UK – Britain exit? Perchè il referendum

Tra due mesi si terrà nel Regno Unito un importante referendum per decidere se il paese debba rimanere nell’Unione Europea o lasciarla, tema che è stato chiamato “Brexit” (“Britain exit”): e questo nome sarà sempre più presente nelle cronache e nei dibattiti da qui ad allora. La votazione, che si terrà giovedì 23 giugno, è molto attesa perché potrebbe condizionare non solo il futuro del Regno Unito ma anche quello dell’intera Unione e i suoi rapporti diplomatici internazionali. Da mesi comitati e partiti britannici fanno campagna a favore o contro l’uscita dall’UE ed è previsto che nelle prossime settimane il confronto si faccia più intenso, con il primo ministro conservatore David Cameron impegnato a convincere la popolazione a votare contro l’uscita. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è da oggi in visita a Londra ufficialmente per festeggiare i 90 anni della regina Elisabetta II, ma ha già fatto diverse dichiarazioni invitando esplicitamente il Regno Unito a votare per confermare la sua presenza nell’Unione Europea.
Perché si fa un referendum
Durante la campagna elettorale del 2015, Cameron promise che se fosse stato rieletto avrebbe organizzato un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, accogliendo le richieste presentate da diversi suoi colleghi di partito e da quello per l’indipendenza del Regno Unito (UKIP) di Nigel Farage, secondo i quali era tempo di organizzare una nuova consultazione, considerato che l’ultima risaliva al 1975 e che da allora molte cose sono cambiate in Europa. Cameron disse che avrebbe fatto campagna a favore dell’uscita se le autorità europee non avessero accolto le sue richieste su vari temi di politica estera ed economica. Dopo la sua elezione, i leader dell’Unione sono stati al gioco e hanno concesso buona parte delle richieste formulate da Cameron, che quindi ora è un convinto sostenitore della necessità di rimanere all’interno dell’UE.
L’accordo tra UK e UE
• Sussidi: Cameron aveva chiesto che fosse interrotta la pratica prevista dalle leggi europee che consente ai migranti con figli di inviare i soldi dei sussidi ricevuti nel loro paese di origine, ma la proposta è stata respinta e si è trovato un compromesso per cui l’entità dei sussidi sarà basata sul costo della vita nel paese natale del migrante e non su quello nel Regno Unito.
• Euro: Cameron ha riconfermato che il suo paese non si unirà al gruppo di nazioni che usano l’euro e ha ottenuto rassicurazioni e impegni sul fatto che questo non comporti una discriminazione da parte degli altri stati che fanno parte della moneta unica. Inoltre, il denaro messo dal Regno Unito nei fondi per salvare gli stati in difficoltà economiche dovrà essere rimborsato, se utilizzato.
• Politica estera: È stato formalizzato che il Regno Unito non fa parte dell’impegno per collaborare a “un’Unione sempre più stretta” come previsto nei trattati europei. Cameron ha anche ottenuto un nuovo meccanismo per consentire agli stati contrari a un nuovo regolamento di intervenire per bloccarlo, a patto che ci sia il 55 per cento dei parlamenti nazionali contro le nuove norme. Il meccanismo non è molto chiaro e secondo diversi osservatori sarà difficile, se non impossibile, metterlo veramente in pratica.
• Migranti: è stato concordato che i migranti che si trasferiscono per cercare lavoro nel Regno Unito accederanno più gradualmente ai sussidi e con modulazioni, ancora da definire, per ridurre il loro impatto sui conti pubblici.
Cameron ha detto che l’accordo soddisfa buona parte delle richieste formulate dal suo governo, di conseguenza si è schierato a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. In realtà, diversi osservatori ritengono che il governo conservatore abbia ottenuto ben poco dalle autorità europee e che molte delle richieste non siano state soddisfatte.
Cosa dice il quesito
“Il Regno Unito deve restare nell’Unione Europea o deve lasciare l’Unione Europea?”
Che succede se vince la Brexit
Il referendum non ha quorum è di tipo consultivo e non è legalmente vincolante. In linea del tutto teorica, se vincesse la Brexit, il Parlamento potrebbe quindi intervenire per approvare una legge che impedisca l’uscita dall’Unione Europea, ma andare contro la volontà degli elettori sarebbe un suicidio politico. Per uscire dall’UE, il Regno Unito dovrà ridiscutere tutti i trattati e concordare le condizioni per il suo ritiro, processo che richiederà come minimo un paio di anni di lavoro. In questo periodo di tempo, il Regno Unito sarà formalmente parte dell’UE, ma non potrà partecipare alla creazione di nuove regole e leggi in ambito europeo.
Chi vuole che il Regno Unito resti nell’UE
Come abbiamo visto Cameron è a favore della permanenza nell’Unione Europea e la maggioranza dei ministri del suo governo è con lui. Il Partito Conservatore ufficialmente si è dichiarato neutrale sul tema, lasciando libertà di voto ai suoi elettori. Il Partito Laburista, il Partito Nazionale Scozzese, il Partito del Galles e i Liberal Democratici stanno facendo attivamente campagna contro la Brexit. A loro si sono aggiunti molti leader europei, come il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese François Hollande, e capi di governo del mondo come di recente Obama. Dicono che i benefici della permanenza nell’UE superano di gran lunga gli svantaggi, di cui si fa del resto carico ogni stato membro, e tra questi ci sono: la possibilità di esportare con più facilità le merci, quella di avere più facilmente lavoratori qualificati e che contribuiscono a mantenere lo stato sociale, tramite il pagamento delle imposte, e di coordinare meglio le politiche di sicurezza nazionale integrandole con quelle degli altri stati.

Chi vuole che il Regno Unito lasci l’UE
Lo UKIP è il partito che sostiene più di tutti la necessità di uscire dall’Unione Europea, e fece già campagna su questo tema alle elezioni politiche dello scorso anno. È stato fondato nel 1993, ma ha ottenuto il suo primo seggio nel Parlamento britannico solamente dopo le elezioni politiche dello scorso anno, quando ha ottenuto il 12,6 per cento dei voti, mentre era andato molto bene alle elezioni Europee del 2014, quando risultò primo partito con il 27,5 per cento dei voti. L’obiettivo dichiarato dello UKIP è il ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea, ma ce ne sono altri legati a fermare l’immigrazione, anche con soluzioni drastiche che hanno portato diversi osservatori a definire il partito di Farage xenofobo, populista e di estrema destra.
Il Partito Conservatore è diviso al suo interno, con circa metà dei parlamentari e cinque ministri del governo favorevoli all’uscita; ci sono anche alcuni esponenti politici del Labour e del Partito Unionista Democratico. Anche il sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, è a favore dell’uscita dalla UE. Con sfumature diverse, dicono che l’UE impone il suo controllo sulle politiche del paese e chiede ogni anno miliardi di sterline, dando indietro poco o niente, sono inoltre contrari alla libera circolazione delle persone e vogliono ridurre il flusso di migranti in cerca di lavoro.

Chi ha ragione
È difficile dirlo e i commenti di osservatori politici ed esperti sono inevitabilmente divisi, tra chi vuole o non vuole la Brexit. Chi crede nelle potenzialità di un’Europa unita è convinto che tutto debba restare così com’è, anche se negli ultimi decenni non ci sono stati molti progressi verso una vera unione politica. Chi ha fiducia nella condizione di privilegio e potere politico ed economico del Regno Unito sostiene da sempre che questa venga limitata dall’appartenenza all’Unione Europea. In quest’ottica è comunque indubbio che senza il Regno Unito il progetto di unificazione perderebbe parte della sua credibilità. Molti analisti ritengono inoltre che dal punto di vista economico l’uscita dall’Unione Europea potrebbe avere serie ripercussioni sulla sterlina, complicando i rapporti commerciali del paese.
Come sta andando la campagna
Ci sono due campagne elettorali ufficiali, una a favore dell’uscita che si chiama “Vote Leave” e una contro che si chiama “Britain Stronger in Europe”, che possono spendere un massimo di 7 milioni di sterline ciascuna per fare propaganda. A queste si possono aggiungere altri comitati spontanei, che però non potranno spendere più di 700mila sterline ciascuno e devono registrarsi presso la Commissione elettorale, i comitati non registrati hanno la possibilità di spendere solo fino a 10mila sterline. I partiti possono fare campagna elettorale, ma anche per loro ci sono limiti di spesa stabiliti in base alla percentuale dei voti ricevuti alle ultime elezioni politiche. Ufficialmente, la campagna elettorale è iniziata il 15 aprile scorso.
Cosa dicono i sondaggi
Secondo i sondaggi più recenti, ottenuti aggregando consultazioni svolte da diverse società demoscopiche, il 54 per cento della popolazione è a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, mentre il 46 per cento è contro. Negli ultimi mesi il dato è oscillato di continuo e per lunghi periodi il divario tra favorevoli e contrari è stato minimo. Gli elettori più giovani sono tendenzialmente a favore della permanenza, mentre quelli più anziani sono per la Brexit. C’è una percentuale ancora alta di indecisi, che oscilla tra il 17 e il 20 per cento, su cui le due campagne si concentreranno nelle prossime settimane.
Precedenti
Non ce ne sono: se vincessero gli elettori a favore della Brexit, il Regno Unito sarebbe il primo stato membro a lasciare l’Unione Europea nella storia. La cosa che si avvicina di più a questo scenario avvenne nel 1982, quando la Groenlandia – uno dei territori della Danimarca – approvò con un referendum l’uscita dall’UE nell’ambito delle maggiori autonomie concesse al suo governo locale da quello centrale danese.




Thailandia – Caccia all’uomo per la bomba a Bangkok. Dalla Cina l’invito a evitare la Thailandia

La polizia thailandese sta dando la caccia anche «a una donna con una maglietta nera» in relazione dell’attentato di Bangkok al tempio Erawan. «La esorto a farsi avanti per fornire informazioni» ha detto il generale Prawut Thavornsiri che ha anche reso noto che è stato escluso un coinvolgimento nell’attacco dei due uomini identificati come ricercati e che si sono presentati spontaneamente alla polizia.

I due sono risultati essere un turista e una guida turistica e sono stati rilasciati. E pare dunque chiaro che a tre giorni dall’attentato la polizia thailandese sembra brancolare nel buio. Secondo le autorità thailandesi almeno 10 persone potrebbero aver preso parte all’attentato ma pare improbabile che si tratti di terrorismo internazionale. Nello scoppio della bomba hanno perso la vita 20 persone e ne sono state ferite più di 120. Al centro della caccia all’uomo c’è sempre il misterioso giovane dalla maglietta gialla, il cui identikit lo indica come «straniero» nonostante un volto difficilmente attribuibile a una precisa etnia. La polizia ha ricostruito altri suoi movimenti, riuscendo a rintracciare il conducente di tuk tuk che l’ha portato al luogo della strage e il mototassista con cui invece si è allontanato dopo aver abbandonato lo zainetto con l’esplosivo nel complesso del santuario induista Erawan. Ma del ragazzo, apparentemente sotto i trent’anni, non c’è ancora traccia. Inoltre una troupe della Bbc ha ritrovato delle schegge della bomba a 50 metri dall’esplosione, assieme a biglie metalliche: segno che dei dettagli chiave potrebbero essere sfuggiti. E più tempo passa senza progressi di rilievo, più calano le probabilità di fare luce sul mistero.

In televisione il portavoce dell’esercito thailandese Winthai Suvaree ha detto di ritenere “improbabile” che l’attacco sia stato organizzato dal terrorismo internazionale, aggiungendo che i turisti cinesi “non erano un obiettivo diretto” degli attentatori.

In mattinata un portavoce del Ministero dell’interno ha spiegato che l’attentato  non è stato rivendicato ancora, tuttavia la polizia tende a escludere che possa trattarsi di terrorismo Internazionale o di matrice religiosa, concentrando invece le indagini sulle lotte politiche interne. Pare che sia stata individuata attraverso i video di una camera di sorveglianza una delle persone che materialmente hanno piazzato la bomba: maschio, giovane, con occhiali e una t-shirt gialla, secondo gli investigatori vicino al movimento delle Camicie Rosse fedele all’ex primo ministro Yingluck e al fratello Thaksim Shinawatra. Almeno secondo le dichiarazioni di Prayut Chan-O-Cha.

La polizia sta lavorando sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza nelle quali potrebbe essere stato identificato uno degli attentatori. L’unità di crisi della Farnesina, intanto, ha invitato i connazionali presenti a Bangkok a evitare la zona nel «distretto centrale di Chidlom, nei pressi dell’omonima stazione della metropolitana e del tempio di Erawan». Nel messaggio pubblicato sul sito Viaggiare Sicuri, inoltre, si da’ conto anche dell’esplosione presso il molo di Sathorn a Bangkok, non risultano al momento feriti».

Ieri le autorità thailandesi hanno diffuso un filmato delle telecamere di sicurezza, presenti di fronte al tempio Indù, che potrebbe aver immortalato uno dei possibili terroristi. Un uomo, con una maglietta gialla, zaino nero in spalla e cellulare in mano, mentre abbandona una borsa accanto ad una panchina e si allontana. «C’è un sospettato e lo stiamo cercando», ha affermato il portavoce della polizia, Prawut Thavornsiri. A proposito della granata lanciata da un ponte, le forze dell’ordine hanno chiarito che «se non fosse caduto in acqua, avrebbe certamente provocato feriti». Le indagini, quindi, vanno avanti. Il capo di Stato maggiore e vic ministro della Difesa, il generale Udomdej Sitabutr, ha escluso la pista dei ribelli islamici separatisti del sud, sostenendo che la dinamica dell’attentato «non corrisponde» a quelle abituali impiegate dai jihadisti. La pista più seguita porterebbe al terrorismo interno di matrice politica. Il capo della giunta militare al potere, il generale Prayuth Chan-ocha, ha puntato il dito verso il «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», noto come Camicie rosse, considerate vicine alla famiglia dell’ex premier Thaksin Shinawatra e alla sorella, Yingluck, deposta il 7 maggio 2014 da una decisione della Corte Costituzionale. Prayuth Chan-ocha, riferendosi ai responsabili dell’attentato, ha parlato di possibili legami con «un movimento anti-governativo che ha base nel nord-est della Thailandia». Il generale Prayuth, che è anche primo ministro, ha annunciato inoltre di aver effettuato un rimpasto di governo e di aver sottoposto all’anziano e malato re, Bhumibol Adulyadey, la lista per ottenere l’approvazione. Secondo il viceministro della Difesa, generale Udomdej Sirabut, l’attacco è stato invece «una vendetta per una recente operazione delle autorità». L’allusione è al rimpatrio coatto di un centinaio di musulmani uiguri in Cina. Molti membri della minoranza sono infatti fuggiti dalla Cina, a causa della repressione del governo di Pechino nei loro confronti. Intanto da Londra ieri è arrivata la conferma che tra le vittime dell’attentato a Bangkok c’è anche un cittadino britannico che viveva a Hong Kong.
La Thailandia ha visto  un’escalation di violenza che alza il livello di instabilità e incertezza nella crisi politica in corso da quattro mesi, in un clima sempre più di divisione e odio che rende sempre più difficile un negoziato tra i due blocchi di potere rivali. Il centro di Bangkok è stato scosso anche dall’esplosione di una granata di fronte al popolare centro commerciale Central World, a un centinaio di metri da uno degli accampamenti della protesta anti-governativa.

L’ordigno, scoppiato tra le bancarelle di souvenir dei manifestanti, ha causato la morte di un bambino di quattro anni (inizialmente indicato come dodicenne), della sorella di sei, e di una donna, oltre al ferimento di almeno altre 22 persone. Ieri sera, uomini armati a bordo di due pick-up hanno invece aperto il fuoco e lanciato ordigni in un mercato locale nella provincia orientale di Trat, dove una piccola folla era riunita per ascoltare il comizio di un leader locale affiliato alla protesta.
Una bambina di cinque anni seduta a un vicino ristorante di strada è stata colpita a morte, e un’altra è in coma; altre 34 persone sono rimaste ferite. I due attacchi portano a 19 morti e quasi 800 feriti il bilancio delle violenze da fine novembre. Ma se nei primi episodi di violenza le vittime erano spesso attivisti protagonisti di scontri, nelle ultime settimane gli attacchi hanno colpito moltissimi innocenti, in diversi casi neanche partecipanti alle manifestazioni.
Ora il coinvolgimento di bambini sembra aver scosso il Paese. La premier Yingluck Shinawatra ha condannato gli attentati definendoli «atti terroristici». Il problema è che ogni episodio di violenza finisce nel calderone delle strumentalizzazioni, alimentando le accuse reciproche. Per il movimento di protesta guidato dall’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, ogni morte è responsabilità di un governo malvagio, corrotto, populista e che ha perso ogni legittimità. I sostenitori di Yingluck, tra cui le «camicie rosse» del popoloso nord-est rurale che formano lo zoccolo duro dell’elettorato fedele all’ex premier Thaksin Shinawatra (fratello di Yingluck), intravedono invece giochi sporchi per creare instabilità e provocare un intervento delle forze armate, o comunque un colpo di mano dell’elite.

Estremisti di entrambe le fazioni dipingono sempre più i rivali come nemici subumani che meritano la morte. Oltre a confermare l’esasperazione delle fazioni rivali, secondo molti analisti l’accresciuta frequenza degli attacchi rappresenta un segnale che fa temere per una conclusione violenta della crisi. L’assenza di negoziati tra due posizioni incompatibili – con Yingluck che chiede il rispetto del suo mandato popolare e Suthep che vuole rimpiazzarla con un «Consiglio del popolo» nominato dall’alto – non lascia intravedere margini di manovra. La premier appare scivolare sempre più in una morsa, con la protesta di piazza da una parte e l’establishment tradizionale a lei ostile dall’altra. Se però dovesse cadere, a quel punto sarebbero i «rossi» a sentirsi legittimati a protestare, e il ciclo di violenze ricomincerebbe.

Intanto il Baht, la moneta thailandese, è ai minimi storici da sei anni e l’immagine turistica del Paese all’estero sta crollando velocemente. Non bastano la tradizionale ospitalità, il buon cibo, la bellezza di coste e templi a bilanciare la paura: già spuntano sul web le offerte speciali di agenzie e compagnie aeree. E se pubblicamente le autorità dichiarano che la situazione è sotto controllo, negli aeroporti periferici non ci è sembrato che le misure di sicurezza siano aumentate. I controlli, almeno per gli standard europei e americani, sono superficiali e veloci, il personale è sempre gentile ma non brilla per numero né per efficienza. Diversa la situazione a Bangok e Koh Samui, dove si è registrato qualche ritardo nelle procedure di imbarco.

La stampa in lingua inglese riporta le testimonianze raccapriccianti di chi ha assistito allo scoppio e continua ad aggiornare il conteggio di morti e feriti: per le fonti più attendibili, i primi sarebbero 22, i secondi oltre un centinaio, e in entrambi i casi non tutti sarebbero stati identificati. Diversi i turisti, anche se la maggior parte delle vittime sono thailandesi, come ha ammesso lo stesso portavoce in tv. E thailandesi, racconta un sito locale, sono anche i volontari che a centinaia  sono accorsi negli ospedali della capitale per dare una mano come potevano: chi donando sangue per le trasfusioni, chi mettendo a disposizione la propria auto o il tuk tuk per fare la spola tra il pronto soccorso e il luogo dell’attentato. Parecchi si sono offerti come interpreti, per aiutare i feriti e i loro parenti, soprattutto quelli cinesi e di Hong Kong.

Almeno due morti erano cittadini di Hong Kong, e proprio dall’ex protettorato cinese arriva il primo invito ufficiale a evitare la Thailandia. Più cauti gli altri Paesi, ma l’invito generico è a prestare attenzione, specie nelle mete turistiche e nei luoghi affollati; dalla Farnesina ancora nessuna notizia sull’eventuale coinvolgimento di italiani, che in questo periodo sono numerosi in Thailandia. “Faremo di tutto per riguadagnarci la fiducia di ognuno”, promette il portavoce del governo, annunciando un programma di sostegno alle vittime e ai loro familiari, mentre il Comitato nazionale per la Pace e l’Ordine invita la nazione a restare forte e unita e su Twitter si moltiplicano da tutto il mondo le preghiere per le vittime.




UK – Mary Quan dama di corte. In minigonna?

Le grandi rivoluzioni hanno sempre richiesto tenacia e un pizzico di audacia. Mary Quan possedeva tali requisiti ed era per di più una donna all’avanguardia rispetto al contesto storico in cui viveva. Figlia di due professori gallesi , loro sognavano per lei un futuro da insegnante, prospettiva a Mary sicuramente inadatta. Visse la sua adolescenza cavalcando l’onda del carpe diem, a sedici anni decise di andare via di casa e si trasferì a Londra, capitale indiscussa del cosmopolitismo dove conobbe il suo futuro marito Alexander Plunket Greene, nipote del famoso Bertrand Russell, anch’egli conduceva una vita improntata sul vivere senza pensare al futuro. Nel 1955 decisero di acquistare casa e di adibire il loro scantinato a ristorante e il primo piano,invece divenne sede di una boutique. Nonostante il negozio di Mary divenne oggetto di scherno da parte dei londinesi, riscosse un discreto successo tra i giovani che condividevano le sue stesse ideologie, ma il vero successo lo ottenne grazie all’invenzione della minigonna, che nel 1963 fu indossata per la prima volta da una parrucchiera/modella di 17 anni londinese Leslie Hornby detta Twiggy (grissino) . La minigonna non fu solo, assieme ai Beatles, uno dei simboli dello Swinging London , ma rivoluzionò l’abbigliamento e lo stile di vita di molte donne. Per quanto riguarda il nome, Mary s’ispirò all’autovettura mini.

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Ma com’era l’abbigliamento delle donne prima dell’invenzione della mini? Fino al XIX secolo il vestiario femminile era composto da gonne lunghissime , prodotte con tessuti pesanti e indossate sopra delle ampie sottovesti. Verso la fine del secolo i movimenti femministi rivendicarono la possibilità d’indossare delle gonne più comode e la femminista francese Hubertine Auclert fondò la Lega per le gonne corte. Durante il primo conflitto mondiale, fu introdotto l’uso dei pantaloni per le donne che lavoravano in fabbrica. Negli anni venti la lunghezza delle gonne si ridusse fino a sopra il ginocchio. I primi prototipi delle mini apparvero in campo sportivo , utilizzate per lo più dalle tenniste.