da Napoli a Genova, e visitare infine il capoluogo piemontese. Sul versante adriatico, mostre analoghe hanno preso le mosse dal Veneto – con Padova, Chioggia, Rovigo e Lendinara – per diffondersi in Romagna – da Rimini a Ravenna – e in Friuli Venezia Giulia, da Udine a Trieste.

Dalla scorsa estate una grande mostra itinerante work in progress gira per la Puglia e ha già raggiunto una dozzina di comuni.

Intitolazioni a resistenti e madri costituenti percorrono invece la Lombardia: da Garbagnate a Lodi, da Albino a Scansorosciate e a Melegnano.

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Oltre al ricco repertorio di targhe stradali – che ricordano letterate, poete, giornaliste, politiche, scienziate, artiste, educatrici, operaie, archeologhe eccetera – sono esposte in mostra una serie di immagini sul tema del lavoro femminile: documenti, foto d’epoca, foto attuali, rappresentazioni di opere d’arte.

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Un’ampia sessione è dedicata alle artigiane.

Merlettaie, ricamatrici e sarte, con approfondimenti e specificità regionali, occupano metà lato del quadrilatero.

L’arte femminile del ricamo è stata per lo più convogliata nelle manifatture gestite da uomini. Tuttavia i conventi di clausura hanno creato a volte una rete in grado di offrire alle orfane la possibilità di reinserirsi nel contesto sociale esterno proprio grazie ai proventi realizzati dalla vendita dei ricami.

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La lavorazione del merletto è diffusa a livello capillare nel nostro Paese: in luoghi e tempi diversi ha scelto l’ambiente claustrale, di scuola, bottega e fabbrica, ma soprattutto si è realizzata all’aperto, lungo i vicoli dei borghi, in forma collettiva insieme alle altre donne del vicinato, con cui condividere “l’intreccio dei fili con quello del racconto e dei commenti delle notizie quotidiane”. I Merletti di Burano, Chioggia e Pellestrina, le trine di San Sepolcro, i tomboli di Offida e Isernia, i ricami dell’Aemilia Ars bolognese costituiscono punte di diamante del vasto panorama offerto dalla tradizione. Negli ultimi secoli, il ricamo dei corredi matrimoniali e l’applicazione di merletti e trine, hanno rappresentato un’importante fonte di reddito per le ragazze.

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Un piccolo introito per le famiglie rurali proveniva anche dal lavoro delle giovani lavandaie. Le ragazze di campagna andavano in città a prendere i panni sporchi delle case benestanti, li lavavano a fiume e li riconsegnavano puliti e stirati. “Anche attraverso questi panni che andavano avanti e indietro dalla città al fiume transitava l’emancipazione femminile”: le clienti, che nella loro comunicazione abituale usavano una lingua più evoluta, insegnavano loro malgrado alle contadine, cresciute nel dialetto, espressioni e forme della lingua italiana.

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Nei paesi marinari le attività femminili assumevano caratteri propri. La prolungata assenza degli uomini, rendeva le donne protagoniste incontestate dell’organizzazione familiare e sociale. Ecco dunque che si prodigano in appoggio alle attività di pesca: producono reti e vele, bagnano i cordami, preparano le esche. A Torre del Greco, dove la pesca e la lavorazione del corallo hanno lontane origini, le donne, molto abili nel taglio nella bucatura e nel confezionamento di collane, costituiscono la stragrande maggioranza del personale operaio addetto al settore.

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Non mancano in mostra documentazioni su forme d’arte diverse, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla musica. La storiografia ha cancellato, occultato, sottostimato la presenza delle donne nella musica, eppure, raffigurazioni antichissime le ritraggono alle prese con strumenti e composizioni. Per lungo tempo alle cantanti venne vietata l’esibizione in pubblico e, in tempi non lontani, molti ambienti restarono comunque inospitali. Nel sordido mondo del jazz, ad esempio, viaggiare ed esibirsi rappresentava un rischio per le donne. Ma vi furono ugualmente grandi musiciste, seppure occultate: il loro lavoro, di compositrici e arrangiatrici, è stato spesso attribuito a uomini. Più forte la presenza femminile nel blues. Tra le tante voci nere, se ne distingue una bianca: quella di Janis Joplin.

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“Le grandi donne del blues nascono povere, hanno vite difficili, ma hanno dato vita alla grande musica del Novecento. Il jazz, il rock e anche tanta musica colta sarebbero impensabili senza il loro canto”.