BARI – Ferrhotel. Intervista a Mariangela Barbanente
A marzo, durante la rassegna dedicata alla cultura e allo spettacolo pugliese ‘Le notti del Borgo Antico’ (http://www.baritoday.it/eventi/notti-borgo-antico-arte-musica-cinema-vallisa-santa-teresa-bari-vecchia-23-gennaio-22-aprile-2018.html), organizzato da Vallisa Cultura Onlus, è stato proiettato Ferrhotel (2010), in presenza dell’autrice Mariangela Barbanente, regista e sceneggiatrice. Ne abbiamo approfittato per rivolgerle alcune domande sulla sua esperienza professionale.
Che cambiamenti noti da quando è stato girato Ferrhotel ad oggi?
C’erano tanti richiedenti asilo anche in quegli anni, il CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti asilo) di Bari esplodeva, ci sono stati momenti in cui accoglieva più ospiti della sua capacità. E quando le pratiche erano evase, con o senza permesso di soggiorno, uscivano di là senza sapere dove andare. Era stato in seguito a questa precarietà che era stato occupato il Ferrhotel. Non si può parlare di un’epoca un po’ più rosea di adesso. Però sento che quello che sta avvenendo ora è che certi ragionamenti improntati alla paura dell’altro non vengono solo da una destra senza volto, ma da persone a me vicine, anche molto vicine. Questa insofferenza per l’immigrato è andata aumentando ed è stata fomentata, prima che da certa politica, soprattutto dai media. Più i giornali hanno bisogno di click sulle loro pagine web, più vanno in cerca di storie che scandalizzano. Si è fomentata una paura per il diverso che fino a qualche anno fa era decisamente più contenuta. Ricordo che una mattina, io e Sergio (Gravili, coautore del film) aspettavamo un ragazzo di vent’anni del Ferrhotel con cui dovevamo girare una sequenza. Poiché tardava a scendere, Sergio è entrato per cercarlo. È arrivato in camera sua e ha scoperto che ancora dormiva. La riflessione che ne seguì era che al Ferrhotel le porte erano aperte, chiunque sarebbe potuto entrare, il posto non era sicuro, eppure…era sicuro. Bari è una città in cui la coabitazione era possibile. Nessuno di noi ha le porte aperte a casa sua, invece il Ferrhotel le aveva e nessuno è mai entrato a dare fastidio. A Roma, dove vivo, le cose sono più complesse perché è una grande città e qui adesso la paura del diverso è stata alimentata in chiunque. Abito in un quartiere nelle vicinanze di Termini che, a mio avviso, è un posto tutto sommato tranquillo. Sono andata ad abitare lì la prima volta nel ’92 e non c’erano ancora gli immigrati, ma era pieno di tossici. Faceva paura passare per le strade del quartiere la sera. La mia coinquilina era stata minacciata con un coltello nel portone di casa da un ragazzo tossicodipendente. Poi, man mano che sono arrivati gli immigrati (soprattutto bengalesi all’epoca), il quartiere ha cominciato a vivere di sera perché loro avevano l’abitudine di star fuori a chiacchierare e la loro presenza ha allontanato spacciatori e tossicodipenti. Adesso la piazza è molto, molto degradata. Lo spaccio è tornato e impera la sporcizia, ma comunque, quando ci passo la sera, ho molta meno paura che negli anni ’90 perché è pieno di gente non solo di disperati in cerca di una dose. Eppure, nell’ultimo mese, un quotidiano importante, fomentato non si capisce da chi, ha cominciato a scrivere articoli sul presunto fallimento dell’esperimento multietnico di piazza Vittorio (ma quale esperimento?), sul fatto che gli abitanti hanno paura a girare sotto i portici della piazza di notte. Quello che succede a Piazza Vittorio potrebbe succedere (e succede) anche in altre zone di Roma, ma a Piazza Vittorio diventa notizia. Questo pensiero negativo si trasmette molto facilmente e quindi l’immigrato diventa pericoloso. Questa campagna è stata ancor più alimentata dal tentativo di stupro di una senzatetto tedesca da parte di un senzatetto senegalese. Penso che il problema non è l’immigrato, è lasciare le persone in queste condizioni. Qualsiasi essere umano si disumanizza se si trova in queste condizioni. A Roma hanno chiuso un centro come il Baobab che accoglieva moltissimi transitanti e ha impedito loro di avere un posto dove anche solo mettere delle tende. Dove vanno ora? Sotto i portici della piazza e ovunque si possano nascondere. Non puoi annientarli o farli sparire chiudendo le case occupate o i centri d’accoglienza.
LOCANDINA
Come ti rapporti ai tuoi lavori, sia da un punto di vista affettivo che professionale, nel tempo?
I film sono un po’ come figli, e come i figli crescono e ognuno segue la sua strada così succede ai film. Nel bellissimo saggio Il cinema secondo Hitchcock di Truffaut, l’autore scrive che via via che si parlava di film più recenti, Hitchcock non riusciva a esaminarli con la stessa lucidità con cui esaminava i lavori più vecchi. E soffriva delle critiche. Non si riesce a parlare dei difetti dei propri lavori recenti, perché, in effetti, si è ancora molto dentro il film appena lo fai. Per questo è molto importante la figura del montatore, soprattutto per i documentari. Il regista arriva con una gran mole di materiale ed è affezionato a ogni inquadratura; ognuna ha una storia, gli trasmette il ricordo di un’emozione che hai vissuto mentre girava. Il montatore riesce a farti capire quale immagine parla davvero e quale comunica solo a te che l’hai girata. La distanza aiuta a capire meglio il proprio lavoro, limiti e pregi. Se penso ai miei primi tre lavori, Sole (1998, documentario sulle braccianti agricole, https://www.youtube.com/watch?v=RDpb3VnwanM) Il trasloco del bar di Vezio (2005), e Ferrhotel, vedo i difetti di ciascuno e allo stesso tempo sento che c’è un percorso di ricerca stilistica. Per quello che riguarda Ferrhotel riconosco bene quali sono le carenze del film. Secondo me non sono stata abbastanza coraggiosa su alcune storie, ho perso delle occasioni, per un eccesso di rispetto o per una mia insicurezza. Adesso, a distanza di otto anni, posso dirlo con molta più serenità di prima.
Nei tuoi ultimi lavori è palese l’importanza delle persone, sono tutte storie di persone. Da cosa nasce questo interesse?
Io sono su due carriere diverse, faccio sia la sceneggiatrice che la documentarista. Il mio interesse va quindi prima di tutto alle storie, ai personaggi. La mia passione per i documentari nasce durante gli studi in sceneggiatura al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. In quel periodo insegnava Viriglio Tosi, che è stato un documentarista di film scientifici e industriali. Curava un corso di storia del documentario, e con lui ho cominciato a vedere film come Nanuk l’eschimese di Flaherty, o i film di Joris Ivens, appassionandomi a questo genere che raccontava storie reali, con personaggi reali. Mi resi conto di come anche il racconto documetario poteva essere appassionante come un film di finzione. Quando ho deciso di provare a fare il mio primo documentario non avevo modelli se non questi film degli anni ‘30/’50 da una parte e i reportage televisivi tipo quelli della trasmissione Samarcandadall’altra. Io volevo realizzare un’indagine su un ambiente preciso – il caporalato in Puglia negli anni ’90, soprattutto nella zone delle Murge – e avevo bisogno di modelli. In Italia di cinema documentario non se ne vedeva (oltre a non farsene quasi per niente) così ho cominciato a frequentare festival all’estero. Il primo fu il Festival du Cinéma Du Réel, a Parigi, città dove sono stata dopo l’università con una borsa di studio lavorando in una casa di produzione per documentari. Ho scoperto così il Cinema Documentario contemporaneo. A quel punto ho capito che un documentario non è semplicemente intervistare una persona per farti raccontare la sua storia, ma entrare in empatia con lei, seguirla, e soprattutto cogliere il non detto dietro le parole. Credo che Sole, a cui io sono molto affezionata, sia ben riuscito nel suo piccolo, perché ho frequentato le protagoniste del mio documentario per anni prima di cominciare a girare con loro, costruendo un rapporto di fiducia che si sente.
Il tuo rapporto con la terra d’origine. Come l’hai vista da Roma, e come è cambiata la percezione nel tempo?
Mi rendo conto che, nel corso degli anni, ho un po’ mitizzato questa regione. Sono andata via perché avevo voglia di andare via, nessuno mi costringeva, avevo una gran voglia di togliermi di dosso la dimensione provinciale. Stando fuori ho rivalutato una serie di cose della mia terra, anche perché negli ultimi quindici anni è molto cambiata. La Puglia non è più quel posto sedentario e addormentato che avevo lasciato (anche se poi, a ben pensarci, non era così addormentata negli anni ’80, in quel decennio qui si è fatta musica come oggi non si fa più). Ad oggi, io torno e prendo il meglio. Per me girare documentari in Puglia (su 6 lavori 5 li ho girati qui) è un modo per mantenere un legame con la mia terra che non sia soltanto affettivo o ludico. Venirci solo per le vacanze non è vivere in Puglia. Un giorno, durante le vacanze di Natale, passeggiavo per Bari e mi sentivo estranea, molto più romana che barese. E mi sono detta: questa è la mia città, per sentirmi a casa devo viverci come ci vivono amici e familiari, ci devo lavorare. E ho cercato una storia che mi permettesse di viverla quotidianamente, noia inclusa. È così che ho deciso di girare Ferrhotel. Prim’ancora avevo girato Sole perché avevo letto degli articoli de il Manifesto sulla condizione delle braccianti agricole in Puglia (quasi tutte donne) e mi ero accorta di non saperne nulla, nonostante tutto avvenisse vicino casa mia.
FOTO. Mariangela Barbanente
In Puglia hai girato anche In viaggio con Cecilia (2013), una coregia con Cecilia Mangini. Com’è stato lavorare con un’altra regista, una compaesana, dal percorso simile?
Anche lì c’era la fascinazione di un personaggio. Conosco Cecilia da quando avevo vent’anni e ho sempre avuto una grande simpatia per lei. E stima, per il suo carattere forte, per le cose belle che ha girato negli anni ’50 e ’60. Quando le ho proposto un film su di lei, mi ha risposto: ‘No, guarda, hanno appena girato un documentario su di me, non sono ancora morta!’. Così le ho detto: ‘Allora non faccio qualcosa su di te, ma qualcosa con te!’. E’ stato molto istruttivo lavorare con lei, una bellissima avventura. L’idea di raccontare la fine del sogno industriale, in cui aveva molto creduto negli anni ’60, facendosene anche paladina coi suoi documentari, mi è sembrata una bella occasione per un documentario che non fosse soltanto nostalgico ma che parlasse anche dell’oggi.
Secondo te, c’è qualcosa che differenzia veramente l’approccio creativo maschile e quello femminile?
In questo periodo, il CNR sta svolgendo uno studio, che mi vede coinvolta nel comitato scientifico, sulle differenze di genere all’interno dell’audiovisivo italiano, da un punto di vista delle professioni coinvolte (https://www.cnr.it/en/press-note/e-14967/cnr-presentazione-del-rapporto-gap-ciak-differenze-di-genere-nel-settore-audiovisivo). Quante registe ci sono in Italia? Quante direttrici della fotografie, sceneggiatrici, produttrici? Non è solo una questione di numeri, ma di sguardi, di punti di vista, di storie raccontate. C’è stata una piccola battaglia vinta per quanto riguarda i contributi selettivi della nuova legge cinema. I progetti con una regista donna o con una maggioranza di donne nel gruppo di sceneggiatura o con un compositore donna per la colonna sonora guadagnano qualche punto in più. Di questa “preferenza” se n’è molto discusso molto perché alcuni l’hanno trovata scorretta. Anche alcune donne registe. Il problema, per me, è a monte: ci sono meno donne che fanno questi lavori, meno donne che ambiscono a queste carriere perché vengono scoraggiate. Perché sono considerati lavori per uomini, o, peggio ancora, perché nell’educazione femminile – fino a qualche anno fa, adesso spero che le cose siano cambiate o che cambino, ora che le madri siamo noi – le donne sono tenute a stare un passo indietro, a non essere affermative, assertive nella loro vita. Chi fa la regista deve dirigere un set e deve convincere cinquanta persone a seguirla in quello che sta facendo. E avere questa capacità di leadership è una cosa che non te la dà una legge, te la dà la cultura.
Per qualsiasi donna – che voglia fare la regista o un altro lavoro – c’è il problema della conciliazione casa-lavoro.
Se facciamo statisticamente un confronto, le prime donne registe non avevano figli. Adesso le cose sono un po’ cambiate, ma il problema sono i servizi, il welfare. Un Paese impedisce alle donne di seguire le loro carriere se è tutto affidato all’iniziativa personale. In seno all’attuale discussione sulle tematiche di genere degli ultimi mesi, mi ha colpito molto una sociologa che ha fatto notare come le differenze economiche e di carriera tra uomo e donna all’inizio non esistono, poi, man mano che si va avanti con l’età, gli uomini fanno più carriera, le donne meno, perché rallentano tra permessi di maternità e rinunce. Quindi perdono occasioni. Questo porta alle differenze.
Come il tuo ambiente ha accolto/accoglie le donne, secondo la tua esperienza?
È un po’ difficile dirlo. Non ho esperienza di come sarebbe se fossi uomo. L’unica memoria che ho è che la prima persona che mi ha dato fiducia come regista al mio primo film è stata una produttrice, una donna. Non ero riuscita a trovare la fiducia di nessun produttore. Sarà un caso? Forse no. Forse il fatto di avere di fronte un’altra donna mi ha dato una chance in più. Però siamo nel campo delle ipotesi. Ciò che sento è che c’è molto più cameratismo maschile che femminile. I gruppi di sceneggiatori sono più frequenti di coppie o gruppi di sceneggiatrici. Forse quello che a noi manca è fare un po’ di più squadra.