Gender gap: l’Italia arretra sul lavoro
Il World Economic Forum misura ogni anno il divario di genere in base a quattro parametri: partecipazione economica e opportunità, istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico. Dei 142 Paesi coperti dall’indice del 2017, 82 hanno aumentato il loro punteggio complessivo rispetto all’anno precedente, mentre 60 lo hanno visto diminuire. Eppure, segnala il WEF, se si colmasse la parità di genere il Pil nel mondo aumenterebbe di 5,3 miliardi di dollari. Nel Global Gender Gap Report 2017 l’Italia continua ad arretrare, scesa all’82esimo posto su 144 Paesi, perdendo ben 32 posizioni rispetto all’anno precedente. Perdono posizioni anche gli USA, al 49esimo posto. Francia e Germania si piazzano all’11esima e 12esima posizione, la Gran Bretagna alla 15esima, con un recupero rispetto al 2016 di ben 5 posizioni. A guidare la classifica si conferma l’Islanda, seguita dai soliti Paesi Scandinavi, da Nicaragua e Slovenia. Questo confronto è indicativo della discrepanza di opportunità tra i due sessi nel nostro Paese, divario che non accenna a diminuire, mentre gli altri Stati hanno iniziato a correre verso la parità e a guadagnare in competitività.
Il rapporto è una miniera di dati interessanti. Da tempo l’Islanda è considerata il Paese primo della classe nella lotta a ogni discriminazione. Da questo gennaio è entrata in vigore una nuova legge, approvata a marzo 2017 con consenso unanime, che impone la pari opportunità assoluta, con particolare attenzione alla pari ed equa retribuzione del lavoro in ogni azienda con più di 25 dipendenti, in ogni ministero e ad ogni grado di istituzione. Si tratta di un Paese in forte crescita economica e praticamente a piena occupazione, che vanta anche altre leggi ritenute esemplari dalle Nazioni Unite, da molte Ong e autorità internazionali. Ad esempio, le quota rosa di almeno il 40% negli organi direttivi, o la legge del 2006 sul congedo parentale di nove mesi. Non sono rari gli uomini che scelgono di usufruirne per aiutare lavoro e carriera delle compagne.
La lezione da imparare dall’Islanda è principalmente di natura culturale, il voler mettere in luce le discriminazioni subite dalle donne dando loro voce. È fondamentale che la disparità di genere non sia percepita come un problema unicamente femminile, e su questo punto c’è ancora molto da lavorare in Italia. Qui, infatti, il maggior divario tra i sessi nella rappresentanza politica e, soprattutto, nel mondo del lavoro, si traduce in un vistoso arretramento economico.
Analizzando il report, si può osservare come, sebbene il divario di genere si sia notevolmente ridotto per l’istruzione, si è allargato quello economico a causa delle disparità reddituali (103esima posizione), salariali (126esima) e per la partecipazione alla forza lavoro (89esima).
Da una recente indagine condotta dall’Isfol, l’ente pubblico di ricerca sui temi della formazione delle politiche sociali e del lavoro, si è notato che se per i lavoratori gli svantaggi derivano da orari e condizioni fisiche più dure, le lavoratrici sono penalizzate in termini di reddito, stabilità occupazionale e possibilità di decidere in piena autonomia. Questa dinamica rischia di avere costi elevati, dal momento che è destinata a produrre un deterioramento della qualità del lavoro nel lungo periodo. E per qualità del lavoro si deve far riferimento alla pluralità degli aspetti del lavoro stesso, i quali si relazionano ai bisogni della persona, fondandosi sul principio dell’adeguamento del lavoro alla stessa (e non viceversa) e considerando la complessità e la totalità dell’esperienza lavorativa, non limitata alle sole condizioni fisiche del lavoro. Dell’esperienza lavorativa fanno parte, ad esempio, le questioni legate alla conciliazioni tra lavoro e vita familiare che per la componente femminile dell’occupazione hanno un peso maggiore.
Dalla ricerca emerge anche che le donne lavorano di più, 512 minuti contro 453 dei colleghi, mentre la disoccupazione è più alta tra le donne (12,8% contro il 10,9%), così come la percentuale di persone deluse dal proprio stato di disoccupazione (40,3% contro il 16,2% degli uomini).
L’Italia è quindi il fanalino di coda dell’Europa Occidentale, dietro anche alla Grecia, che si colloca al 78esimo posto. Questi dati dovrebbero fare da monito perché, come ci ricorda in apertura il rapporto Ocse 2017, l’uguaglianza di genere non è unicamente un diritto, ma è anche la pietra miliare di un’economia che punta alla crescita sostenibile e inclusiva.