LIBIA – Firmato a Roma l’accordo per la pace. Kobler: “E’ una giornata storica per la Libia”

“Una firma molto importante per la pace in Libia. C’è ancora da lavorare ma è un ottimo inizio. Grazie Paolo Gentiloni”. Così il premier Matteo Renzi, su twitter sul nuovo governo di Tripoli.

“E’ una giornata storica per la Libia”, ha affermato invece l’inviato speciale Onu, Martin Kobler, parlando a Skhirat. “Tutte le parti hanno fatto delle concessioni mettendo l’interesse del Paese davanti a tutto. La comunità internazionale continuerà il suo appoggio al futuro governo libico”. “Le porte rimangono aperte anche per quelli che oggi non erano presenti” a Skhirat, ha scritto su twitter Kobler. “Il nuovo governo si deve muovere urgentemente per rispondere alle preoccupazioni di coloro che si sentono marginalizzati”. “L’Isis rappresenta una sfida per il futuro governo di intesa nazionale. C’è bisogno di un dialogo nazionale globale per trovare un modo per lottare contro i terroristi”, ha rilevato Kobler. “State cambiando le pagine della storia”, ha aggiunto rivolgendosi ai delegati a Skhirat.

La nuova leadership libica, alla conferenza sulla Libia svoltasi questa settimana “a Roma, ha firmato un accordo che non è solo un pezzo di carta”: lo ha sottolineato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla cerimonia di Skhirat. “E’ un impegno solenne per aiutare il popolo” libico, ha detto ancora il ministro. “Ora è prioritario ampliare la base di consenso” al nuovo governo libico nato a Skhirat in Marocco. “L’Italia è pronta a fare la sua parte – ha ribadito il ministro – per dare stabilità e sicurezza al paese”.




GIORDANIA – Accordi militari con Russia e Tunisia per le operazioni in Siria

Mentre si trova a Vienna per parlare con il segretario di Stato americano Kerry, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato che Mosca e Amman hanno stretto un accordo per coordinare le operazioni in Siria.

“Gli eserciti di entrambi i Paesi si sono accordati per coordinare le loro azioni in territorio siriano, fra cui quelle delle forze aeree” ha detto Lavrov che ha poi spiegato le basi dell’accordo. La cooperazione avverrà attraverso “un meccanismo di lavoro che avrà base ad Amman” in Giordania e al quale potranno aggiungersi altri paesi della regione.

Il nuovo accordo con la Giordiania fa parte della road map che ha in mente Mosca e cioè di lavorare per portare ad un processo politico che rispetti il comunicato di Ginevra del 2012: “Ciò prevede l’avvio di negoziati inclusivi con i rappresentanti del governo della Siria e con tutto lo spettro dell’opposizione, sia interna sia all’estero, con l’appoggio attivo di attori esterni” ha detto il ministro che ha poi concluso dicendo che la Russia: “partecipa agli sforzi per la creazione delle condizioni necessarie di questo processo”.

Anche Tunisia e Giordania hanno firmato due accordi di cooperazione nei settori militare, della sicurezza e della protezione civile, in occasione della visita ad Amman del presidente tunisino Beji Caid Essebsi. Lo rende noto un comunicato del Palazzo Reale giordano.

Essebsi e Abdallah II, informa il comunicato, hanno convenuto sulla necessità di sviluppare ulteriormente la cooperazione bilaterale anche nel campo delle nuove tecnologie, dell’energia, della sanità, dell’educazione e del turismo. Le relazioni commerciali tra Tunisia e Giordania sono stimate a circa 30 milioni di dollari all’anno.

I due leader hanno anche parlato dell’attuale situazione in Cisgiordania e della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, della lotta al terrorismo e della crisi libica.

Essebsi, accompagnato dal ministro degli Esteri Taieb Baccouche, ha incontrato anche il premier giordano Abdullah Ensour. Tra i temi affrontati, la prossima sessione di incontri dell’Alta Commissione tuniso-giordana programmata per il mese di dicembre ad Amman.

COOPERAZIONE – Durante la visita in Giordania per partecipare alla conferenza mediterranea dell’Ocse il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione delle Unità protesiche fissa e mobile, allestite dall’Ong Icu, insieme al Centro “Our Lady of Peace for People with Disabilities” e finanziate dalla Cooperazione Italiana. La struttura fornisce gratuitamente protesi degli arti inferiori e servizi di riabilitazione fisica e psicosociale sia ai rifugiati siriani, sia ai cittadini giordani meni abbienti. All’evento hanno presenziato l’Arcivescovo cattolico di Amman, Maroun Laham, e il Ministro della Sanità, Ali Hyasat. Quest’ultimo ha espresso apprezzamento per l’impegno italiano a favore dei rifugiati siriani e delle comunità ospitanti giordane, e per i servizi che il Centro potrà fornire gratuitamente a numerose vittime di amputazione su tutto il territorio giordano.

Nell’Ambito del programma di emergenza AID 10249 a favore dei rifugiati siriani in Giordania (2014/2015) è stata dedicata una particolare attenzione al tema della disabilità. Il progetto eseguito dalla Ong Icu infatti è stato interamente dedicato alla assistenza ad adulti e bambini amputati presso due centri allestiti ad hoc nei governatorati di Irbid e Amman. Il progetto ha previsto la fornitura, adattamento e montaggio di 100 arti, un programma di riabilitazione fisioterapica e di supporto psicologico per gli amputati assistiti, la creazione e l’equipaggiamento di un centro protesico fisso e di uno mobile nonché corsi intensivi di aggiornamento per tre fisioterapisti e due psicologi dei centri di riabilitazione. Infine sarà organizzato l’inverno prossimo un evento sportivo multidisciplinare non competitivo per disabili ad Amman.

Nella seconda fase del programma AID 10249, in fase di avvio, la Ong Icu continuerà il lavoro di distribuzione protesi e il sostegno fisioterapico e psicologico ai beneficiari, aggiungendo ai servizi offerti la produzione e la distribuzione di protesi, assistenza riabilitativa e il reinserimento scolastico dei bambini che a causa della disabilità sono rimasti esclusi dalle opportunità di educazione per determinati periodi di tempo.




ITALIA – Pinotti: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata. Si stanno valutando nuovi ruoli per i nostri velivoli”

L’ipotesi della partecipazione dell’Italia nella guerra contro l’Isis che si sta combattendo in Iraq appare sempre più vicina alla realtà. Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha dichiarato durante un’intervista al Tg1 che: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata: siamo ad Erbil, siamo a Baghdad, ci siamo con i nostri addestratori, con i carabinieri e con aerei da ricognizione che partecipano all’operato della coalizione. Eventuali diverse esigenze, sulla base del rapporto con gli alleati e con il governo iracheno verranno valutate ma certamente passeranno al vaglio del Parlamento” . Ha inoltre affermato che “Si stanno valutando possibili nuovi ruoli per i nostri velivoli, e quando dovesse verificarsi questa ipotesi ovviamente riferirò in Parlamento”.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sulla questione si è espresso sostenendo che “la situazione in Iraq è aperta, c’è una discussione tra gli alleati sul modo migliore per partecipare all’operazione ma una cosa è certa l’Italia non ha preso nuove decisioni sull’utilizzo dei nostri aerei e se dovesse prenderle il governo non lo farebbe di nascosto ma coinvolgerebbe come è ovvio e doveroso il parlamento”. L’Italia collabora in Iraq con le forze alleate da oltre un anno, compiendo solo missioni di ricognizione attraverso l’utilizzo di 140 unità , 4 Tornado e dei droni Predator.




SIRIA – Raid aereo: gli Usa colpiscono dalla Turchia. Assemblea generale ONU in settembre

Cacciabombardieri Usa hanno compiuto per la prima volta un raid aereo “letale” sul Nord della Siria decollando da una base nel Sud della Turchia. Lo riferisce la Cnn citando due fonti diverse della Difesa statunitense. Poco prima, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu aveva affermato che Turchia e Stati Uniti “hanno fatto progressi” riguardo all’uso della base militare turca di Incirlik e che “gli aerei americani stanno cominciando ad arrivare. Presto – ha aggiunto – lanceremo una completa lotta contro Daesh”, l’acronimo arabo per Stato islamico.

Come in passato, la Casa Bianca ambisce alle dimissioni del presidente siriano Bashar Assad ed è favorevole al sostegno dei gruppi armati di opposizione. Tuttavia Mosca considera questo approccio disastroso, soprattutto in considerazione della mancanza di progressi nella lotta contro i terroristi di ISIS. La coalizione internazionale creata dagli USA con i suoi alleati nella regione finora non è riuscita a fermare lo slancio del gruppo fondamentalista. Contemporaneamente la Russia e gli altri Paesi che sostengono il regime di Damasco non sono pronti a collaborare con questa coalizione fino a quando la sua missione non godrà del sostegno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite attraverso l’approvazione di una risoluzione speciale.
Tale coalizione dovrebbe costituirsi “su una solida base giuridica internazionale”, — si afferma nel comunicato del ministero degli Esteri russo rilasciato dopo la visita di Sergey Lavrov in Qatar.
Per Mosca è essenziale che la coalizione riceva ufficialmente il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Secondo il “Kommersant”, il presidente russo ha intenzione di dedicare particolare attenzione a questo tema nel suo discorso di apertura della 70esima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU a New York alla fine di settembre.
In una conversazione con i giornalisti Sergey Lavrov ha criticato la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ed ha esternato le sue idee in merito al segretario di Stato USA John Kerry.
“Quando gli Stati Uniti un anno fa avevano annunciato la creazione di una coalizione per combattere ISIS in Iraq e in Siria, Washington si è assicurata l’accordo del governo iracheno, ma non ha chiesto nulla a Damasco. Abbiamo già sottolineato l’illegittimità e l’inefficacia di tale approccio,” — ha detto.
Secondo il capo della diplomazia russa, le azioni degli Stati Uniti si configurano come “un ostacolo alla formazione di un fronte comune contro ISIS” e la strategia di sostenere l’opposizione siriana con l’aviazione può “complicare ulteriormente la lotta contro il terrorismo.”
“L’addestramento sul territorio degli Stati vicini da parte degli istruttori americani sui combattenti della cosiddetta opposizione moderata è degenerato quando molti degli uomini addestrati sono finiti dalla parte degli estremisti”, — ha dichiarato il ministro russo.
Mosca ritiene che “gli attacchi aerei da soli non bastano”, “ed è necessario formare una coalizione di persone che la pensano allo stesso modo” e sul campo “si oppongono con le armi alla minaccia terroristica.”
“Sono interessati l’esercito siriano e iracheno e i curdi,” — ha detto Lavrov, aggiungendo che in questa iniziativa è stata promossa dal presidente della Federazione Russa.
Allo stesso tempo Lavrov ha ammesso che la posizione di Mosca non ha trovato la comprensione di Washington.
“Non penso di essere stato in grado di far scricchiolare la posizione degli Stati Uniti. Su questo tema le nostre posizioni divergono chiaramente,” — ha detto dopo l’incontro.

ROMA –  “Da diversi giorni il governo turco bombarda villaggi civili e postazioni militari del popolo curdo. In tutti questi mesi, Erdogan ha sostenuto e appoggiato l’ISIS. Dal confine turco sono passate autobombe dirette a Kobane, miliziani dello Stato Islamico sono stati curati negli ospedali turchi, mentre si continua a tenere chiusa la frontiera con la città curda liberata da YPG/YPJ. Anche nel recente attentato che ha causato la morte di decine di giovani socialisti e anarchici a Suruc, le responsabilità del governo dell’AKP stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza.

Il dittatore turco Erdogan ha annunciato di voler combattere l’ISIS solo perché si sente estremamente debole, sia all’interno, che all’esterno del Paese. Dopo le ultime elezioni non è in grado di ottenere la maggioranza necessaria a formare un governo, anche grazie alla straordinaria affermazione dell’HDP, partito capace di parlare ai curdi e a tutta la sinistra turca. Inoltre, è stato messo alle strette dall’accordo sul nucleare iraniano e, soprattutto, ha paura che l’esperienza di democrazia radicale del Rojava possa consolidarsi e diventare contagiosa.

Per queste ragioni, dietro la maschera della lotta all’ISIS, Erdogan ha lanciato una campagna contro la resistenza curda e contro le opposizioni interne. Su circa 800 arresti, meno del 10% riguardano presunti membri dello Stato Islamico: tutti gli altri sono militanti curdi o membri delle opposizioni.

Questa operazione è condotta con la complicità degli USA e dei Paesi dell’Unione Europea, mentre i media internazionali, che fino a pochi giorni fa esaltavano le gesta delle eroiche guerrigliere curde capaci di fermare l’avanzata dell’ISIS, adesso descrivono le stesse persone e le stesse organizzazioni come “terroriste”.

Dopo mesi di solidarietà attiva nei confronti della popolazione curda e delle sue unità di autodifesa, oggi vogliamo rompere il muro di silenzio e menzogne creato intorno all’aggressione militare che stanno subendo. Vogliamo denunciare il terrorismo di Erdogan e dello Stato turco. Vogliamo affermare che in Turchia e nel Kurdistan HDP, PYD, PKK, insieme ai movimenti sociali esplosi negli ultimi anni, sono gli unici garanti della democrazia e dei valori umani.
Per la fine dei bombardamenti e la pace in Kurdistan e in tutta l’area medio-orientale.

Per il rilascio immediato di tutti gli oppositori al regime autoritario turco.

Per l’eliminazione del PKK, unico fronte all’avanzata dell’ISIS e unico garante possibile per un processo di pace nell’area, dalle liste del terrorismo internazionale.

Per il riconoscimento del confederalismo democratico del Rojava, per una possibilità di pace e libertà per i popoli del Medio Oriente”.
Roma per il Kurdistan

(Attivisti solidali con il popolo curdo e la sinistra curda e turca si sono incatenati all’ambasciata della Turchia per denunciare la guerra del governo di Erdogan contro il confederalismo democratico del Rojava, il Pkk e i movimenti sociali turchi).

ERDOGAN – “Pur di bloccare le ambizioni dei curdi di creare un proprio territorio autonomo nel Nord della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ora è determinato addirittura ad allearsi con la filiale siriana di Al Qaida”. Così Mustafa Bali, portavoce delle Unità a Difesa del popolo curdo (Ypg), il quale condanna i piani di Ankara di creare una “zona di sicurezza” nel Nord della Siria. E teme che gli Usa possano appoggiarli.

Continuano, incessanti, i bombardamenti dell’aviazione turca contro le postazioni del Pkk sulle montagne del nord dell’Iraq e del sud –est della Turchia, e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Non si hanno finora notizie precise sul bilancio ma da numerose delle zone bombardate giungono allarmanti dati sul numero delle vittime. L’agenzia di stampa ufficiale turca, Anadolu, evidentemente imbeccata dal regime, parla di circa 260 membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan uccisi e di centinaia di feriti in una settimana di attacchi aerei sulle postazioni della guerriglia. Il bollettino fornito dalla Anadolu afferma che anche Nurettin Demirtas, fratello del leader del Partito Democratico dei Popoli Sehattin, sarebbe rimasto ferito durante i raid, centinaia, che avrebbero colpito e distrutto 65 tra depositi di armi e rifugi della resistenza curda.

Cifre che, come scrivevamo già, sono probabilmente gonfiate per dare la sensazione all’opinione pubblica islamista e reazionaria turca che la nuova strategia bellicista intrapresa pochi giorni fa dall’asse Davutoglu-Erdogan stia dando i suoi frutti e che le perdite inflitte ai ‘terroristi’ – per ora solo quelli curdi, perché di attacchi contro lo Stato Islamico non si è sentito più parlare – siano molto ingenti. Il Pkk finora ha dato notizia solo di cinque morti tra i combattenti ma ha ammesso che da giorni ha perso il contatto con alcune delle aree bombardate.
Naturalmente i bollettini ufficiali turchi non fanno alcuna menzione delle numerose vittime civili causate dalle bombe sganciate dagli F-16 e dagli F-4 di Ankara sui villaggi. Notizie di vittime civili e di distruzioni arrivano da numerose zone, ma il bilancio più alto sembra arrivare finora dal villaggio di Zergelê, sui monti di Qandil, nel kurdistan iracheno, dove i caccia turchi avrebbero ucciso almeno 9 civili, compresi donne e bambini. I bombardamenti, raccontano i testimoni, sono iniziati durante la notte, intorno alle 4: quattro missili hanno preso di mira le case nel villaggio distruggendone molte e facendo strage degli abitanti. Oltre ai morti ci sarebbero anche 15 feriti, di cui alcuni in gravissime condizioni, molti dei quali non sono stati condotti in ospedale a causa della continuazione dei raid che rendono insicuri gli spostamenti. “Stavamo dormendo quando i caccia turchi hanno colpito il nostro villaggio”, ha raccontato uno dei civili feriti.
Di fronte alla violazione della propria sovranità e alla strage di oggi documentata dalle immagini scattate da un reporter dell’agenzia Rojnews – che ne annuncia sicuramente altre nei prossimi giorni – la leadership della regione autonoma dell’Iraq del Nord ha incredibilmente chiesto ai guerriglieri del Partito Curdo dei Lavoratori di lasciare le proprie postazioni nella regione “per non esporre ulteriormente i civili ai raid aerei turchi”, di cui però non ha per ora chiesto la cessazione ad Ankara.
“Il Pkk deve tenere il campo di battaglia lontano dalla regione del Kurdistan perché i civili non diventino vittime di questa guerra”, ha affermato il presidente della regione autonoma, Massud Barzani in un comunicato diffuso dal suo ufficio.
“Non crediamo che ci possa essere una soluzione militare – si è limitato a dire il ministro degli Esteri del governo di Erbil, Falah Mustafa Bakir – Speriamo che le parti tornino al negoziato perché stabilità e sicurezza è quello di cui abbiamo bisogno ai nostri confini”.
In un suo comunicato-appello urgente, invece, il Congresso Nazionale Curdo (Knk) – che riunisce partiti e movimenti di liberazione curdi di diversi paesi – parla apertamente di terrorismo di stato turco e di aperta collaborazione di Ankara con lo Stato Islamico che pure afferma di voler combattere.
A vedere le strazianti immagini provenienti da Qandil la sensazione che i jihadisti abbiano finalmente a disposizione una loro aviazione – gli F-16 di Ankara – è davvero forte.

Per Bali, che ha parlato con askanews da Kobane, città curda siriana liberata a gennaio scorso dopo un lungo assedio dei jihadisti dell’Isis, le operazioni militari appena lanciate dall’esercito turco contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis) oltre il confine con la Siria sono “una farsa turca” con altri obbiettivi rispetto a quando dichiarato: in primis “colpire i curdi”. Il vero obiettivo sarebbe bloccare la creazione di un territorio autonomo dei curdi siriani, separando due zone da loro controllate.

La zona indicata per la creazione della cosiddetto “zona cuscinetto” voluta da Ankara è lunga circa 50 chilometri, parte da Kobane a Est e arriva ad Afrin a Ovest; entrambe città curdo siriane. “Si tratta di una zona mista controllata dall’Isis e abitata da curdi, arabi e turcomanni”, afferma Bali, secondo cui parò l’esercito turco ha “bombardato solamente villaggi curdi”.

“Dopo aver capito che l’Isis non è un partner vincente – prosegue il portavoce di Ypg, che accusa senza mezzi termini Ankara di connivenza con l’Isis – Erdogan punta ora sulla carta dei qaedisti, definendoli ‘opposizione moderata’” al regime di Bashar al Assad.

Un quadro che non corrisponde a realtà, secondo l’esponente curdo. “Intanto non esiste un’opposizione moderata, basti pensare che gli Usa dopo tre anni non sono riusciti a reclutare più di 60 combattenti da addestrare contro Damasco”, argomenta Bali, spiegando che “oggi la cosiddetta opposizione moderata è composta da soli gruppi terroristi di stampo islamista come il Fronte al Nusra, Jeish al Fatah, Beit al Islam e Ahrar al Sham”. Insomma gruppi islamisti “che in comune con Erdogan hanno l’avversione per i curdi”.

Quindi “non capiamo la politica di Washington”, che pare tacitamente assecondare il piano di Ankara per la creazione della zona di sicurezza, afferma il portavoce, sottolineando che “sarà difficile che gli americani possano accettare un’alleanza con terroristi islamici camuffati da opposizione siriana”.

Tuttavia, “le forze curde non cambiano strategia: noi combattiamo i terroristi a prescindere dal nome che portano, che sia Isis o al Qaida. In fondo il Fronte al Nusra ha cominciato a sgozzare la genet prima di quelli del Califfato nero”.

Di recente la Turchia è stato colpita, per la prima volta, da attacchi da parte di milizie jihadiste legate all’Isis. Un attentato ha fatto 32 morti nella città di confine di Suruc la scorsa settimana. Per Ankara, i militanti del PKK sono terroristi, così come lo sono gli uomini del Califfo .

Con una conferenza stampa congiunta del YPG (Peoples’ Protection Units) e della sua componente femminile, il YPJ, le forze curde che combattono contro lo Stato Islamico hanno annunciato la liberazione della città di Hasaka dopo una battaglia che durava da oltre un mese.

Secondo quanto si è appreso durante l’operazione sono stati uccisi almeno 386 terroristi appartenenti al Daesh tra i quali molti comandanti di alto grado. E’ l’ennesima vittoria delle forze combattenti curde nel difficile teatro della guerra in Siria, una vittoria che arriva nonostante gli attacchi dell’aviazione turca contro i combattenti curdi.

Durante la conferenza stampa ha parlato Azima Deniz, una comandante delle forze femminili curde (YPJ) la quale nel ricordare il fondamentale apporto delle combattenti donne curde ha sottolineato come nella battaglia siano stati uccisi il “sovrano” di Hasaka nominato dai vertici dello Stato Islamico, il sindaco della città e diversi suoi assistenti.

I combattenti curdi hanno sequestrato anche una grande quantità di armi e munizioni che andranno a rinforzare le milizie curde dato che le potenze occidentali non le riforniscono adeguatamente di armi a causa della opposizione delle Turchia. La conquista della città di Hasaka porta le forze curde ancora più vicino a Raqqa, capitale del Daesh.

Intanto  la Turchia ha ammesso che durante i raid dell’aviazione turca contro obbiettivi curdi hanno perso la vita diversi civili. Il Ministero degli Esteri turco ha emesso un comunicato dove si dice “rattristato” per l’uccisione di civili e che “la Turchia farà di tutto per evitare l’uccisione di civili” confermando tuttavia che i raid contro le forze curde, in particolare contro il PKK (ma non solo), continueranno fino a quando la Turchia lo riterrà opportuno.




LIBIA – Richiesta di riscatto per i 4 italiani rapiti

I quattro italiani rapiti in Libia sono vivi e nelle mani di un gruppo di malviventi che chiedono soldi. Nessun intento politico o richieste di scambi con scafisti nelle nostre galere, attraverso i mediatori dell’intelligence è arrivata la richiesta di riscatto per la liberazione di Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla, i quattro tecnici sequestrati il 20 luglio nella zona di Mellitah.

Il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti ha scartato nettamente l’ipotesi che i rapitori siano legati in qualche modo ai trafficanti arrestati nelle settimane scorse in Italia e che il sequestro possa essere utilizzato come “merce di scambio” per ottenere dall’Italia il rilascio dei detenuti. E’ una “via impercorribile” e quindi va esclusa. Minniti, nel corso di un’audizione al Copasir, ha detto che siamo di fronte a un sequestro a scopo estorsivo e quindi, pur nella difficoltà della situazione, la vicenda è più facilmente gestibile.

Il pericolo semmai è legato ad un allungamento dei tempi del sequestro oppure alla difficoltà di individuare le fonti con cui interloquire in Libia, fonti che siano attendibili e che possano portare in tempi rapidi a una soluzione della vicenda. L’incubo ovviamente è che i quattro possano essere venduti ad organizzazioni jihadiste in qualche modo legate all’Isis.

Il premier di Tripoli Khalifa al Ghweil ha considerato anche lui “molto scarsa” la probabilità che il rapimento abbia una relazione con i trafficanti. Al Ghweil è convinto che gli autori possano essere “criminali che vogliono turbare le relazioni che vogliamo instaurare con l’Italia”. Ma è il caos politico nel Paese che rende per l’Italia più complicata la vicenda. Il premier di Tripoli non è infatti il governo riconosciuto a livello internazionale. Cosa che invece è il governo di Tobruk. E quindi le parole di Khalifa al Ghweil possono essere interpretate anche come un “avvertimento”.

Gentiloni: “Serve prudenza” – Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni dal canto suo ha chiesto “prudenza e riserbo per riportare a casa” gli italiani e ha invitato a “non inseguire il carosello di rivendicazioni, ipotesi e retroscena che vengono fatti in modo più o meno strumentale”. Sulla stessa linea il titolare del Viminale Angelino Alfano.

Intanto a Sirte, dove negli ultimi mesi si è rafforzata la presenza dell’Isis, si sono verificati violenti combattimenti tra la Brigata 166 dei Fratelli Musulmani e gruppi affiliati allo Stato Islamico. Critica la situazione anche a Bengasi, dove si susseguono gli scontri fra l’esercito e formazioni islamiste.




Pena di morte per i marò, il Nostro No

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E’ assurdo che proprio due cittadini italiani muoiano perchè condannati dalla Giustizia di un paese in cui è praticata la pena di morte. Mi riferisco alla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre in India. L’Italia è sempre stata in prima linea nella campagna contro la pena di morte e  impegnata nella battaglia per una moratoria universale delle esecuzioni.

“La difesa dei diritti umani è per l’Italia un principio inderogabile – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Federica Mogherini – intendiamo continuare a batterci per una moratoria delle esecuzioni e in prospettiva per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. Nel 2007 abbiamo dato impulso alle iniziative che portarono all’adozione della prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla moratoria della pena capitale. L’anno seguente e nel 2010 con un gruppo di altri Paesi abbiamo promosso, sempre come Italia, altre due risoluzioni approvate all’Onu”.

Il 1 luglio scorso è stata istituita una «task force», di cui fanno parte Amnesty International, la Comunità di Sant’Egidio e Nessuno Tocchi Caino, destinata al coordinamento dell’azione italiana in vista della votazione in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Ma per svolgere un ruolo incisivo nel consolidamento e nell’ampliamento del risultato già ottenuto, per sensibilizzare quanti più Paesi e raggiungere questo obiettivo, saranno importanti il protagonismo della società civile, del governo e del Parlamento italiani.

La pena di morte è oggi giorno praticata in 95 Stati: è presente in quasi tutti i paesi asiatici, in buona parte di quelli africani, in alcune zone della America, come Stati Uniti, Cuba e Cile, mentre in Europa è esercitata esclusivamente nei territori della ex-Jugoslavia e della Bulgaria. Di tutte queste nazioni, escludendo gli Stati Uniti, le più significative sono la Cina e il Giappone.

Nel 2013 ci sono state esecuzioni in almeno 22 Paesi e in tutto “sono state messe a morte 778 persone, con un incremento del 15% rispetto al 2012”. “Così come gli anni precedenti – prosegue Amnesty International – questo dato non include le migliaia di persone che si ritiene siano messe a morte in Cina dove la pena di morte è considerata segreto di Stato”. Negli Stati Uniti, “unico paese del continente americano a eseguire condanne a morte”, il numero di esecuzioni continua a diminuire e il Maryland è diventato il diciottesimo Stato abolizionista.

In Cina, come del resto in tutti gli altri paesi asiatici, la pena di morte è massicciamente praticata; in tal senso, basti pensare che nel 1993 il 63% delle esecuzioni mondiali sono avvenute proprio in territorio cinese. I reati capitali sono 68, tra cui omicidio, stupro, rapina, furto, traffico di droga, prostituzione, evasione delle tasse e, addirittura, stampa o esposizione di materiale pornografico. Particolarmente raccapricciante è il fatto che spesso le esecuzioni vengono fatte in luoghi pubblici e i condannati sono costretti a tenere al collo un cartello con il loro nome e il reato per il quale vengono giustiziati. Amnesty International, inoltre, denuncia il fatto che spesso ai condannati, una volta giustiziati, vengono espiantati gli organi senza il loro permesso; proprio per questo motivo, si ritiene che alcune condanne vengano eseguite in quanto sono richiesti organi per i trapianti.

In Giappone, la legge prevede la pena di morte per 17 reati, quali l’omicidio e il provocare morte durante un dirottamento aereo. L’aspetto sicuramente più sconvolgente per i detenuti giapponesi è, oltre naturalmente all’esecuzione, il trattamento a loro riservato nel braccio della morte: possono, infatti, ricevere visite solo dai parenti più stretti, nella maggior parte dei casi non è permesso loro ricevere posta, vivono in celle dove la luce viene sempre tenuta accesa, sorvegliati da telecamere, che controllano che non tentino il suicidio. Devono, inoltre, sempre sedere al centro della cella e non è concesso loro di appoggiarsi al muro nè di dormire nelle ore diurne. I detenuti che non rispettano le regole subiscono severe punizioni, come l’isolamento o la sospensione delle visite. Da sottolineare, vi è il fatto che tra il novembre del 1989 ed il marzo del 1993 le esecuzioni vennero sospese perchè i ministri di giustizia dell’epoca erano contrari alla pena di morte: durante la moratoria, il tasso di criminalità non aumentò, ma anzi diminuì.

Condanne capitali colpiscono persone affette da disabilità mentale e intellettiva. In generale, il rapporto di Amnesty International sulle esecuzioni mostra che si è registrata qualche inversione di marcia. “Quattro Paesi, Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam, hanno ripreso le esecuzioni – si legge nel testo – e c’è stato un aumento significativo delle persone messe a morte in Iran e Iraq”.

Non può essere ammissibile che uno Stato arroghi a sé il diritto di vita o di morte su un essere umano: “lo Stato condanna chi uccide e poi uccide a sua volta, riparando una colpa con un’altra colpa”. (C. Beccaria)

Oggi, a distanza di millenni da quando l’uomo ha riconosciuto come inammissibile uccidere un suo simile (Non uccidere è un comandamento scritto  sulle Tavole  di Mosè) e a poco più di 250 anni dagli scritti di Cesare Beccaria,  solo il 50% dei Paesi del globo ha rinunciato alla pena capitale.

Sarebbe meglio per  qualsiasi società  punire  chiunque commetta reati non solo con la pena detentiva, ma  anche con lavori socialmente utili, finora assegnati, in Italia, soltanto a criminali appartenenti a determinate caste (politici ecc.) per evitare che scontino pene più pesanti.