ASIA – Debito al 300% del Pil. Lo scoppio della bolla travolgerebbe 90 milioni di cinesi

Le bolle finanziarie per gonfiarsi hanno bisogno di due elementi: il debito e la dabbenaggine euforica. Di entrambi la Cina ha accumulato notevoli quantità. In un Paese dove la gente adora il gioco d’azzardo, mentre le dinamiche finanziarie costituiscono un mistero glorioso, la dabbenaggine è la cifra dell’investitore medio.

Il debito invece ha bisogno della compiacenza, e spesso della fattiva complicità dei regolatori, unita al benestare politico. La poderosa crescita cinese a due cifre da un paio di anni si è rallentata. L’economia è rimasta intrappolata nei conglomerati pubblici inefficienti, mentre alle più dinamiche piccole e medie imprese private sono centellinate risorse e capitali. A questo si aggiunge il peso di una burocrazia (non di rado corrotta) che per quanto evoluta rispetto agli standard sovietici, rimane occhiuta e perversa. Occorrerebbe ridisegnare il sistema affinché 35 anni di transizione dalla miseria a un’economia da 10 mila miliardi di dollari non deraglino verso il disastro.

Debito totale al 300% del Pil. E a finanziarlo sono anche le banche ombra. Il governo cinese (come del resto gli omologhi occidentali e giapponese) è ricorso alla droga monetaria per imprimere un impulso alla crescita. La Banca centrale – che ha un controllo in teoria pervasivo sugli intermediari finanziari (il governo cinese mantiene il controllo effettivo su oltre il 95% degli attivi bancari) – ha lasciato galoppare gli aggregati creditizi. Secondo il Mc Kinsey Global Institute, il debito totale (di imprese, governo e famiglie) dal 153% del Pil nel 2007 è quasi raddoppiato fino a sfiorare il 300% nel 2014. Allo stesso tempo le autorità hanno chiuso gli occhi sulle prodezze di improbabili società finanziarie (il cosiddetto sistema bancario ombra) che allettavano i piccoli risparmiatori con promesse da Campo dei Miracoli. Risultato: il 30% del debito totale è stato finanziato da queste banche ombra (con esposizioni mostruose nell’immobiliare) e pochi rivedranno il loro capitale intatto. Infine, gli investitori hanno ottenuto prestiti generosi per acquistare azioni.

Dal 12 giugno il boom si è invertito: il totale dei margin loans è quadruplicato in un anno, superando i 350 miliardi di dollari pari al 4,4% della capitalizzazione di borsa e facendo aumentare del 150% in 12 mesi l’indice azionario di Shanghai. Poi, come il volo di Icaro, dal 12 giugno scorso i corsi azionari hanno inesorabilmente invertito la traiettoria. In tale marasma (stigmatizzato in un recente rapporto della Banca Mondiale) la Banca centrale, per attenuare la botta, ha abbassato il tasso di interesse e i coefficienti di riserva obbligatoria, al contempo concedendo ampia clemenza sulle margin call. Meri palliativi, perché la leva finanziaria, quando la bolla si gonfia, dispiega i suoi effetti con gradualità. Dopo lo scoppio invece obbliga gli investitori esposti a vendite precipitose, che polverizzano i risparmi: il totale dei margin loans in Cina è sceso di 46 miliardi di dollari in due settimane. Dal 12 giugno in tre settimane consecutive di tonfi la Borsa di Shanghai ha perso circa il 30%.

Le misure straordinarie varate dal governo non sono sufficienti. Gli alti papaveri hanno avvertito l’onda di panico e varato una raffica di misure straordinarie: autorizzazione per i fondi pensione a investire in azioni, pressioni psicologiche contro vendite allo scoperto, aumento dei costi per i venditori di futures sugli indici, sospensione delle nuove quotazioni in Borsa, impegni del fondo sovrano cinese, liquidità a go-go. Addirittura 21 grandi brokers cinesi hanno messo sul piatto quasi 20 miliardi di dollari per sostenere i prezzi azionari riportando alla memoria l’analoga iniziativa presa dai loro colleghi americani alla vigilia del crac del ‘29. Gli scambi giornalieri talora ammontano a 100 miliardi di dollari non appare una mossa risolutiva. (…)

Nel migliore dei casi, la bolla offusca l’aura di competenza della leadership e mette a repentaglio il processo di transizione verso un’economia di mercato basata su servizi e consumi, con una finanza solida integrata nel sistema mondiale e lo yuan a sostegno dell’architettura monetaria internazionale. Nel peggiore dei casi, i piedi di argilla del colosso cinese rischiano di farci ripiombare in un incubo Lehman elevato al cubo.

La bolla del mercato azionario cinese ha mandato a picco le borse asiatiche. Da metà giugno le borse asiatiche hanno perso quasi il 30% della capitalizzazione, dopo il boom del 150% registrato nell’anno precedente, e il terremoto sta continuando nonostante le misure decise lo scorso fine settimana dal Consiglio di Stato di Pechino per frenare le vendite. Tokyo ha terminato le contrattazioni in calo del 3,14%, Shanghai ha perso il 5,9% e Shenzen il 2,94%, mentre Hong Kong ha lasciato sul terreno il 5,84% arrivando a perdere nel corso della seduta fino all’8,6%, un tonfo che non si vedeva dall’ottobre 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers.

Le autorità cinesi hanno annunciato una serie di misure di sostegno per i mercati: il governo di Li Keqiang ha ordinato alle compagnie statali di comprare azioni e ha aumentato la quantità di titoli che può essere acquistata dalle compagnie di assicurazione. La banca centrale cinese Peoples Bank of China, che la scorsa settimana ha tagliato per la quarta volta da novembre i tassi, ha inoltre assicurato che fornirà al mercato “ampia liquidità” per arrestare il crollo dei listini e prevenire rischi sistemici. Secondo l’agenzia Bloomberg quasi 1.400 società, più della metà di quelle quotate a Shanghai e Shenzhen, sono state sospese dalle negoziazioni nel tentativo di contenere le perdite. Altri 710 titoli sono stati congelati dopo la chiusura di lunedì. Sabato scorso, poi, ventotto aziende hanno sospeso l’iter per la quotazione. A chi avesse acquistato i titoli in fase di Ipo verrà restituito quanto investito.

Gli operatori si sono poi impegnati a non vendere azioni in loro possesso fino a quando l’indice di Shanghai, sceso a 3.686 punti, non tornerà a quota 4.500. E i 21 principali broker del Paese, riuniti nella Securities Association of China, hanno annunciato la costituzione di un fondo da 120 miliardi di yuan (circa 19,3 miliardi di dollari) per acquistare fondi Etf sulle società a maggiore capitalizzazione. Ma l’avvio dell’operatività del fondo, appoggiato dal governo, non è per ora riuscito a stabilizzare il mercato. Intanto la Consob cinese (Csrc) ha avviato un’indagine per verificare che il mercato non sia stato manipolato, mettendo nel mirino i ribassisti. E così 19 conti sono stati inibiti dallo short-selling sugli indici per un mese. Articoli comparsi su molti media vicini al governo, come la rivista Caixin e il quotidiano Global Times, accusano però la Commissione di aver gestito nel modo sbagliato la crisi, ingannando gli operatori che hanno di conseguenza dato eccessiva fiducia agli interventi “correttivi” delle autorità.

Lo scoppio della bolla rischia di travolgere gli oltre 90 milioni di cinesi – impiegati, operai e contadini, molti dei quali digiuni di finanza – che si sono buttati sul mercato azionario attirati dalla possibilità di fare soldi facili con la speculazione di borsa. Una prospettiva alimentata dalle politiche di sostegno del governo cinese alla corsa del mercato azionario.