di Claudia Antolini
Trieste conta 17 strade dedicate a sante e madonne, 2 a benefattrici locali e 7 che ricordano la sua storia. Le targhe femminili sono 39 su un totale di circa 1300, meno del 3%, a fronte di più di 700 dediche a uomini. Poche le donne moderne, d’arte e di penna, presenti nelle targhe cittadine.
Gli odonimi della toponomastica sacra vanno ascritti al periodo preunitario italiano. Per lo più si tratta delle numerose denominazioni della Madonna, di nomi di sante e martiri che, a lungo, sono state le uniche presenze toponomastiche femminili. In molti casi le denominazioni nascevano in maniera spontanea dalla popolazione.
Laiche o religiose, le benefattrici hanno dedicato la loro vita ad aiutare i bisognosi, l’infanzia abbandonata, i poveri e i malati; spesso hanno fondato opere assistenziali che ancora oggi funzionano; hanno offerto il loro amore e, se benestanti, anche i loro averi, a testimoniare che la solidarietà umana non manca mai, anche nei periodi più bui. Le opere di carità e beneficenza hanno costituito, per molte donne, le uniche forme di autonomia riconosciute e accettate dalla famiglia e dalla società. Le strade di Trieste ricordano Sara Davis e Cecilia de Rittmeyer, donne abbienti che decisero di impiegare le loro sostanze e i loro sforzi a migliorare le condizioni di vita dei meno fortunati.
Quando la toponomastica femminile trae spunto dalla storia, sceglie spesso mogli o madri di personaggi famosi, donne che, pur avendo avuto in vita compiti e ruoli significativi, hanno dovuto cedere il passo, nella commemorazione, ai loro uomini. A Trieste è presente via Cornelia Romana, madre di Caio e Tiberio Gracco.
Altre figure sono celebrate perché la storia le ha perseguitate e rese martiri, quasi fosse implicito per il genere femminile che, per meritare un odonimo, è necessario essere vittime: ricadono in questo caso Elisa Baciocchi e Mafalda di Savoia, e Norma Cossetto.
La città non ha comunque dimenticato il coraggio delle donne che abbracciarono la causa della Resistenza. Conoscevano la crudeltà dei tedeschi, intuivano che la ferocia maschile dei soldati si sarebbe scatenata contro di loro più che contro un semplice militare nemico, eppure non si fermarono. A lungo la storiografia ufficiale le ha ignorate, sottovalutando il loro ruolo. Rita Rosani, Laura Petracco (ricordata con il fratello), Alma Vivoda (a Muggia) e Ondina Peteani hanno sacrificato la vita per l’onore e la libertà di tutta la nazione italiana; per loro l’intitolazione di strade e giardini e la medaglia d’oro al Valor Militare (tranne che per Ondina Peteani, deceduta nel 2003.
Negli ultimi anni, amministrazioni più sensibili al recupero della memoria femminile iniziano a compensare il gap di genere intitolando a figure moderne, di cultura e d’azione, aree verdi della città.
Fotografie di Lucio Perini
Risale al 4 giugno 2014 l’intitolazione del giardino comunale di via Mascagni (Valmaura) a Fedora Barbieri (Trieste 1920 – Firenze 2003), la mezzosoprano triestina, ma di fama internazionale, che portò il calore della sua voce nei più grandi teatri lirici europei e americani.
Triestina di nascita, debutta a Firenze a soli vent’anni. Nel 1942 canta alla Scala per la Nona Sinfonia di Beethoven. Negli anni Cinquanta è spesso a fianco della Callas e fino agli anni Settanta resta all’apice del successo, grazie al temperamento drammatico e al profondo calore della sua voce.
A Leonor Fini (Buenos Aires 1907 – Parigi 1996), pittrice, è dedicato il giardino che si trova in via Boccaccio, a Roiano. L’intitolazione risale all’11 dicembre 2014. A Trieste l’artista trascorre i primi vent’anni scoprendo, da autodidatta, la vocazione per la pittura. Fondamentale l’amicizia con artisti e letterati locali Leonor, eclettica e anticonformista, ebbe una carriera lunga, ricca di eventi, tra Milano, Roma e Parigi, e relazioni importanti.
Ave Ninchi (Ancona 1915 – Trieste 1997), dal 22 dicembre 2013, è ricordata nel piazzale antistante la sede dell’Arac, all’interno del giardino di via Giulia. Nata nelle Marche ma cresciuta a Trieste, Ave fu attrice di teatro e di cinema e conduttrice televisiva molto amata. Nel 1939 esordì a teatro, interpretando una lunga serie di figure popolari che la resero celebre. Sei anni più tardi ebbe inizio la sua brillante carriera nel cinema, che la portò ad affiancare Totò, Anna Magnani e Alberto Sordi.
Marisa Madieri (Fiume 1938 – Trieste 1996) ha uno spazio verde che la ricorda in via Benussi, nel quartiere di Valmaura, dallo scorso 8 maggio.
Aveva appena undici anni quando la sua famiglia abbandonò Fiume e si stabilì a Trieste. Nel suo primo romanzo, Verde Acqua, pubblicato nel 1987, narra dell’esodo dall’Istria e dipinge la città natale sullo sfondo delle sue memorie infantili e adolescenziali. Ad oggi è considerata una delle maggiori voci narranti dell’esodo istriano, e le sue opere sono state tradotte in varie lingue.
A Borgo San Sergio, dal 22 novembre 2014 si può riposare nel giardino Chiara Longo (Trieste 1951 – 1995), grande atleta triestina: nell’arco di 5 anni riuscì a conseguire le vette più alte della pallacanestro.
Ottima giocatrice di squadra vantò ben 58 presenze in nazionale, l’ultima delle quali a Rio de Janeiro, contro il Messico.
È del 27 gennaio 2015 la dedica di un giardino a Valmaura ad Ondina Peteani (Trieste 1925 – 2003), eroina della Resistenza e prima staffetta partigiana d’Italia. Entra diciottenne nei battaglioni del Carso, fugge da due arresti ma nel marzo del ’44, viene deportata, dapprima ad Auschwitz, poi a Ravensbrück e infine in una fabbrica nei pressi di Berlino, dove mette in atto un programma di sabotaggio alla produzione. Nell’aprile del ’45, durante una marcia di trasferimento, riesce a scappare e a raggiungere Trieste, percorrendo in 3 mesi più di 1300 km. Nel dopoguerra diventa ostetrica e continua la sua attività politica nel Pci, nei sindacati, nell’Anpi, nell’Aned e nei movimenti femminili.
Nei pressi dell’Università di Trieste, in via Catullo, troviamo il Giardino Wanda e Marion Wulz, (Trieste 1903 – 1984 e Trieste 1905 – 1993), dedicato alle due fotografe triestine, figlie d’arte. Iniziano la loro carriera con il padre, nello studio fotografico fondato dal nonno, del quale diventeranno titolari nel 1928. Portano avanti la tradizione del ritratto, le vedute della città e i servizi commissionati da opifici e cantieri. Wanda si fa riconoscere per la sua personale interpretazione della realtà: vicina al futurismo, viene notata da Marinetti, in una mostra tenutasi a Trieste nel ’32. “Io+gatto”, la sua immagine più famosa. Nel 1981 cedono il loro archivio allo studio dei Fratelli Alinari di Firenze.
Santa Maria Maggiore si riferisce a uno dei più importanti edifici sacri della città, dedicato al culto dell’Immacolata Concezione.
Strade intitolate a sante e madonne si riferiscono in gran parte a santuari o località particolarmente significative per il culto, ma anche a piccole costruzioni sacre, a immagini devozionali davanti alle quali ci si fermava per un breve riposo e una preghiera.
Su di un colmello alla periferia di Trieste, ora compreso nella città, si trova Servola, una volta villaggio di pescatori ora quartiere che mantiene orgogliosamente le sue specificità. A Zora Perello, antifascista servolana morta ventiduenne nel campo di concentramento di Ravensbrück è dedicata la lapide posta sulla sua Casa del Popolo. Nella foto, quasi una sintesi storica di questo angolo di Europa: San Antonio, il leone di Venezia, la stella rossa della repubblica Yugoslava e dei partigiani titini.
A 50 metri un’altra epigrafe, anche questa bilingue, fissa un momento particolarmente duro e difficile della storia di questa città. Malgrado la sconfitta nazifascista, il territorio di Trieste e dintorni vive un clima di guerra civile. La Civil Police, forza dell’ordine temporanea istituita dagli angloamericani, è composta in larga parte da ex membri del Partito Nazionale Fascista e della Guardia Civica, da disertori della zona B (territorio amministrato dagli jugoslavi) -e da domobranci, i miliziani sloveni anticomunisti. Innumerevoli saranno le manifestazioni di piazza e le proteste represse nel sangue da queste “forze dell’ordine”. Il 10 marzo 1946, nel rione di Servola, la Civil Police spara sulla folla che aveva issato alcune bandiere per una manifestazione filojugoslava provocando una ventina di feriti e la morte di Giovanna Genzo, madre di tre bambini, e Giorgio Bonifacio.