ITALIA – Pinotti: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata. Si stanno valutando nuovi ruoli per i nostri velivoli”

L’ipotesi della partecipazione dell’Italia nella guerra contro l’Isis che si sta combattendo in Iraq appare sempre più vicina alla realtà. Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha dichiarato durante un’intervista al Tg1 che: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata: siamo ad Erbil, siamo a Baghdad, ci siamo con i nostri addestratori, con i carabinieri e con aerei da ricognizione che partecipano all’operato della coalizione. Eventuali diverse esigenze, sulla base del rapporto con gli alleati e con il governo iracheno verranno valutate ma certamente passeranno al vaglio del Parlamento” . Ha inoltre affermato che “Si stanno valutando possibili nuovi ruoli per i nostri velivoli, e quando dovesse verificarsi questa ipotesi ovviamente riferirò in Parlamento”.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sulla questione si è espresso sostenendo che “la situazione in Iraq è aperta, c’è una discussione tra gli alleati sul modo migliore per partecipare all’operazione ma una cosa è certa l’Italia non ha preso nuove decisioni sull’utilizzo dei nostri aerei e se dovesse prenderle il governo non lo farebbe di nascosto ma coinvolgerebbe come è ovvio e doveroso il parlamento”. L’Italia collabora in Iraq con le forze alleate da oltre un anno, compiendo solo missioni di ricognizione attraverso l’utilizzo di 140 unità , 4 Tornado e dei droni Predator.




TURCHIA – Aggredito un giornalista del quotidiano Hurriyet. Aveva contraddetto Erdogan

La questione turca inizia ad assumere toni preoccupanti nel panorama mondiale. Dopo la tragica fine degli accordi col Pkk datata il 23 luglio, quando i raid turchi hanno bombardato le postazioni del Pkk collocati nel nord dell’Iraq , si è assistito ad una serie di sanguinari episodi che hanno provocato la morte di 1300 curdi. Il partito dei lavoratori curdi in un comunicato ha spiegato che “La tregua non ha più significato dopo gli intensi bombardamenti aerei da parte dell’esercito di occupazione turco”. L’armistizio perdurava da marzo 2013, fu comunicato illo tempore da Abdullah Öcalan, leader del Pkk, dopo un massacrante conflitto durato trent’anni e costato la vita a 40.000 persone.
Di ieri la notizia della morte dei due poliziotti turchi nella zona sud est del paese,assassinati mentre erano in procinto di lasciare il comando di polizia della città di Silvan, situata nella provincia di Diyarbakir.
In questo clima teso, alimentato dai pesanti scontri a fuoco, la libertà di stampa risulta essere minata e lesa. Ad un mese dall’appuntamento alle urne in cui il popolo turco dovrà eleggere i propri parlamentari, Ahmet Hakan un giornalista del quotidiano Hurriyet, è stato vittima, nella notte di un’aggressione da parte di quattro persone che sono state individuate ed arrestate. Il quotidiano per cui lavora il giornalista è colpevole d’aver spesso discusso e confutato l’agire del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.




SIRIA – Raid aereo: gli Usa colpiscono dalla Turchia. Assemblea generale ONU in settembre

Cacciabombardieri Usa hanno compiuto per la prima volta un raid aereo “letale” sul Nord della Siria decollando da una base nel Sud della Turchia. Lo riferisce la Cnn citando due fonti diverse della Difesa statunitense. Poco prima, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu aveva affermato che Turchia e Stati Uniti “hanno fatto progressi” riguardo all’uso della base militare turca di Incirlik e che “gli aerei americani stanno cominciando ad arrivare. Presto – ha aggiunto – lanceremo una completa lotta contro Daesh”, l’acronimo arabo per Stato islamico.

Come in passato, la Casa Bianca ambisce alle dimissioni del presidente siriano Bashar Assad ed è favorevole al sostegno dei gruppi armati di opposizione. Tuttavia Mosca considera questo approccio disastroso, soprattutto in considerazione della mancanza di progressi nella lotta contro i terroristi di ISIS. La coalizione internazionale creata dagli USA con i suoi alleati nella regione finora non è riuscita a fermare lo slancio del gruppo fondamentalista. Contemporaneamente la Russia e gli altri Paesi che sostengono il regime di Damasco non sono pronti a collaborare con questa coalizione fino a quando la sua missione non godrà del sostegno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite attraverso l’approvazione di una risoluzione speciale.
Tale coalizione dovrebbe costituirsi “su una solida base giuridica internazionale”, — si afferma nel comunicato del ministero degli Esteri russo rilasciato dopo la visita di Sergey Lavrov in Qatar.
Per Mosca è essenziale che la coalizione riceva ufficialmente il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Secondo il “Kommersant”, il presidente russo ha intenzione di dedicare particolare attenzione a questo tema nel suo discorso di apertura della 70esima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU a New York alla fine di settembre.
In una conversazione con i giornalisti Sergey Lavrov ha criticato la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ed ha esternato le sue idee in merito al segretario di Stato USA John Kerry.
“Quando gli Stati Uniti un anno fa avevano annunciato la creazione di una coalizione per combattere ISIS in Iraq e in Siria, Washington si è assicurata l’accordo del governo iracheno, ma non ha chiesto nulla a Damasco. Abbiamo già sottolineato l’illegittimità e l’inefficacia di tale approccio,” — ha detto.
Secondo il capo della diplomazia russa, le azioni degli Stati Uniti si configurano come “un ostacolo alla formazione di un fronte comune contro ISIS” e la strategia di sostenere l’opposizione siriana con l’aviazione può “complicare ulteriormente la lotta contro il terrorismo.”
“L’addestramento sul territorio degli Stati vicini da parte degli istruttori americani sui combattenti della cosiddetta opposizione moderata è degenerato quando molti degli uomini addestrati sono finiti dalla parte degli estremisti”, — ha dichiarato il ministro russo.
Mosca ritiene che “gli attacchi aerei da soli non bastano”, “ed è necessario formare una coalizione di persone che la pensano allo stesso modo” e sul campo “si oppongono con le armi alla minaccia terroristica.”
“Sono interessati l’esercito siriano e iracheno e i curdi,” — ha detto Lavrov, aggiungendo che in questa iniziativa è stata promossa dal presidente della Federazione Russa.
Allo stesso tempo Lavrov ha ammesso che la posizione di Mosca non ha trovato la comprensione di Washington.
“Non penso di essere stato in grado di far scricchiolare la posizione degli Stati Uniti. Su questo tema le nostre posizioni divergono chiaramente,” — ha detto dopo l’incontro.

ROMA –  “Da diversi giorni il governo turco bombarda villaggi civili e postazioni militari del popolo curdo. In tutti questi mesi, Erdogan ha sostenuto e appoggiato l’ISIS. Dal confine turco sono passate autobombe dirette a Kobane, miliziani dello Stato Islamico sono stati curati negli ospedali turchi, mentre si continua a tenere chiusa la frontiera con la città curda liberata da YPG/YPJ. Anche nel recente attentato che ha causato la morte di decine di giovani socialisti e anarchici a Suruc, le responsabilità del governo dell’AKP stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza.

Il dittatore turco Erdogan ha annunciato di voler combattere l’ISIS solo perché si sente estremamente debole, sia all’interno, che all’esterno del Paese. Dopo le ultime elezioni non è in grado di ottenere la maggioranza necessaria a formare un governo, anche grazie alla straordinaria affermazione dell’HDP, partito capace di parlare ai curdi e a tutta la sinistra turca. Inoltre, è stato messo alle strette dall’accordo sul nucleare iraniano e, soprattutto, ha paura che l’esperienza di democrazia radicale del Rojava possa consolidarsi e diventare contagiosa.

Per queste ragioni, dietro la maschera della lotta all’ISIS, Erdogan ha lanciato una campagna contro la resistenza curda e contro le opposizioni interne. Su circa 800 arresti, meno del 10% riguardano presunti membri dello Stato Islamico: tutti gli altri sono militanti curdi o membri delle opposizioni.

Questa operazione è condotta con la complicità degli USA e dei Paesi dell’Unione Europea, mentre i media internazionali, che fino a pochi giorni fa esaltavano le gesta delle eroiche guerrigliere curde capaci di fermare l’avanzata dell’ISIS, adesso descrivono le stesse persone e le stesse organizzazioni come “terroriste”.

Dopo mesi di solidarietà attiva nei confronti della popolazione curda e delle sue unità di autodifesa, oggi vogliamo rompere il muro di silenzio e menzogne creato intorno all’aggressione militare che stanno subendo. Vogliamo denunciare il terrorismo di Erdogan e dello Stato turco. Vogliamo affermare che in Turchia e nel Kurdistan HDP, PYD, PKK, insieme ai movimenti sociali esplosi negli ultimi anni, sono gli unici garanti della democrazia e dei valori umani.
Per la fine dei bombardamenti e la pace in Kurdistan e in tutta l’area medio-orientale.

Per il rilascio immediato di tutti gli oppositori al regime autoritario turco.

Per l’eliminazione del PKK, unico fronte all’avanzata dell’ISIS e unico garante possibile per un processo di pace nell’area, dalle liste del terrorismo internazionale.

Per il riconoscimento del confederalismo democratico del Rojava, per una possibilità di pace e libertà per i popoli del Medio Oriente”.
Roma per il Kurdistan

(Attivisti solidali con il popolo curdo e la sinistra curda e turca si sono incatenati all’ambasciata della Turchia per denunciare la guerra del governo di Erdogan contro il confederalismo democratico del Rojava, il Pkk e i movimenti sociali turchi).

ERDOGAN – “Pur di bloccare le ambizioni dei curdi di creare un proprio territorio autonomo nel Nord della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ora è determinato addirittura ad allearsi con la filiale siriana di Al Qaida”. Così Mustafa Bali, portavoce delle Unità a Difesa del popolo curdo (Ypg), il quale condanna i piani di Ankara di creare una “zona di sicurezza” nel Nord della Siria. E teme che gli Usa possano appoggiarli.

Continuano, incessanti, i bombardamenti dell’aviazione turca contro le postazioni del Pkk sulle montagne del nord dell’Iraq e del sud –est della Turchia, e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Non si hanno finora notizie precise sul bilancio ma da numerose delle zone bombardate giungono allarmanti dati sul numero delle vittime. L’agenzia di stampa ufficiale turca, Anadolu, evidentemente imbeccata dal regime, parla di circa 260 membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan uccisi e di centinaia di feriti in una settimana di attacchi aerei sulle postazioni della guerriglia. Il bollettino fornito dalla Anadolu afferma che anche Nurettin Demirtas, fratello del leader del Partito Democratico dei Popoli Sehattin, sarebbe rimasto ferito durante i raid, centinaia, che avrebbero colpito e distrutto 65 tra depositi di armi e rifugi della resistenza curda.

Cifre che, come scrivevamo già, sono probabilmente gonfiate per dare la sensazione all’opinione pubblica islamista e reazionaria turca che la nuova strategia bellicista intrapresa pochi giorni fa dall’asse Davutoglu-Erdogan stia dando i suoi frutti e che le perdite inflitte ai ‘terroristi’ – per ora solo quelli curdi, perché di attacchi contro lo Stato Islamico non si è sentito più parlare – siano molto ingenti. Il Pkk finora ha dato notizia solo di cinque morti tra i combattenti ma ha ammesso che da giorni ha perso il contatto con alcune delle aree bombardate.
Naturalmente i bollettini ufficiali turchi non fanno alcuna menzione delle numerose vittime civili causate dalle bombe sganciate dagli F-16 e dagli F-4 di Ankara sui villaggi. Notizie di vittime civili e di distruzioni arrivano da numerose zone, ma il bilancio più alto sembra arrivare finora dal villaggio di Zergelê, sui monti di Qandil, nel kurdistan iracheno, dove i caccia turchi avrebbero ucciso almeno 9 civili, compresi donne e bambini. I bombardamenti, raccontano i testimoni, sono iniziati durante la notte, intorno alle 4: quattro missili hanno preso di mira le case nel villaggio distruggendone molte e facendo strage degli abitanti. Oltre ai morti ci sarebbero anche 15 feriti, di cui alcuni in gravissime condizioni, molti dei quali non sono stati condotti in ospedale a causa della continuazione dei raid che rendono insicuri gli spostamenti. “Stavamo dormendo quando i caccia turchi hanno colpito il nostro villaggio”, ha raccontato uno dei civili feriti.
Di fronte alla violazione della propria sovranità e alla strage di oggi documentata dalle immagini scattate da un reporter dell’agenzia Rojnews – che ne annuncia sicuramente altre nei prossimi giorni – la leadership della regione autonoma dell’Iraq del Nord ha incredibilmente chiesto ai guerriglieri del Partito Curdo dei Lavoratori di lasciare le proprie postazioni nella regione “per non esporre ulteriormente i civili ai raid aerei turchi”, di cui però non ha per ora chiesto la cessazione ad Ankara.
“Il Pkk deve tenere il campo di battaglia lontano dalla regione del Kurdistan perché i civili non diventino vittime di questa guerra”, ha affermato il presidente della regione autonoma, Massud Barzani in un comunicato diffuso dal suo ufficio.
“Non crediamo che ci possa essere una soluzione militare – si è limitato a dire il ministro degli Esteri del governo di Erbil, Falah Mustafa Bakir – Speriamo che le parti tornino al negoziato perché stabilità e sicurezza è quello di cui abbiamo bisogno ai nostri confini”.
In un suo comunicato-appello urgente, invece, il Congresso Nazionale Curdo (Knk) – che riunisce partiti e movimenti di liberazione curdi di diversi paesi – parla apertamente di terrorismo di stato turco e di aperta collaborazione di Ankara con lo Stato Islamico che pure afferma di voler combattere.
A vedere le strazianti immagini provenienti da Qandil la sensazione che i jihadisti abbiano finalmente a disposizione una loro aviazione – gli F-16 di Ankara – è davvero forte.

Per Bali, che ha parlato con askanews da Kobane, città curda siriana liberata a gennaio scorso dopo un lungo assedio dei jihadisti dell’Isis, le operazioni militari appena lanciate dall’esercito turco contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis) oltre il confine con la Siria sono “una farsa turca” con altri obbiettivi rispetto a quando dichiarato: in primis “colpire i curdi”. Il vero obiettivo sarebbe bloccare la creazione di un territorio autonomo dei curdi siriani, separando due zone da loro controllate.

La zona indicata per la creazione della cosiddetto “zona cuscinetto” voluta da Ankara è lunga circa 50 chilometri, parte da Kobane a Est e arriva ad Afrin a Ovest; entrambe città curdo siriane. “Si tratta di una zona mista controllata dall’Isis e abitata da curdi, arabi e turcomanni”, afferma Bali, secondo cui parò l’esercito turco ha “bombardato solamente villaggi curdi”.

“Dopo aver capito che l’Isis non è un partner vincente – prosegue il portavoce di Ypg, che accusa senza mezzi termini Ankara di connivenza con l’Isis – Erdogan punta ora sulla carta dei qaedisti, definendoli ‘opposizione moderata’” al regime di Bashar al Assad.

Un quadro che non corrisponde a realtà, secondo l’esponente curdo. “Intanto non esiste un’opposizione moderata, basti pensare che gli Usa dopo tre anni non sono riusciti a reclutare più di 60 combattenti da addestrare contro Damasco”, argomenta Bali, spiegando che “oggi la cosiddetta opposizione moderata è composta da soli gruppi terroristi di stampo islamista come il Fronte al Nusra, Jeish al Fatah, Beit al Islam e Ahrar al Sham”. Insomma gruppi islamisti “che in comune con Erdogan hanno l’avversione per i curdi”.

Quindi “non capiamo la politica di Washington”, che pare tacitamente assecondare il piano di Ankara per la creazione della zona di sicurezza, afferma il portavoce, sottolineando che “sarà difficile che gli americani possano accettare un’alleanza con terroristi islamici camuffati da opposizione siriana”.

Tuttavia, “le forze curde non cambiano strategia: noi combattiamo i terroristi a prescindere dal nome che portano, che sia Isis o al Qaida. In fondo il Fronte al Nusra ha cominciato a sgozzare la genet prima di quelli del Califfato nero”.

Di recente la Turchia è stato colpita, per la prima volta, da attacchi da parte di milizie jihadiste legate all’Isis. Un attentato ha fatto 32 morti nella città di confine di Suruc la scorsa settimana. Per Ankara, i militanti del PKK sono terroristi, così come lo sono gli uomini del Califfo .

Con una conferenza stampa congiunta del YPG (Peoples’ Protection Units) e della sua componente femminile, il YPJ, le forze curde che combattono contro lo Stato Islamico hanno annunciato la liberazione della città di Hasaka dopo una battaglia che durava da oltre un mese.

Secondo quanto si è appreso durante l’operazione sono stati uccisi almeno 386 terroristi appartenenti al Daesh tra i quali molti comandanti di alto grado. E’ l’ennesima vittoria delle forze combattenti curde nel difficile teatro della guerra in Siria, una vittoria che arriva nonostante gli attacchi dell’aviazione turca contro i combattenti curdi.

Durante la conferenza stampa ha parlato Azima Deniz, una comandante delle forze femminili curde (YPJ) la quale nel ricordare il fondamentale apporto delle combattenti donne curde ha sottolineato come nella battaglia siano stati uccisi il “sovrano” di Hasaka nominato dai vertici dello Stato Islamico, il sindaco della città e diversi suoi assistenti.

I combattenti curdi hanno sequestrato anche una grande quantità di armi e munizioni che andranno a rinforzare le milizie curde dato che le potenze occidentali non le riforniscono adeguatamente di armi a causa della opposizione delle Turchia. La conquista della città di Hasaka porta le forze curde ancora più vicino a Raqqa, capitale del Daesh.

Intanto  la Turchia ha ammesso che durante i raid dell’aviazione turca contro obbiettivi curdi hanno perso la vita diversi civili. Il Ministero degli Esteri turco ha emesso un comunicato dove si dice “rattristato” per l’uccisione di civili e che “la Turchia farà di tutto per evitare l’uccisione di civili” confermando tuttavia che i raid contro le forze curde, in particolare contro il PKK (ma non solo), continueranno fino a quando la Turchia lo riterrà opportuno.




Yemen – Arabia Saudita e Israele condividono lo stesso ruolo di massacratori

Il segretario generale dell’ONU, Bn Ki Moon , ha richiamato i governi dell’Arabia Saudita e dello Yemen, coinvolti nel conflitto in corso, invitando a rispettare una tregua umanitaria per la sacra ricorrenza del Ramadan.
Ban Ki-moon ha fatto questo richiamo nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Ginevra prima dell’inizio del dialogo tra i raprresentanti dell’ ex presidente profugo yemenita, Abdu Rabu Mansur Hadi, e quelli del movimento popolare yemenita di Ansarolah.

Nel corso della conferenza, il segretario generale dell’ONU ha dichiarato che l’invasione dello Yemen da parte dell’Arabia Saudita (ancora in corso) ha lasciato sul terreno più di 2.600 vittime, la metà dei quali civili con donne e bambini incolpevoli. Inoltre Ban Ki Moon ha invitato tutti i partiti politici a ricercare una soluzione pacifica in modo che lo Yemen non si trasformi in un’altra Siria o Iraq.

L’analista internazionale, Manuel Pineda,  ha rilevato che si nutre un notevole pessimismo sulla possibilità che si stabilisca un dialogo e che si trovi una soluzione al conflitto e che la Monarchia Saudita rinunci ai suoi piani di espansione a spese dello Yemen, un paese confinante dove vive  una gran parte di popolazione  sciita, opposta alla confessione wahabita della Casa dei Saud.

La Monarchia Saudita dovrebbe essere obbligata a cessare il massacro che sta attuando della popolazione civile nel paese yemenita, ci sono però poche possibilità che l’Arabia Saudita possa rispettare una eventuale tregua stabilita dall’ONU.

L’Arabia Saudita è, come noto, il patrocinatore dello Stato Islamico ed insieme al regime sionista (Israele) sono forse i maggiori massacratori delle popolazioni arabe e mussulmane da Gaza allo Yemen. Non hanno alcuna sensibilità rispetto alla ricorrenza del Ramadam, come abbiamo visto anche in passato  Israele  ha attuato sulla popolazione di Gaza una strage di palestinesi durante la ricorrenza del Ramadam.

“Non si può credere che il regime saudita faccia alcuna differenza rispetto al comportamento tenuto anche da Israele,il suo classico alleato.
Bisogna considerare che L’Arabia Saudita e Israele condividono lo stesso ruolo di massacratori di popolazioni inermi in tutti i conflitti del Medio Oriente e non arresteranno la loro opera a meno che non siano obbligati dalla comunità internazionale“. Questa l’opinione di Pineda.

Il richiamo di Ban Ki Moon può avere importanza ma molto relativa poichè l’Arabia Saudita ha molto peso nella comunità internazionale e dispone della protezione del suo padrino, gli Stati Uniti, con la cui complicità sta attuando una serie di conflitti contro le popolazioni della Siria e dell’Iraq, dove operano gruppi organizzati di terroristi takfiri, ispirati e finanziati dall’Arabia Saudita che commettono le peggiori efferatezze contro i civili.

La comunità internazionale non ha una reale volontà di fermare i massacri in Medio Oriente e tanto meno nello Yemen, visto che gli USA e le maggiori potenze occidentali sono legate da rapporti di alleanza e di affari con la Monarchia Saudita che è il paese aggressore. Per l’Occidente i rapporti di affari vengono prima di qualsiasi altra questione.




International day of Happiness, ma il mondo guerreggia in 30 conflitti

Siamo caduti nel buco nero di un conflitto di tutti contro tutti di cui non si intravede la fine eppure oggi si festeggia il giorno della felicità. Quale? E dove prenderla? Perchè si dovrebbe essere felici se non si riesce nemmeno a essere contenti? Trovo che questa sia la festa più ipocrita che potessero istituire, visto che non riescono a garantire un sano tenore di vita nemmeno ai cittadini dei paesi più ricchi e sviluppati del mondo. Ormai sopravviviamo e lo dimostrano  le indagini per la misurazione della F.i.l. (Felicità interna lorda. Il termine FIL fu coniato all’inizio degli Settanta dal re del Butan, Jigme Singye Wangchuck), che prendono in esame variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili. Anche questa, tra crisi e guerre, con il Pil ha raggiunto i minimi storici.

Essendo la  socialità  la tendenza innata degli individui a convivere tra di loro, la nostra vita è tanto più felice quanto più ricche sono le nostre relazioni sociali. Perciò il concetto di benessere basato sul reddito o sul reddito pro capite deve essere allargato per includere variabili economiche diverse e considerare un insieme ampio di indicatori, quali  il numero di ore lavorate, il tasso di disoccupazione, la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita, per valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci oppure attraverso indagini nella popolazione che stimino il grado di soddisfazione percepito dai cittadini.

La classifica che mette al primo posto il Costa Rica,  definendolo il paese più felice del mondo,  non  include nell’elenco i paesi più infelici e forse bisognerebbe invertirla e domandarsi qual è il paese più infelice.

Mentre le guerre in Siria, Iraq e Ucraina riscuotono l’interesse dei mezzi d’informazione occidentali, sono una trentina gli altri conflitti di cui si parla pochissimo e che, in assenza di interventi, continueranno a colpire milioni di persone.

Le guerre civili nella regione del Darfur e negli stati meridionali del Sudan sono quasi sparite dai mass media anche se riguardano moltissime persone e nel solo Darfur hanno provocato 2,4 milioni di profughi.

La crisi nel vicino Sud Sudan è trascurata invece avrebbe un urgente bisogno di attenzione: è l’opinione di Jean-Marie Guéhenno, presidente dell’International crisis group, con sede a Bruxelles, che sta attualmente monitorandole guerre presenti in tutto il mondo.

Il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Siria sono stati considerati nel 2014 i paesi meno pacifici del mondo, secondo la classifica annuale compilata dall’Institute for economics and peace.

“L’orribile violenza alla quale si assiste ancora in Sud Sudan va avanti perché non c’è alcuna forma di pressione da parte dell’opinione pubblica”, sostiene Guéhenno.

Il secondo anno di guerra civile sta portando il paese più giovane del mondo sull’orlo della bancarotta e della carestia, e le violenze hanno costretto alla fuga almeno 1,9 milioni dei suoi 11 milioni di abitanti, uccidendone più di diecimila.

Secondo Guéhenno, se il Sud Sudan ricevesse una maggiore attenzione dai mezzi d’informazione occidentali, potrebbero essere adottate misure come un embargo sulle armi o un’azione seria per tagliare i finanziamenti alla guerra e simili pressioni avrebbero un seguito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

“Eppure questo conflitto resta fuori dei radar, tranne quando si verificano scontri più gravi”, afferma.

La Nigeria è un altro paese che risente della scarsità di notizie sui conflitti interni.
Anche se gli attacchi dei militanti islamisti di Boko haram ottengono qualche copertura, lo stesso non si può dire per le tensioni in corso altrove. Secondo Guéhenno, potrebbero esplodere gravi scontri nella regione del delta del Niger, ricca di petrolio.

“Nel caso di episodi di violenza dopo le elezioni, la notizia finirebbe su tutte le prime pagine perché la Nigeria è un paese molto importante in Africa. Ma sarebbe meglio se questioni del genere fossero affrontate già da adesso”, ha aggiunto.

Nell’ultimo decennio il numero di conflitti nel mondo è rimasto piuttosto stabile, oscillando fra i 31 e i 37, ma alla metà del 2014 il numero di profughi in fuga dalle guerre ha toccato il suo apice dal 1996.

Tuttavia, molte guerre compaiono raramente sui giornali o le tv occidentali.

Nel 2014 gli scontri nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo hanno costretto circa 770mila persone alla fuga, portando il numero totale di profughi a 2,7 milioni in un paese di 68 milioni di abitanti. Più di venti gruppi armati sono attivi solo nella provincia del Kivu Nord.

Altri conflitti sono in corso in Somalia, Yemen, Libia, Repubblica Centrafricana e Pakistan. Dopo il ritiro di gran parte delle truppe straniere, anche l’Afghanistan riceve meno attenzione.

Secondo i ricercatori, non è necessariamente la portata del conflitto ad attirare le attenzioni dei giornalisti.

Virgil Hawkins, professore associato alla Osaka school of international public policy dell’Osaka university in Giappone, ha osservato come il conflitto israelo-palestinese abbia una copertura mediatica significativa nonostante il numero di vittime sia inferiore rispetto a quelle della Repubblica Democratica del Congo.

Hawkins ha paragonato l’interesse riservato dai mezzi d’informazione all’inizio di gennaio all’attentato islamista contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi con il relativo silenzio su una serie di massacri compiuti quasi contemporaneamente da Boko haram in Nigeria.

“Le differenze non sono dovute al tipo di atrocità commesse, ma al luogo dove queste atrocità sono commesse e alle loro vittime”, ha scritto in un blog.

“Ci sono molti conflitti relativamente piccoli che covano sotto la cenere in paesi come l’India, la Thailandia, la Russia, la Turchia, la Birmania e l’Etiopia che non dovrebbero essere ignorati”, aggiunge.

I conflitti di portata ridotta spesso diventano più grandi nel momento in cui si collegano a una tematica più ampia, afferma Guéhenno. Per anni nessuno ha fatto molto caso ai microconflitti in corso nel Mali settentrionale, finché non sono diventati per il movimento jihadista un’opportunità per creare delle basi in quel territorio. “All’improvviso sono diventati strategici”, osserva Guéhenno.

“È molto difficile per i leader politici sollecitare un’azione politica su questioni che non riscuotono un grande interesse nei paesi occidentali”, conclude. “Quando le persone cominciano a essere uccise, allora c’è la mobilitazione”

Solo in Siria si contanto 220mila morti in quattro anni.

Era il 15 marzo del 2011 quando a Daraa, nel sud del Paese, si tenne la prima manifestazione contro il regime, dopo che il mese prima un gruppo di studenti erano stati arrestati con l’accusa di avere tracciato con lo spray slogan anti-regime. Un fatto senza precedenti nei 40 anni al potere della famiglia Assad. La reazione delle autorità di Damasco fu durissima. Nel sangue vennero represse anche successive manifestazioni in altre città, fino a quando l’opposizione cominciò a fare ricorso alle armi e i primi militari disertori fondarono l’Esercito libero siriano (Els). Da allora è stato un vortice di violenza che sembra non dover avere fine.

Il regime di Assad è ancora in sella nonostante l’ingiunzione lanciata fin dall’estate di quell’anno ad Assad dal presidente americano Barack Obama e dalla Ue perché lasciasse il potere. Il regime è riuscito a imporsi grazie alla fedeltà della maggior parte delle forze armate e all’appoggio dei suoi due grandi alleati, la Russia e l’Iran, anche se attualmente controlla con sicurezza solo una parte del territorio: da Damasco, attraverso la regione centrale di Homs, fino alla costa mediterranea, dove sono le roccaforti degli Assad. Nel nord Aleppo, quella che era una splendida città capitale economica e commerciale della Siria, è devastata dai combattimenti che da due anni e mezzo oppongono forze lealiste e ribelli. Più a est lo Stato islamico impone la sua versione oscurantista della Sharia nelle province di Al Hasakah e di Raqqa. A sud, presso il confine con la parte del Golan occupato da Israele, proseguono gli scontri con gruppi islamisti e il Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, mentre consiglieri iraniani e milizie sciite libanesi di Hezbollah appoggiano le forze lealiste.

Una conferenza di pace organizzata all’inizio del 2014 a Ginevra è fallita dopo due sessioni e l’estate successiva il mediatore dell’Onu e della Lega Araba, Lakhdar Brahimi, ha gettato la spugna, come aveva fatto prima di lui l’ex segretario generale Kofi Annan. Il nuovo inviato speciale, il diplomatico italo-svedese di lungo corso, Staffan de Mistura, sta cercando di favorire un dialogo che parta da obiettivi modesti, come tregue locali temporanee, a cominciare da Aleppo. Ma anche questa iniziativa sembra trovare notevoli difficoltà.

L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha detto di essere riuscito a documentare i casi di quasi 13.000 detenuti morti nelle carceri del regime per le torture subite. Ma quando le atrocità non sono riprese in video è impossibile che scuotano le coscienze come fanno le immagini degli ostaggi occidentali decapitati dai fanatici dell’Isis.

L’ultimo attentato ha ucciso oltre venti persone (tra cui quattro italiani, spagnoli e francesi) al museo Bardo di Tunisi, a pochi passi dal Parlamento, che proprio in quelle ore stava discutendo le leggi antiterrorismo. Ha colpito contemporaneamente la nascente democrazia araba e la sua fragile economia fondata sul turismo.

«La gente ancora non ha capito cosa è successo ma si tratta del più grande attentato mai avvenuto nella capitale tunisina».

«Il Bardo è il simbolo della Tunisia», continua il blogger Youssef Cherif: «Nel colpirlo i terroristi dello Stato Islamico hanno voluto colpire l’unico Paese in cui la rivoluzione araba ha avuto successo».  Il Bardo, uno dei più bei musei del Mediterraneo, raccoglie molti dei più preziosi mosaici di epoca romana.

La Tunisia è il Paese da cui era partita la serie di rivoluzioni che nel 2011 hanno sconvolto il Mediterraneo mettendo fine al regime decennale dei dittatori del Nord Africa. Ed è anche l’unico Paese che è riuscito ad eleggere liberamente il suo Parlamento e a formare un governo di unità nazionale in cui i laici di Nidaa Tounes e gli islamisti Ennahada sono riusciti a confrontarsi. In Egitto infatti il dittatore Hosni Mubarak è stato sostituito con un colpo di stato nel 2013 dal collega Abdel Fattah al-Sisi che ha eliminato fisicamente o imprigionato tutti i principali islamismi del Paese senza distinzione tra terroriste conservatori. La Libia invece è discesa nel caos e nell’anarchia con due principali fazioni politiche che si contendono il controllo e, nel farlo, lasciando territorio libero ai barbuti dell’Is.

«La democrazia non piace agli uomini dell’Is che sono allergici a qualsiasi cosa non sia esclusivamente religiosa», continua Cherif: «Da mesi sul web minacciavano il nostro Paese, il più secolare del mondo arabo. Avremmo dovuto aspettarci un evento simile».

Il problema è che da mesi la sicurezza è un enorme problema per la Tunisia. La criminalità è in aumento e il numero di tunisini partiti per raggiungere i ranghi dell’Is in Siria e in Libia è altissimo: almeno tremila persone, ma c’è chi ne stima settemila. Le risorse economiche e le forze di polizia non sono sufficienti. Perfino un obiettivo sensibile come il museo (di mosaici romani) più importante del Paese che si trova per lo più nello stesso piazzale del parlamento, è stato lasciato scoperto, facile preda di uomini armati.

“Ogni volta che viene commesso un crimine terroristico, ovunque sia, siamo tutti colpiti”. Questo il commento del presidente francese Hollande all’attacco di Tunisi. “Quando si tratta di vite umane spaventosamente schiacciate dalla macchina terrorista, che sia in Francia, in Tunisia o a Copenaghen, siamo tutti colpiti”

Per far ripartire l’economia e offrire una speranza ai milioni di giovani tunisini disoccupati Tunisi aveva lanciato lo scorso autunno una vasta campagna per il rilancio del turismo, puntando tutte le fiche sull’imminente stagione estiva. «Adesso questo attacco non solo finirà per annullare ogni sforzo pubblicitario compiuto negli ultimi mesi ma rischia anche di dare corda ai fautori della contro-rivoluzione, ovvero a coloro che sostengono che la democrazia non sia un sistema politico possibile in un Paese arabo e che si debba ritornare a uno stato di polizia. A una dittatura», sottolinea Cherif.

Intanto in Italia c’è chi comincia a contare i pochi, pochissimi chilometri che ci separano dalle coste tunisine. Da settimane, sul web, si moltiplicano le minacce a Roma, l’antica capitale del Mediterraneo.

Quale sarà il prossimo paese infelice?




Pena di morte per i marò, il Nostro No

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E’ assurdo che proprio due cittadini italiani muoiano perchè condannati dalla Giustizia di un paese in cui è praticata la pena di morte. Mi riferisco alla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre in India. L’Italia è sempre stata in prima linea nella campagna contro la pena di morte e  impegnata nella battaglia per una moratoria universale delle esecuzioni.

“La difesa dei diritti umani è per l’Italia un principio inderogabile – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Federica Mogherini – intendiamo continuare a batterci per una moratoria delle esecuzioni e in prospettiva per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. Nel 2007 abbiamo dato impulso alle iniziative che portarono all’adozione della prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla moratoria della pena capitale. L’anno seguente e nel 2010 con un gruppo di altri Paesi abbiamo promosso, sempre come Italia, altre due risoluzioni approvate all’Onu”.

Il 1 luglio scorso è stata istituita una «task force», di cui fanno parte Amnesty International, la Comunità di Sant’Egidio e Nessuno Tocchi Caino, destinata al coordinamento dell’azione italiana in vista della votazione in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Ma per svolgere un ruolo incisivo nel consolidamento e nell’ampliamento del risultato già ottenuto, per sensibilizzare quanti più Paesi e raggiungere questo obiettivo, saranno importanti il protagonismo della società civile, del governo e del Parlamento italiani.

La pena di morte è oggi giorno praticata in 95 Stati: è presente in quasi tutti i paesi asiatici, in buona parte di quelli africani, in alcune zone della America, come Stati Uniti, Cuba e Cile, mentre in Europa è esercitata esclusivamente nei territori della ex-Jugoslavia e della Bulgaria. Di tutte queste nazioni, escludendo gli Stati Uniti, le più significative sono la Cina e il Giappone.

Nel 2013 ci sono state esecuzioni in almeno 22 Paesi e in tutto “sono state messe a morte 778 persone, con un incremento del 15% rispetto al 2012”. “Così come gli anni precedenti – prosegue Amnesty International – questo dato non include le migliaia di persone che si ritiene siano messe a morte in Cina dove la pena di morte è considerata segreto di Stato”. Negli Stati Uniti, “unico paese del continente americano a eseguire condanne a morte”, il numero di esecuzioni continua a diminuire e il Maryland è diventato il diciottesimo Stato abolizionista.

In Cina, come del resto in tutti gli altri paesi asiatici, la pena di morte è massicciamente praticata; in tal senso, basti pensare che nel 1993 il 63% delle esecuzioni mondiali sono avvenute proprio in territorio cinese. I reati capitali sono 68, tra cui omicidio, stupro, rapina, furto, traffico di droga, prostituzione, evasione delle tasse e, addirittura, stampa o esposizione di materiale pornografico. Particolarmente raccapricciante è il fatto che spesso le esecuzioni vengono fatte in luoghi pubblici e i condannati sono costretti a tenere al collo un cartello con il loro nome e il reato per il quale vengono giustiziati. Amnesty International, inoltre, denuncia il fatto che spesso ai condannati, una volta giustiziati, vengono espiantati gli organi senza il loro permesso; proprio per questo motivo, si ritiene che alcune condanne vengano eseguite in quanto sono richiesti organi per i trapianti.

In Giappone, la legge prevede la pena di morte per 17 reati, quali l’omicidio e il provocare morte durante un dirottamento aereo. L’aspetto sicuramente più sconvolgente per i detenuti giapponesi è, oltre naturalmente all’esecuzione, il trattamento a loro riservato nel braccio della morte: possono, infatti, ricevere visite solo dai parenti più stretti, nella maggior parte dei casi non è permesso loro ricevere posta, vivono in celle dove la luce viene sempre tenuta accesa, sorvegliati da telecamere, che controllano che non tentino il suicidio. Devono, inoltre, sempre sedere al centro della cella e non è concesso loro di appoggiarsi al muro nè di dormire nelle ore diurne. I detenuti che non rispettano le regole subiscono severe punizioni, come l’isolamento o la sospensione delle visite. Da sottolineare, vi è il fatto che tra il novembre del 1989 ed il marzo del 1993 le esecuzioni vennero sospese perchè i ministri di giustizia dell’epoca erano contrari alla pena di morte: durante la moratoria, il tasso di criminalità non aumentò, ma anzi diminuì.

Condanne capitali colpiscono persone affette da disabilità mentale e intellettiva. In generale, il rapporto di Amnesty International sulle esecuzioni mostra che si è registrata qualche inversione di marcia. “Quattro Paesi, Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam, hanno ripreso le esecuzioni – si legge nel testo – e c’è stato un aumento significativo delle persone messe a morte in Iran e Iraq”.

Non può essere ammissibile che uno Stato arroghi a sé il diritto di vita o di morte su un essere umano: “lo Stato condanna chi uccide e poi uccide a sua volta, riparando una colpa con un’altra colpa”. (C. Beccaria)

Oggi, a distanza di millenni da quando l’uomo ha riconosciuto come inammissibile uccidere un suo simile (Non uccidere è un comandamento scritto  sulle Tavole  di Mosè) e a poco più di 250 anni dagli scritti di Cesare Beccaria,  solo il 50% dei Paesi del globo ha rinunciato alla pena capitale.

Sarebbe meglio per  qualsiasi società  punire  chiunque commetta reati non solo con la pena detentiva, ma  anche con lavori socialmente utili, finora assegnati, in Italia, soltanto a criminali appartenenti a determinate caste (politici ecc.) per evitare che scontino pene più pesanti.




IRAQ – L’Isis uccide anche Muath al Kasasbeh. Nelle loro mani resta l’ultimo ostaggio

Un uomo rinchiuso in una gabbia, un altro con in mano una torcia lo guarda in lontananza. Vi assicuro che nonostante il video sia stato girato da un professionista, il quale con occhio cinico ha ripreso da ogni angolatura la scena, calcolando anche altre variabili, quali luce e profondità, non state assistendo ad una parte del film “Saw”, ma all’esecuzione di un uomo, per la precisione di Muath al Kasasbeh, il pilota ostaggio dei miliziani dell’Isis. Il messaggio fuga ogni dubbio dall’animo di chi ha visionato il filmato, perché l’intento dei jihadisti è proprio quello di mostrare al mondo intero cosa sia il “terrore”. Ricordo d’aver visto in un articolo sul web la foto della moglie del pilota che fu scattata durante l’ultima manifestazione organizzata nel tentativo di convincere i miliziani a rilasciarlo, nei suoi occhi si leggeva il terrore di una donna che sapeva di non avere più la possibilità di riabbracciare suo marito. Quale sarà la loro prossima mossa, nessuno può saperlo, nelle loro mani rimane solo un ostaggio, ossia una cooperante americana rapita in Siria nell’agosto del 2013. Resta la delusione in chi ha creduto che il pilota potesse essere liberato in cambio della scarcerazione della jihadista Sajida al-Rishawi, detenuta nelle carceri giordane , per aver partecipato assieme a suo marito ad un attentato kamikaze nella capitale Amman, costato la vita a 60 persone. Non riuscì ad innescare l’ordigno contenuto nel giubbotto esplosivo che indossava e cercò di scappare, ma fu individuata e catturata dalla polizia. In seguito fu condannata a morte e i miliziani chiesero la sua scarcerazione in cambio della liberazione di Muath al Kasasbeh, ma in realtà si trattava solo di un becero inganno, perché l’esecuzione del pilota era avvenuta il 3 gennaio. Il Governo Giordano, che avrebbe dovuto essere esempio di civiltà, ha risposto all’esecuzione di Muath seguendo le regole della legge del taglione: il giorno dopo la terrorista è stata impiccata. Violenza che genera violenza, l’essere umano sembra essersi spogliato del suo essere “civile” involvendosi in bestia da combattimento. L’Isis non si fermerà, continuerà nella sua guerra continuando a diffondere video pregni di terrore nel web, ma se tutti evitassimo di guardare questi filmati, probabilmente li renderemmo più deboli.

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Libertà, libertà, libertà! Sulla Francia sarò breve

Libertà è una grande parola, nel suo astrattismo metafisico è diventata religione, ma sotto la bandiera della libertà  si sono fatte le guerre piú sanguinose, si sono compiuti i più grossi ladrocini, si sono violati sistematicamente i diritti universali.

L’impiego che oggi si fa dell’espressione ” libertà di opinione, di critica ” implica lo stesso falso sostanziale:  tutti gridano alla libertà di stampa anche i censori.

La guerra in Afghanistan cominciò il 7 ottobre del 2001 (ed è ancora in corso) e la guerra in Iraq il 20 marzo 2003. Il 90% dei morti sono stati civili, la maggioranza bambini e donne . “La guerra in Afghanistan costa ancora oggi 250 milioni di euro al giorno, cioè la stessa cifra che servirebbe per costruire finanziare e far funzionare dieci centri ospedalieri di prima eccellenza per tre anni” (Gino Strada). Senza considerare le cifre della guerra in Iraq, il mantenimento di Guantanamo. Se la coalizione internazionale avesse riposato una settimana o invece del 7 ottobre fosse partita, ad esempio, il 15 ottobre (cioè otto giorni dopo), avremmo avuto i soldi per costruire 80 ospedali di prima eccellenza e farli funzionare per tre anni. E, rimandando la partenza di un’altra settimana ancora, avremmo potuto costruire 800 asili. Immaginate cosa avremmo potuto fare evitando del tutto le guerre, seguendo il movimento per la pace. Invece quel giorno del 2001 vinse le linea politica di Oriana Fallaci, di George Bush,  di Massimo D’Alema e Berlusconi.

«Abbiamo iniziato con l’operazione in Francia, per la quale ci assumiamo la responsabilità. Domani saranno la Gran Bretagna, l’America e altri», ha affermato l’imam Abu Saad al-Ansari, un religioso vicino allo Stato islamico (Is), in un sermone a Mosul, in Iraq, annunciando che l’organizzazione guidata da Abu Bakr al-Baghdad è responsabile dell’attacco alla sede di Cahrlie Hebdo a Parigi. Questo è il messaggio che è stato rivolto a tutti i paesi che partecipano alla coalizione internazionale guidata dagli Usa, che ha ucciso i militanti dello Stato islamico.

Il direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier detto Charb, morto nell’attentato di Parigi, aveva scritto nella sua ultima vignetta: “Oggi nessun attentato in Francia. Attendete. Avete ancora tutto gennaio per farvi gli auguri”.

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Viva la pace! Viva Charlie Hebdo! In alto le matite!




SIRIA – Rapite due ragazze italiane: “Supplichiamo il nostro governo di riportarci a casa. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”

«Siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo» Dopo mesi di silenzio è stato pubblicato un video delle ragazze rapite ad Aleppo, in Siria, su twitter da un giornalista arabo Zaid Benjamin, delle quali non si avevano più notizie dal 31 luglio 2014. Durante la registrazione le ragazze indossavano delle tuniche nere, sono apparse a primo acchito dimagrite e visibilmente provate. Greta Ramelli è l’unica che in un inglese improntato da un forte accento italiano parla, tenendo gli occhi bassi, Vanessa Marzullo invece tiene nelle sue mani un foglio in cui è riportata la data del 17 dicembre. “Supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise, Il governo e i suoi mediatori sono responsabili delle nostre vite”. Il video è stato ritenuto autentico e si ritiene che siano tenute in ostaggio dal gruppo terrorista Jabhat al-Nusra. La Farnesina ha affermato che “Siamo in una fase delicatissima, che richiede il massimo riserbo”. Il presidente della camera, Laura Boldrini si è espressa :” Mi auguro che noi, nel riserbo necessario in questi casi, si riesca a riportarle a casa”




IRAQ – L’Isis elimina anche il pilota giordano

Muaz Kassasbeh, il pilota giordano catturato nei giorni scorsi dai miliziani dello Stato islamico (Isis) a nord della Siria, è stato ucciso, come annunciato tre giorni fa dagli islamisti. Le forze speciali americane, appoggiate da massicci raid aerei, non sono riuscite a raggiungere la casa, a 20 chilometri da Raqqa, dove era tenuto prigioniero. Per due volte gli elicotteri hanno provato a superare il fuoco di sbarramento delle anti-aeree dei miliziani. Senza successo.

A quel punto, come ha riferito per prima la tv satellitare siro-iraniana Al Mayadin, il pilota, 26 anni, sarebbe stato ucciso. Kassasbeh era stato catturato alla vigilia di Natale dopo che il suo jet F-16 era precipitato nei dintorni di Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Martedì la rivista degli Islamisti, «Dabiq», aveva pubblicato una sua foto con la tuta arancione dei prigionieri e una lunga «intervista» . Il pilota confermava di essere stato abbattuto con un missile terra-aria, come sostenuto dagli islamisti. Stati Uniti e Giordania hanno smentito che l’aereo fosse stato colpito.

Subito dopo la cattura gli islamisti avevano dato molto risalto sul Web all’abbattimento, il primo di un cacciabombardiere occidentale, e postato le foto del pilota appena catturato, che con aria spaventata mentre veniva spinto verso la sua prigione da un gruppo di jihadisti. Sempre sul Web gli jihadisti avevano chiesto ai loro seguaci «suggerimenti» su come giustiziarlo.

Secondo fonti israeliane e statunitensi, gli elicotteri che hanno tentato i blitz si sono trovate di fronte a un fuoco di sbarramento «spaventoso» e il rischio di vedere un velivolo abbattuto era troppo alto. Uno scenario che ricordava «Black Hawk Down», il film di Ridley Scott sulle forze speciali americani intrappolate nell’inferno di Mogadiscio. E la conferma che le difese attorno Raqqa sono state rafforzate: in città è probabilmente tornato il califfo Abu Bakr al Baghdadi, dopo un periodo trascorso a Mosul, in Iraq.