ITALIA – Pinotti: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata. Si stanno valutando nuovi ruoli per i nostri velivoli”

L’ipotesi della partecipazione dell’Italia nella guerra contro l’Isis che si sta combattendo in Iraq appare sempre più vicina alla realtà. Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha dichiarato durante un’intervista al Tg1 che: “Nella lotta all’Isis in Iraq l’Italia c’è sempre stata: siamo ad Erbil, siamo a Baghdad, ci siamo con i nostri addestratori, con i carabinieri e con aerei da ricognizione che partecipano all’operato della coalizione. Eventuali diverse esigenze, sulla base del rapporto con gli alleati e con il governo iracheno verranno valutate ma certamente passeranno al vaglio del Parlamento” . Ha inoltre affermato che “Si stanno valutando possibili nuovi ruoli per i nostri velivoli, e quando dovesse verificarsi questa ipotesi ovviamente riferirò in Parlamento”.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sulla questione si è espresso sostenendo che “la situazione in Iraq è aperta, c’è una discussione tra gli alleati sul modo migliore per partecipare all’operazione ma una cosa è certa l’Italia non ha preso nuove decisioni sull’utilizzo dei nostri aerei e se dovesse prenderle il governo non lo farebbe di nascosto ma coinvolgerebbe come è ovvio e doveroso il parlamento”. L’Italia collabora in Iraq con le forze alleate da oltre un anno, compiendo solo missioni di ricognizione attraverso l’utilizzo di 140 unità , 4 Tornado e dei droni Predator.




Thailandia – Caccia all’uomo per la bomba a Bangkok. Dalla Cina l’invito a evitare la Thailandia

La polizia thailandese sta dando la caccia anche «a una donna con una maglietta nera» in relazione dell’attentato di Bangkok al tempio Erawan. «La esorto a farsi avanti per fornire informazioni» ha detto il generale Prawut Thavornsiri che ha anche reso noto che è stato escluso un coinvolgimento nell’attacco dei due uomini identificati come ricercati e che si sono presentati spontaneamente alla polizia.

I due sono risultati essere un turista e una guida turistica e sono stati rilasciati. E pare dunque chiaro che a tre giorni dall’attentato la polizia thailandese sembra brancolare nel buio. Secondo le autorità thailandesi almeno 10 persone potrebbero aver preso parte all’attentato ma pare improbabile che si tratti di terrorismo internazionale. Nello scoppio della bomba hanno perso la vita 20 persone e ne sono state ferite più di 120. Al centro della caccia all’uomo c’è sempre il misterioso giovane dalla maglietta gialla, il cui identikit lo indica come «straniero» nonostante un volto difficilmente attribuibile a una precisa etnia. La polizia ha ricostruito altri suoi movimenti, riuscendo a rintracciare il conducente di tuk tuk che l’ha portato al luogo della strage e il mototassista con cui invece si è allontanato dopo aver abbandonato lo zainetto con l’esplosivo nel complesso del santuario induista Erawan. Ma del ragazzo, apparentemente sotto i trent’anni, non c’è ancora traccia. Inoltre una troupe della Bbc ha ritrovato delle schegge della bomba a 50 metri dall’esplosione, assieme a biglie metalliche: segno che dei dettagli chiave potrebbero essere sfuggiti. E più tempo passa senza progressi di rilievo, più calano le probabilità di fare luce sul mistero.

In televisione il portavoce dell’esercito thailandese Winthai Suvaree ha detto di ritenere “improbabile” che l’attacco sia stato organizzato dal terrorismo internazionale, aggiungendo che i turisti cinesi “non erano un obiettivo diretto” degli attentatori.

In mattinata un portavoce del Ministero dell’interno ha spiegato che l’attentato  non è stato rivendicato ancora, tuttavia la polizia tende a escludere che possa trattarsi di terrorismo Internazionale o di matrice religiosa, concentrando invece le indagini sulle lotte politiche interne. Pare che sia stata individuata attraverso i video di una camera di sorveglianza una delle persone che materialmente hanno piazzato la bomba: maschio, giovane, con occhiali e una t-shirt gialla, secondo gli investigatori vicino al movimento delle Camicie Rosse fedele all’ex primo ministro Yingluck e al fratello Thaksim Shinawatra. Almeno secondo le dichiarazioni di Prayut Chan-O-Cha.

La polizia sta lavorando sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza nelle quali potrebbe essere stato identificato uno degli attentatori. L’unità di crisi della Farnesina, intanto, ha invitato i connazionali presenti a Bangkok a evitare la zona nel «distretto centrale di Chidlom, nei pressi dell’omonima stazione della metropolitana e del tempio di Erawan». Nel messaggio pubblicato sul sito Viaggiare Sicuri, inoltre, si da’ conto anche dell’esplosione presso il molo di Sathorn a Bangkok, non risultano al momento feriti».

Ieri le autorità thailandesi hanno diffuso un filmato delle telecamere di sicurezza, presenti di fronte al tempio Indù, che potrebbe aver immortalato uno dei possibili terroristi. Un uomo, con una maglietta gialla, zaino nero in spalla e cellulare in mano, mentre abbandona una borsa accanto ad una panchina e si allontana. «C’è un sospettato e lo stiamo cercando», ha affermato il portavoce della polizia, Prawut Thavornsiri. A proposito della granata lanciata da un ponte, le forze dell’ordine hanno chiarito che «se non fosse caduto in acqua, avrebbe certamente provocato feriti». Le indagini, quindi, vanno avanti. Il capo di Stato maggiore e vic ministro della Difesa, il generale Udomdej Sitabutr, ha escluso la pista dei ribelli islamici separatisti del sud, sostenendo che la dinamica dell’attentato «non corrisponde» a quelle abituali impiegate dai jihadisti. La pista più seguita porterebbe al terrorismo interno di matrice politica. Il capo della giunta militare al potere, il generale Prayuth Chan-ocha, ha puntato il dito verso il «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», noto come Camicie rosse, considerate vicine alla famiglia dell’ex premier Thaksin Shinawatra e alla sorella, Yingluck, deposta il 7 maggio 2014 da una decisione della Corte Costituzionale. Prayuth Chan-ocha, riferendosi ai responsabili dell’attentato, ha parlato di possibili legami con «un movimento anti-governativo che ha base nel nord-est della Thailandia». Il generale Prayuth, che è anche primo ministro, ha annunciato inoltre di aver effettuato un rimpasto di governo e di aver sottoposto all’anziano e malato re, Bhumibol Adulyadey, la lista per ottenere l’approvazione. Secondo il viceministro della Difesa, generale Udomdej Sirabut, l’attacco è stato invece «una vendetta per una recente operazione delle autorità». L’allusione è al rimpatrio coatto di un centinaio di musulmani uiguri in Cina. Molti membri della minoranza sono infatti fuggiti dalla Cina, a causa della repressione del governo di Pechino nei loro confronti. Intanto da Londra ieri è arrivata la conferma che tra le vittime dell’attentato a Bangkok c’è anche un cittadino britannico che viveva a Hong Kong.
La Thailandia ha visto  un’escalation di violenza che alza il livello di instabilità e incertezza nella crisi politica in corso da quattro mesi, in un clima sempre più di divisione e odio che rende sempre più difficile un negoziato tra i due blocchi di potere rivali. Il centro di Bangkok è stato scosso anche dall’esplosione di una granata di fronte al popolare centro commerciale Central World, a un centinaio di metri da uno degli accampamenti della protesta anti-governativa.

L’ordigno, scoppiato tra le bancarelle di souvenir dei manifestanti, ha causato la morte di un bambino di quattro anni (inizialmente indicato come dodicenne), della sorella di sei, e di una donna, oltre al ferimento di almeno altre 22 persone. Ieri sera, uomini armati a bordo di due pick-up hanno invece aperto il fuoco e lanciato ordigni in un mercato locale nella provincia orientale di Trat, dove una piccola folla era riunita per ascoltare il comizio di un leader locale affiliato alla protesta.
Una bambina di cinque anni seduta a un vicino ristorante di strada è stata colpita a morte, e un’altra è in coma; altre 34 persone sono rimaste ferite. I due attacchi portano a 19 morti e quasi 800 feriti il bilancio delle violenze da fine novembre. Ma se nei primi episodi di violenza le vittime erano spesso attivisti protagonisti di scontri, nelle ultime settimane gli attacchi hanno colpito moltissimi innocenti, in diversi casi neanche partecipanti alle manifestazioni.
Ora il coinvolgimento di bambini sembra aver scosso il Paese. La premier Yingluck Shinawatra ha condannato gli attentati definendoli «atti terroristici». Il problema è che ogni episodio di violenza finisce nel calderone delle strumentalizzazioni, alimentando le accuse reciproche. Per il movimento di protesta guidato dall’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, ogni morte è responsabilità di un governo malvagio, corrotto, populista e che ha perso ogni legittimità. I sostenitori di Yingluck, tra cui le «camicie rosse» del popoloso nord-est rurale che formano lo zoccolo duro dell’elettorato fedele all’ex premier Thaksin Shinawatra (fratello di Yingluck), intravedono invece giochi sporchi per creare instabilità e provocare un intervento delle forze armate, o comunque un colpo di mano dell’elite.

Estremisti di entrambe le fazioni dipingono sempre più i rivali come nemici subumani che meritano la morte. Oltre a confermare l’esasperazione delle fazioni rivali, secondo molti analisti l’accresciuta frequenza degli attacchi rappresenta un segnale che fa temere per una conclusione violenta della crisi. L’assenza di negoziati tra due posizioni incompatibili – con Yingluck che chiede il rispetto del suo mandato popolare e Suthep che vuole rimpiazzarla con un «Consiglio del popolo» nominato dall’alto – non lascia intravedere margini di manovra. La premier appare scivolare sempre più in una morsa, con la protesta di piazza da una parte e l’establishment tradizionale a lei ostile dall’altra. Se però dovesse cadere, a quel punto sarebbero i «rossi» a sentirsi legittimati a protestare, e il ciclo di violenze ricomincerebbe.

Intanto il Baht, la moneta thailandese, è ai minimi storici da sei anni e l’immagine turistica del Paese all’estero sta crollando velocemente. Non bastano la tradizionale ospitalità, il buon cibo, la bellezza di coste e templi a bilanciare la paura: già spuntano sul web le offerte speciali di agenzie e compagnie aeree. E se pubblicamente le autorità dichiarano che la situazione è sotto controllo, negli aeroporti periferici non ci è sembrato che le misure di sicurezza siano aumentate. I controlli, almeno per gli standard europei e americani, sono superficiali e veloci, il personale è sempre gentile ma non brilla per numero né per efficienza. Diversa la situazione a Bangok e Koh Samui, dove si è registrato qualche ritardo nelle procedure di imbarco.

La stampa in lingua inglese riporta le testimonianze raccapriccianti di chi ha assistito allo scoppio e continua ad aggiornare il conteggio di morti e feriti: per le fonti più attendibili, i primi sarebbero 22, i secondi oltre un centinaio, e in entrambi i casi non tutti sarebbero stati identificati. Diversi i turisti, anche se la maggior parte delle vittime sono thailandesi, come ha ammesso lo stesso portavoce in tv. E thailandesi, racconta un sito locale, sono anche i volontari che a centinaia  sono accorsi negli ospedali della capitale per dare una mano come potevano: chi donando sangue per le trasfusioni, chi mettendo a disposizione la propria auto o il tuk tuk per fare la spola tra il pronto soccorso e il luogo dell’attentato. Parecchi si sono offerti come interpreti, per aiutare i feriti e i loro parenti, soprattutto quelli cinesi e di Hong Kong.

Almeno due morti erano cittadini di Hong Kong, e proprio dall’ex protettorato cinese arriva il primo invito ufficiale a evitare la Thailandia. Più cauti gli altri Paesi, ma l’invito generico è a prestare attenzione, specie nelle mete turistiche e nei luoghi affollati; dalla Farnesina ancora nessuna notizia sull’eventuale coinvolgimento di italiani, che in questo periodo sono numerosi in Thailandia. “Faremo di tutto per riguadagnarci la fiducia di ognuno”, promette il portavoce del governo, annunciando un programma di sostegno alle vittime e ai loro familiari, mentre il Comitato nazionale per la Pace e l’Ordine invita la nazione a restare forte e unita e su Twitter si moltiplicano da tutto il mondo le preghiere per le vittime.




SIRIA – L’Isis rapisce ancora: 86 eritrei e una bambina assira

In Libia si regista un altro rapimento di cristiani da parte dell’Isis, lo annuncia Meron Estefanos, la direttrice della ong svedese Eritrean Initiative on Refugee: 86 migranti eritrei, tra i quali 12 donne e bambini, di religione cristiana sarebbero stati sequestrati mentre erano in viaggio verso Tripoli. I jihadisti avrebbero separato i cristiani dai migranti musulmani dopo averli interrogati sul Corano, e hanno lasciato questi ultimi liberi.

Sono stati 3480 i migranti salvati  in 15  barconi alla deriva al largo della Libia in un’operazione congiunta alle quale hanno partecipato navi italiane e straniere. Le richieste di soccorso erano giunte in mattinata alla centrale operativa della Guardia Costiera tramite telefono satellitare. Le imbarcazioni, 9 barconi e 6 gommoni, si trovavano in un tratto di mare a circa 45 miglia dalle coste libiche. In particolare, SkyNews ha riferito che la nave inglese Hms Bulwark, con a bordo il ministro della Difesa, Michael Fallon, ha fatto rotta «a tutta velocità» verso la Libia per prendere parte a un’operazione di salvataggio di «migliaia» di migranti alla deriva nel Mediterraneo su 14 barconi, ciascuno con a bordo decine o centinaia di persone.

Si è trattato di un’operazione senza precedenti, con tutte le navi europee dell’area che hanno ricevuto l’ordine di lanciarsi al soccorso, sostiene Skynews. Fallon aveva comunque chiesto che anche «altre marine europee vengano nel Mediterraneo ad aiutare». La maggioranza dei migranti sarà sbarcata in Italia, in Grecia, a Malta o in altri paesi rivieraschi: proprio la Gran Bretagna, infatti, si è già chiamata fuori da ogni ipotesi di ripartizione di quote di migranti.
Anche Moas e Medici senza Frontiere al lavoro: 2000 già in salvo
Alle operazioni di soccorso hanno partecipato tre motovedette e un aereo ATR42 della Guardia Costiera, unità della Guardia di Finanza e della Marina Militare Italiana, il rimorchiatore Phoenix, le navi della Marina militare tedesca Hessen e Berlin e la nave Le Eithne appartenente alla Marina militare irlandese, ma anche le unità di Moas (Migrant Offshore Aid Station, l’Ong maltese fondata da Christopher e Regina Catrambone) e Medici Senza Frontiere, e proprio il Moas segnala che il coordinamento dei soccorsi tra navi italiane, tedesche e irlandesi ha salvato 2000 persone da 5 scafi. Di queste, 372 provenienti dall’Eritrea sono ora imbarcate sulla Phoenix e già dirette verso la Sicilia.

Tra gennaio e maggio l’Italia ha registrato circa 46.500 arrivi, registrando un incremento del 12% rispetto allo stesso periodo del 2014. Lo ribadisce lo stesso Unhcr. Le proiezioni per il 2015 riguardano circa 200.000 persone, contro il 170.000 dello scorso anno. E domenica, nel primo pomeriggio, arriveranno altri 650 migranti al porto di Palermo: sono stati soccorsi nei giorni scorsi nel Canale di Sicilia e saranno ospitati nei centri di accoglienza di Palermo e provincia. Altri 105, prevalentemente nigeriani, somali o del Burkina Faso, sono giunti a Pozzallo già sabato pomeriggio con una nave militare, mentre altri 106 sono sbarcati a Lampedusa dopo essere stati soccorsi dalla Guardia di finanza. Non fanno parte del conteggio dei circa 3.000 in difficoltà.

SIRIA – «I miliziani avevano intimato a tutti i cristiani di lasciare il villaggio, altrimenti sarebbero stati uccisi. Nonostante questo, noi avevamo deciso di rimanere nella nostra casa. Il 22 agosto ci hanno fatti salire con la forza su un autobus dicendo che ci portavano nella clinica di Qaraqosh. Dopo, hanno aperto le nostre borse in cerca di soldi e di gioielli. Un uomo dell’Isis si è accorto che tenevo Cristina tra le braccia e l’ha presa con la forza. Supplicavo di riavere mia figlia ma l’unica risposta è stata: “Sali sull’autobus o ti ammazzo”. Non ho potuto fare niente». Aida Ebada appartiene alla comunità dei cristiani assiri della piana di Ninive, in Iraq, culla storica del cristianesimo mesopotamico. Il Califfato li ha derubati e umiliati, cacciati dalle case e dalle chiese, e in alcuni casi portato via anche i loro bambini, come Cristina di tre anni.
L’appello
A Erbil, in un campo profughi dove alla fine Aida è scappata con il marito e gli altri quattro figli, una delegazione di frati della Basilica di San Francesco d’Assisi ha ascoltato la sua testimonianza. Il dolore di questa madre li ha spinti a lanciare un appello con l’hashtag #savecristina: Salvate Cristina. Le missioni e le mense francescane d’Italia intanto hanno attivato il numero solidale 45505 dal 7 al 26 giugno per aiutare i profughi in Iraq.

Con la foto incorniciata della bambina in mano e il volto quarantatreenne sfigurato da rughe centenarie e occhiaie profonde, la madre ripete da dieci mesi il racconto del rapimento. L’ha denunciato alla tv irachena, ne ha parlato a numerosi siti cristiani, lo ha spiegato agli attivisti di Amnesty International. Non ha intenzione di smettere. La vicenda di Cristina è una delle numerose violenze contro i minorenni avvenute in questi mesi nel califfato.

Lo scorso febbraio, diciotto esperti del Comitato Onu sui diritti dell’Infanzia hanno denunciato che «i bambini delle minoranze etniche e religiose vengono uccisi sistematicamente dall’Isis: ci sono stati ripetuti casi di esecuzioni di massa, come pure notizie di decapitazioni, crocifissioni e di minorenni sepolti vivi». Le vittime appartengono soprattutto a minoranze, come gli yazidi e i cristiani, ma sono anche sciiti e sunniti. Il rapporto denunciava la vendita dei bambini come schiavi e le violenze sessuali sistematiche. Secondo alcune testimonianze, i piccoli schiavi al mercato di Mosul vengono «esposti con i cartellini con il prezzo» e quello più alto è riservato a maschi e femmine di età compresa tra uno e nove anni (proprio come Cristina). La madre chiede al mondo di non restare indifferente. «Queste cose che stanno succedendo in Iraq, come rapire una bambina innocente, e questi crimini come rubare il denaro, togliere tutto alla gente… che cos’è tutto questo? Questo non è umano. Che cosa abbiamo fatto di male? Restituitemi mia figlia».




Io c’ero. Vi presento il Mattarella interventista, tra bombe all’uranio e Missione Arcobaleno

Le guerre, è noto, alimentano e rafforzano la criminalità organizzata, ma nel 1999, il ministro della Difesa, Sergio Mattarella, ex magistrato, sembrava non saperlo, quando con il presidente del Consiglio Massimo D’Alema appoggiò la partecipazione dell’Italia all’operazione Allied Force, con la quale la NATO era intervenuta nella guerra del Kosovo.

Il governo italiano,   messo duramente alla prova da un’opinione pubblica che si mostrava quantomeno scettica nei confronti del primo vero episodio di interventismo militare italiano dal secondo dopoguerra (se ovviamente si fa eccezione della prima guerra del golfo, in occasione della quale l’apporto dell’aeronautica italiana si limitò ad una funzione logistica e d’appoggio), iniziò a vacillare e a mostrare sintomi di incoerenza e paradossalità nell’azione, impegnandosi contemporaneamente sui fronti militare e umanitario di uno stesso conflitto. Decise prontamente di intervenire, gettando sin dal 28 marzo, le basi di una grande missione di relief a favore dei profughi kosovari, denominata Missione Arcobaleno, anche in risposta all’allarme lanciato dall’UNHCR, preoccupato dall’entità dell’esodo di massa, la cui misura eccedeva le proprie capacità operative.

Prendendo atto della vastità delle proporzioni dell’emergenza e della debolezza del tessuto socio-economico nel quale stava avvenendo, caratterizzato da “forti carenze di infrastrutture primarie” (Dossier Protezione Civile), si decise per un’azione che si imperniasse nelle consolidate relazioni bilaterali con l’Albania. In un primo momento (almeno dalla prima presentazione esposta dal Ministro dell’Interno Iervolino) sembrava che la Missione Arcobaleno dovesse limitarsi ad un ruolo di coordinamento istituzionale (Protezione civile e Prefetture), sotto la guida del Ministero dell’Interno e del Ministero della Sanità, per l’accoglienza di 25.000-30.000 profughi nel territorio italiano. Tuttavia le dimensioni dell’esodo instradarono il Governo verso l’ipotesi di una raccolta fondi privata, la cui gestione sarebbe stata attribuita ad un esperto esterno, figura immediatamente individuata nel Prof. Vitale.

La campagna di sottoscrizione fu imponente e accompagnata da un lato dalla grande solidarietà degli italiani, dall’altro da forti proteste provenienti dalla società civile, soprattutto quella di matrice pacifista, la quale obiettava l’incoerenza dell’azione di Governo.

Con la missione circa 5.000 kosovari furono trasferiti dalla Iugoslavia alla ex-base Nato Comiso di in Sicilia dove alloggiarono in quelli che furono gli alloggi dei soldati americani che vi stanziarono durante la guerra fredda.

Lo scandalo scoppiò dopo un servizio di Striscia la Notizia effettuato dagli inviati Fabio e Mingo ed un articolo pubblicato dal Corriere della Sera e ripreso dal settimanale Panorama, che denunciò furti e sprechi nell’ambito della missione Arcobaleno pubblicando un’ampia inchiesta il 20 agosto 1999. Ciò diede vita ad un’indagine guidata dall’allora pubblico ministero Michele Emiliano, che portò al rinvio a giudizio di 19 delle 24 persone coinvolte nelle indagini.

Il 17 maggio 2012 la seconda sezione penale del tribunale di Bari ha concluso la vicenda dichiarando il “non luogo a procedere per intervenuta prescrizione di tutti i reati”. Nessuno degli imputati è stato condannato.

Nell’estate del 1999, c’era Sergio Mattarella a Palazzo Chigi, quando l’Italia ricevette dalla Nato un documento con cui si mettevano in guardia i paesi dell’Alleanza contro i rischi possibili di metallo pesante residuale in veicoli corazzati. Infatti, i militari italiani inviati nei Balcani,  senza istruzioni e protezioni, si sono ammalati a causa dell’uranio impoverito.

I metalli pesanti sono stati generati dall’esplosione delle bombe  che la Nato ha utilizzato per bombardare la ex Jugoslavia poco prima dell’ intervento italiano nei Balcani come Forza Multinazionale di pace.

I nostri uomini stanno morendo lentamente, come candele al vento, in seguito alla mutazione cancerosa delle cellule. E sono oggi curati da medici-ricercatori italiani in Inghilterra. Sono state riconosciute cause e fatti di servizio, ma le vittime devono costantemente scontrarsi con la burocrazia italiana, perchè le terapie devono essere autorizzate dall’Italia e questo comporta un percorso burocratico che in molti casi rende impossibili le cure. Ritardare anche di un solo giorno significherebbe compromettere per sempre l’effetto delle cure e dunque andare in modo irreversibile verso la morte. In Inghilterra ci sono professori italiani,  che sanno curare i militari colpiti da patologia dell’uranio impoverito e che potrebbero  farlo in Italia, ma si tagliano continuamente i fondi per la sanità, mentre si continua a sprecare denaro pubblico in armamenti.

Negli stessi giorni il ministro della Difesa, Mattarella, approvava la legge di riforma delle Forze Armate che aboliva di fatto il servizio di leva obbligatorio. Una lama a doppio taglio, perchè esempi negativi di milizie mercenarie la storia ne ha dati molti. In questi mesi, il governo Renzi, ha riproposto la Naia, il servizio di leva obbligatorio. Che il Bel Paese si stia preparando a un grande conflitto? Perchè ripristinarlo proprio ora?