Il genere prima della lingua, nelle lingue e nella lingua in dieci domande (e risposte) – Seconda parte
Esiste il genere come categoria non riferita alla contrapposizione maschile-femminile?
Nella prospettiva di Jackendoff, un autore contemporaneo che ricordava la capacità di categorizzare come peculiarità essenziale della cognizione, il genere si configura come una “idea” che, ad un certo punto, trova “forma” nel sistema linguistico. Proprio perché si tratta di un’idea non è scontato che il genere abbia a che fare con un marker di tipo sessuale (che però è il più frequente e che, probabilmente a seguito del maggior peso assunto dalla consapevolezza di sé, ha scalzato persino quello relativo all’opposizione animato/inanimato da cui l’opposizione m/f stessa ha avuto origine). In effetti, oltre ai generi grammaticali maschile/femminile ne sono possibili altri: in una lingua dell’Australia, il dyirbal, ci sono generi per il maschile, il femminile, il commestibile diverso dalla carne e il neutro; in navaho ci sono tredici generi: esseri vivi, oggetti rotondi, oggetti riuniti in insieme, contenitori rigidi con contenuto, oggetti compatti, oggetti che somigliano al fango, massa, ma nessuno distingue maschile e femminile. La maggior parte delle lingue indo-europee dotate di genere ne annovera da uno a tre; nell’ambito di altre famiglie linguistiche si conoscono lingue (della famiglia caucasica) che ne hanno da quattro a otto e altre (la maggior parte delle lingue bantu) che ne hanno da dieci a venti (ma questa cifra potrebbe essere viziata dal fatto di considerare come classi distinte quelle maschile e femminile riferite ad una stessa caratteristica).
Esiste una corrispondenza tra marca di genere m/f e sessismo?
Presa in considerazione l’esistenza di lingue in cui il genere maschile/femminile è perlomeno secondario, e associando in un binomio sessismo e contrapposizione di genere, con l’elemento non marcato riferito al maschile, si potrebbe ipotizzare che lingue prive di tale contrapposizione corrispondano a culture non sessiste. Anzitutto, un dato numerico: le lingue prive di generi sono più numerose di quelle che li hanno. Quanto all’equazione lingua senza generi = lingua non sessista, basterebbe una scorsa a birmano, turco, giapponese, ungherese ad alimentare una certa perplessità. Ciò non toglie, va sottolineato, che alla base dell’elezione del maschile a genere non marcato possa aver agito una mentalità in cui dominante era quanto connesso con la patrilinearità. Più generi non significa più sessismo.
Sessismo e italiano contemporaneo: quali sono i principali usi e fenomeni notevoli?
La derivazione in -essa. Il suffisso derivazionale -essa, che serve a femminilizzare nomi di professione, ha avuto un apice di produttività a cavallo tra il XIX e il XX secolo, con la coniazione di forme indicanti donne o animali di sesso femminile (leonessa, elefantessa) o creature fantastiche (diavolessa, orchessa). In epoca recente, alcune di queste formazioni sono state riutilizzate per indicare donne che ricoprissero quei ruoli ormai per loro possibili; ma per la formazione di nomi professionali il suffisso -essa è in forte concorrenza con altri procedimenti [É]. Tra i nomi d’agente in -essa che indicano donne che svolgono determinate professioni o ruoli sono piuttosto saldi nell’uso dottoressa, professoressa, studentessa, campionessa, poetessa. Le basi delle mozioni in -essa sono in prevalenza maschili in -e; in qualche caso si sono formati femminili in -essa da maschili in -tore (dottoressa). Sono in -essa anche i femminili da alcuni maschili in -a: papessa, poetessa, profetessa (cfr. Grossmann e Rainer). A un certo punto della storia linguistica italiana (le fonti sono molto eloquenti in merito) al suffisso è stata associata una carica peggiorativa e stigmatizzante, di cui recano incontrovertibili tracce anche i meno comuni madrigalessa, articolessa, filatessa, sonettessa, capitolessa, che nulla hanno a che vedere con le professioni.
Venendo alla questione sessista, alla liceità o meno dell’abolizione di tali forme, è plausibile ritenere che evitando l’uso delle forme in -essa si restituirebbe dignità a chi si sente leso dal retaggio di cui queste forme mantengono traccia? Oppure, trattandosi, almeno nei casi di dottoressa, poetessa, professoressa, di forme ben consolidate nell’uso (oltre che del lessico di base), una eventuale modificazione in senso acrolettico, verso le varietà alte del repertorio, condurrebbe ad una condizione che “saprebbe” di artificiale? Inoltre, quandanche si riuscisse ad “imporre” l’espunzione dell’odiata forma, assai probabilmente si tratterebbe di una eliminazione di principio: come la storia dei vari purismi ha insegnato, difficilmente le dinamiche del mutamento si lascerebbero infatti guidare dalla ragione, anche quando supportata da argomentazioni lodevoli. Si potrebbe perciò venire a determinare uno scenario che ricorderebbe da vicino quello tipico dei contesti di diglossia con stavolta una variante a marcare i registri di un politicamente corretto allargato e l’altra i registri meno controllati. E se così fosse, non è difficile immaginare che il suffisso -essa non sarebbe espunto dal sistema, neppure nelle varietà più controllate, perché, come oggi già accade, ritornerebbe a marcare forme scherzosamente ironiche che potrebbero celare il consueto sessismo.
Che dire di usi asimmetrici per i due generi (es. disponibile) nell’italiano?
La quota di soggettività che caratterizza i significati nell’uso (significato pragmatico) e li differenzia anche notevolmente dal significato “di base” (lessicale, atteso da chi guardi ai dizionari) rimanda all’abbondanza di asimmetrie “di genere”. Si tratta infatti di esempi arcinoti (e cavalcati da chi ritiene che sia necessario emendare la lingua per correggere comportamenti sbagliati) di polarizzazione in senso sessuale che coinvolgono aggettivi, sostantivi e locuzioni che sul piano lessicale non comportano alcuna discriminazione. Per esempio, tra gli aggettivi, libero, che se si riferisce ad un uomo ha connotazioni morali e intellettuali, ma se riferito ad una donna connota il suo comportamento sessuale. Tra le forme complesse, basti pensare all’opposizione uomo di mondo, uomo facile, uomo senza morale, uomo con un passato, uomo da poco, uomo allegro vs donna di mondo, donna facile, donna senza morale, donna con un passato, donna da poco, donna allegra, tutti, tranne forse donna da poco, orientati in senso sessuale.
Che dire, poi, del divario tra usi lessicali, pragmatici (connotativi) e delle conseguenze sulla percezione dei parlanti?
Dei due significati delle parole, lessicale e pragmatico, il secondo, in quanto riferito alla comunicazione effettiva tra parlanti, è per definizione fluido come è fluida la comunicazione. A tale fluidità ci si riferisce per mettere l’accento su alcuni fenomeni della lingua riferibili al sessismo. Nel corso della primavera 2012 numerosi giornali, anche di prestigio e tradizione, si sono occupati della nuova relazione di Rita Rusic, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, con un compagno più giovane. Le parole scelte per descrivere il nuovo compagno della Rusic attingono a quel lessico in sé “neutro” ma di fatto esemplificativo della sussistenza di una asimmetria rappresentata da quegli usi linguistici che trasmettono modelli stereotipati di uomini e donne: fidanzato toy-boy / giovane fidanzato / giovane e muscoloso fidanzato / giovane e aitante fidanzato / giovanissimo e muscoloso fidanzato / nuovo fidanzato (corpo mozzafiato) / giovane e muscoloso fidanzato / mare, sole e giovane fidanzato / mare infinito col fidanzatino. Tali forme, in sé, non avrebbero particolare valenza negativa, ma si caricano di una connotazione sessista (maschilista) nel momento in cui si sottolinea l’età della protagonista. Lo stereotipo si riferisce e agisce sulla comunanza di pareri in merito a una presunta passatezza e conseguente scarsa appetibilità di una donna di cinquantadue anni, e all’ironia riservata alle donne che “si consentono il lusso” oppure “hanno il privilegio” di una relazione con un uomo molto più giovane di loro. Nei fatti, non è quindi la lingua a essere sessista, ma è quello che il parlante “aggiunge” alle parole (e che è parte integrante del suo bagaglio di conoscenze, della sua visione del mondo, insomma qualcosa di esterno alla lingua, benché espresso per mezzo di essa) a rendere discriminatorio il testo. Esempi che costituiscono la prova dell’esistenza di una ideologia che si alimenta di stereotipi che trovano nella lingua una forma di espressione, senz’altro la più potente, ma che non possono essere imputati alla lingua. Si consideri il caso contrario, quello di un uomo che intrattiene una relazione con una donna molto più giovane: alludo al caso della modella Elle Macpherson tradita dal compagno per una donna (modella a sua volta) assai più giovane e al modo in cui questa notizia è stata trattata per esempio in un articolo pubblicato su Corriere.it. Palese la differenza rispetto al primo caso, tangibile nelle attenuanti fornite all’ex-compagno della Macpherson colpevole di essere fedifrago perché un’altra donna “gli ha fatto perdere la testa”. Differenza resa ancora più eclatante dal fatto che l’articolo sia stato scritto da una donna, Simona Marchetti, a riprova di come certi schemi mentali (e i conseguenti stilemi) abbiano permeato il cervello di tutti e di tutte. Del resto, in riferimento alla stessa vicenda, il Giornale titolava: “Elle Macpherson mollata, la donna più bella del mondo trattata come una racchia”, quasi che l’atto di abbandono a favore di una donna molto più giovane fosse accettabile se perpetrato ai danni di una donna poco avvenente. Insomma, per fatti analoghi scattano gradi diversi di censura orientati lungo una scala costruita in ossequio ad una ideologia dominante e modaiola. Ci si potrebbe allora domandare se un’abolizione “per decreto” dell’uso connotativo risolverebbe o almeno migliorerebbe la situazione. La risposta non può che essere, ancora una volta, che no, un’azione per decreto non è pensabile, perché a bloccarsi sarebbe il funzionamento stesso della lingua, che trova una risorsa potentissima proprio nella possibilità di organizzare un numero non dico ristretto ma contenuto o comunque definibile di significati lessicali in un numero potenzialmente infinito di significati pragmatici. Si può però, e anzi si deve, lavorare, invece, sulla creazione di nuove ideologie, che risultino meno discriminatorie o non univocamente discriminatorie e che, soprattutto, possano contribuire al radicamento nelle nuove generazioni di una nuova mentalità.
In conclusione, vale la pena sottolinearlo ancora una volta, la discriminazione passa per la lingua, è vero, muovendo però da cornici cognitive, da veri e propri frameworks consolidatisi per effetto della rappresentazione mentale della società. Ecco allora che l’insidia maggiore è quella evocata da nomi di professione che, come cuoco o cuoca, rappresentano linguisticamente l’opposizione m/f ma solo formalmente, poiché sul piano dei valori che muovono (sul piano, cioè, della connotazione) non appare esservi equipollenza; oppure da commesso e commessa per l’immediata evocazione del genere naturale insieme a quello grammaticale; oppure, e qui lo iato percettivo tra m e f si incrementa, da casi come chef, pilota, astronauta, ancora evocatori di un immaginario quasi esclusivamente maschile. Quello che sembra inutile dover dimostrare, come tra l’altro la storia dei vari purismi ha insegnato, è che la soluzione all’uso sessista della lingua non può passare per un appiattimento su quello che da alcuni è bollato come politicamente corretto e da altri come sensibilità e espressione di pari opportunità. Si pensi agli effetti che una generalizzazione miope dei femminili produrrebbe comunque nell’uso: se, ad esempio, di Rita Levi Montalcini si dicesse che è una tra le più grandi scienziate per evitare il maschile inclusivo, la si priverebbe della primazia anche su buona parte degli uomini. Insomma, dietro alle forme raccomandate e ai problemi nella loro accettazione, c’è molto più che un problema di cacofonia o di abitudini e un eccesso di razionalità a guidare i comportamenti verbali non ritengo sia auspicabile per la natura stessa della lingua.
Il sessismo veicolato attraverso la lingua è un dato di fatto e non lo si ribadisce mai abbastanza; ma come la bellezza è negli occhi di chi guarda, così la discriminazione è anche nelle orecchie di chi ascolta.
*** Contenuti tratti da Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo, Questione di dati?, Universitalia, Roma, 2012