NEET e Hikikomori, il ritiro sociale come forma del disagio giovanile

Ogni epoca storica ha la sua narrazione e la sua cifra emotiva che la rende riconoscibile e che è l’esito di molte trasformazioni sociali. Negli anni ’60 e ’70, la società del benessere e dei consumi, della comunicazione di massa e della coltivazione televisiva, nata dall’ultimo dopoguerra, produsse il clima culturale ed emotivo della ribellione giovanile dall’oppressività, il mito della liberazione e della ricerca di sé e del mondo. Questa narrazione “romantica” estroversa caratterizzò intere generazioni che ben presto, però, l’abbandonarono di lì a pochissimi anni per rientrare nei ranghi, come se nulla fosse successo.

La cifra emotiva dei nostri giorni inclusa nelle prevalenti narrazioni a carico delle ultime generazioni ha un sapore molto diverso ed è quella descritta dal profetico libro “L’epoca della passioni tristi” di Benasayag e Smith del 2004, nel quale gli autori riescono in maniera lucida a comprendere lo stretto nesso realizzatosi tra le trasformazioni sociali e le nuove forme del disagio giovanile e infantile, caratterizzato da un tono particolarmente pessimistico e passivo-rinunciatario.

Dopo alcuni anni da quel libro, tutto sembra essersi sviluppato esattamente in quella direzione, con l’aggiunta che le rapidissime trasformazioni tecnologiche e sociali hanno potuto fornire a questa enorme tentazione verso l’auto-esclusione dal mondo un supporto, una sorta di arredo completo per potersi sentire comodi anche in una cella.

Veniamo dunque alle strane parole del titolo di questo articolo: NEET e Hikikomori. 

  • NEET è un acronimo che proviene dal mondo della statistica e della demografia sociale e significa Not (engaged) in Education, Employment or Training, cioè ragazze e ragazzi dai 16 ai 35 anni che non studiano, non lavorano e non sembrano granché interessate/i a fare nulla. In Italia si stima che circa un terzo della fascia giovanile lo sia. Qui trovate un approfondimento: 

http://www.psicologoaurelio.it/154-2/.

  • Hikikomori (termine giapponese che significa “stare in disparte”) è un disagio psicologico-sociale rilevato in Giappone alcuni anni fa dove ha una grande diffusione tra le giovani generazioni (si stima circa 500.000) e che si sta rapidamente diffondendo anche in Occidente e, non a caso, particolarmente in Italia dove si stimano già circa 100.000 casi. Si tratta in sostanza di un’autoreclusione volontaria e prolungata, una sorta di seppellimento nella propria stanza dalla quale non si esce più. Qui ulteriori informazioni. http://www.hikikomoriitalia.it/.

I due fenomeni, pur essendo estremamente differenti in qualità e quantità, hanno in comune lo stesso movimento: il ritiro dalla scena (sociale), e probabilmente l’uno è il serbatoio dell’altro.

Queste/i giovani sembrano dire: se non posso combattere – cambiare le regole, ribellarmi, competere, difendermi – o fuggire altrove (perché non c’è un altrove), perché il mondo mi chiede troppo o è una fonte costante di frustrazioni, riduco drasticamente la mia presenza nel mondo, utilizzo il mimetismo come forma di fuga passiva, diminuisco radicalmente le tracce che lascio intorno a me e mi rendo evanescente, mi rifugio nella mia confort zone, che nel caso dei NEET è la famiglia come unica fonte di sostentamento, nel caso degli Hikikomori è la cripta della mia stanza dalla quale continuo a interagire col mondo in forma incorporea e virtuale. 

La narrazione e la cifra emotiva a essa connessa parlano di un’impossibilità di esprimere alcuna forma di protesta in quanto ogni possibile dissenso è disinnescato alla fonte dal momento che non esiste più alcuna società manifestatamente oppressiva, non esiste più un mondo adulto persecutorio dal quale distinguersi ed emanciparsi, no, esiste solo l’immane fatica di catapultarsi in gruppalità anonime (scuola, lavoro) vissute come estranee, frustranti ed ostili.

NEET e Hikikomori ci raccontano una storia sulla nostra contemporaneità per la quale essere rinunciatari/e non è una scelta, ma una condizione di questo presente.