L’infibulazione non è citata nel Corano, ma è in auge in Egitto, Eritrea, Guinea, Senegal, Somalia e Sudan

“I miei genitori hanno organizzato una festa e alcuni parenti sono venuti a vedere la mia cicatrice”; “Mia sorella è morta, la mano della nonna, non è più precisa come un tempo”; l’infibulazione nonostante sia una pratica disumana e le pene nei confronti dei medici che si prestano nell’operare clandestinamente le piccole pazienti, siano severissime, continua ad essere praticata in tutto il mondo. Migliaia di persone in tutto il mondo,ogni giorno si uniscono al grido di sdegno di chi da anni combatte contro le mutilazioni genitali delle donne e grazie a loro qualcosa si sta muovendo, infatti, a giugno, la Nigeria è stato il primo Stato africano a vietarla in maniera ufficiale. Auspicandoci che dopo di essa, molti altri Stati africani si esprimano in tal senso, è importante chiarire che l’infibulazione non ha origini islamiche, in quanto non è citata nel Corano, come peraltro non sono ammesse pratiche che possano in un certo modo mutilare il piacere femminile, ma è stata di sicuro generata da menti grette e per nulla empatiche. Sebbene, nel suddetto libro sacro, non le venga data alcuna rilevanza, l’infibulazione è in auge nei paesi in cui il culto islamico è prevalente come Egitto, Eritrea, Guinea, Senegal, Somalia, Sudan.




UNGHERIA – Posizioni xenofobe del premier Orban, barriera al confine con la Serbia

Dopo che l’immagine di uomini, donne a bambini stipati in treni diretti verso campi profughi ha fatto il giro del mondo, sollevando l’indignazione della società civile, l’Ungheria torna a far parlare di sé per le proprie posizioni razziste e xenofobe.

Secondo il premier Viktor Orban, infatti, l’immigrazione illegale è una “minaccia per l’Europa”, in quanto mette a rischio “l’identità culturale europea”. Ciononostante, s’è lamentato il presidente, l’Ue non fa nulla per difendersi dalle “masse di clandestini” che contribuiscono “a far prosperare terrorismo, disoccupazione e criminalità”.

Proprio a fronte di simili convinzioni, il governo ha già deciso di realizzare una barriera sul confine con la Serbia: “Questa gente doveva essere fermata e registrata già in Grecia, perché sono entrati in Ue da lì”, ha tuonato il vicepremier Janos Lazar. “A quel che mi risulta, nei Balcani non c’è attualmente alcuna guerra. Hanno pagato dei trafficanti, in Serbia, e vengono trasportati a bordo di autobus fino al confine ungherese. Costruiamo una barriera proprio per farla finita con tutto questo”.

Intanto, il passaggio illegale in Ungheria sarà qualificato come reato invece che come semplice contravvenzione, come accadeva fino ad oggi.

Sono attorno a 1400-1500 gli immigrati sbarcati in Sicilia negli ultimi giorni. Gran parte e’ approdata nel porto di Palermo a bordo di un rimorchiatore norvegese inserito nel dispositivo Triton: ben 785, africani e siriani, molte donne e molti minori, per lo piu’ non accompagnati. Dei nuovi arrivati, un centinaio restera’ nell’Isola; per gli altri e’ stato disposto il trasferimento nelle altre regioni del Paese. A Pozzallo sono arrivati invece in 468, a bordo di una nave militare irlandese. Tra loro sette donne in gravidanza. E poi 102 arrivati a Trapani; tra loro 24 donne (di cui tre in gravidanza), 12 minori non accompagnati, e due neonati. Cinque migranti sono stati trasferiti all’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani per accertamenti sanitari. Nel frattempo sembra aggravarsi il bilancio del naufragio al largo della Libia. Alle circa quaranta vittime di cui hanno parlato i superstiti, se ne aggiungerebbero altre cinque, in base alle testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie presenti sul posto. Sarebbero dunque 45 le vittime, secondo le loro ricostruzioni. Tra le ipotesi della tragedia, anche quella di un possibile incidente in mare nelle concitate fasi dei soccorsi: il panico e la foga per mettersi in salvo avrebbe provocato il dramma.

Dei 785 giunti a Palermo sulla nave norvegese Siem Pilot, 133 sono donne, due delle quali in stato di gravidanza e 27 bambini. La maggior parte proviene dall’Eritrea (766) gli altri da Siria, Bangladesh, Etiopia e Sudan. In particolare, tra i profughi in condizioni fisiche piu’ delicate, sono scesi un non vedente e un uomo e una donna in iperglicemia acuta che hanno avuto bisogno dell’intervento immediato dei sanitari dell’Asp. Gli altri migranti, alcuni con problemi dermatologici, sono complessivamente tutti in buone condizioni di salute. La gran parte dei migranti saranno trasferiti nei centri di prima accoglienza delle varie regioni italiane. Circa una settantina , per pochi giorni, verranno accolti dal centro San Carlo e Santa Rosalia della Caritas.

Al porto, sotto il sole cocente, ad attivarsi anche 28 volontari della Caritas con due operatori. Si tratta di persone, giovani e non, che hanno risposto all’appello lanciato nei giorni scorsi dalla Caritas che invitava i cittadini a farsi avanti per partecipare attivamente alla distribuzione di cibo, acqua e scarpe ai profughi durante lo sbarco. Sono stati preparati all’alba e distribuiti al Porto dalla Caritas ben 2800 sacchetti con il pasto che i migranti porteranno con loro nel viaggio per le diverse destinazioni e oltre cento paia di scarpe. “Continuiamo a verificare con piacere – afferma Anna Cullotta, coordinatrice dei volontari della Caritas – che, nonostante il sole cocente, tanti giovani e meno giovani si stanno spendendo, in pieno spirito di gratuita’ con grande energia, nei confronti dei primi bisogni dei migranti. L’invito che continuiamo a rivolgere alla cittadinanza e’ quello di partecipare attivamente al porto, non soltanto per rispondere al bisogno che abbiamo ma anche per potere fare un’esperienza umana molto forte”. Tra i migranti giunti a Pozzallo, invece, 41 sono donne e 42 i bimbi. Nove donne in gravidanza sono state trasferite per controlli, negli ospedali di Ragusa, Vittoria e Modica. Un uomo e’ stato ricoverato a Ragusa. I migranti provengono da Bangladesh, Nigeria, Etiopia, Siria, Senegal, Costa D’Avorio, Guinea, Marocco e Somalia.




Intrighi internazionali: cosa nostra e loro

Una inchie­sta del New York Times (24 marzo 2013) ha con­fer­mato l’esistenza di una rete inter­na­zio­nale della Cia, che con aerei qata­riani, gior­dani e sau­diti for­ni­sce ai «ribelli» in Siria, attra­verso la Tur­chia, armi pro­ve­nienti anche dalla Croa­zia, che resti­tui­sce così alla Cia il «favore» rice­vuto negli anni Novanta.

Quando il 29 mag­gio scorso il quo­ti­diano turco Cum­hu­riyet ha pub­bli­cato un video che mostra il tran­sito di  armi attra­verso la Tur­chia, il pre­si­dente Erdo­gan ha dichia­rato che il diret­tore del gior­nale pagherà «un prezzo pesante».

Ven­tun anni fa Ila­ria Alpi pagò con la vita il ten­ta­tivo di dimo­strare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta appa­rire ai nostri occhi.

Da allora la guerra è dive­nuta sem­pre più «coperta». Lo con­ferma un ser­vi­zio del New York Times (7 giu­gno) sulla «Team 6», unità super­se­greta del Comando Usa per le ope­ra­zioni spe­ciali, inca­ri­cata delle «ucci­sioni silen­ziose». I suoi spe­cia­li­sti «hanno tra­mato azioni mor­tali da basi segrete sui calan­chi della Soma­lia, in Afgha­ni­stan si sono impe­gnati in com­bat­ti­menti così rav­vi­ci­nati da ritor­nare imbe­vuti di san­gue non loro», ucci­dendo anche con «pri­mi­tivi tomahawk».

Usando «sta­zioni di spio­nag­gio in tutto il mondo», camuf­fan­dosi da «impie­gati civili di com­pa­gnie o fun­zio­nari di amba­sciate», seguono coloro che «gli Stati Uniti vogliono ucci­dere o catturare».

Il «Team 6» è dive­nuta «una mac­china glo­bale di cac­cia all’uomo». I kil­ler di Ila­ria Alpi sono oggi ancora più potenti.

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Il 21 dicembre  –  racconta Panorama –  l’organizzazione WikiLeaks ha diffuso due documenti della CIA, l’intelligence del governo degli Stati Uniti, che forniscono una serie di consigli per aggirare i sistemi di controllo negli aeroporti e alle frontiere. I documenti sono classificati come segreti – “NOFORN”, non possono cioè essere condivisi con i servizi di intelligence dei paesi alleati – e sono rivolti agli agenti che lavorano sotto copertura. Le guide si intitolano «Surviving Secondary» e «Schengen Overview», risalgono al 2011 e al 2012 e sono stati creati da un ufficio della CIA chiamato “CHECKPOINT” che si occupa della protezione dell’identità e dei documenti degli agenti sotto copertura.
In generale questi documenti mostrano le crescenti preoccupazioni della CIA riguardo l’esistenza di banche dati biometriche (per il riconoscimento attraverso le impronte digitali o l’iride, per esempio) che possono mettere a repentaglio le loro operazioni segrete. Affermano che il mandato generale per gli agenti è mantenere la copertura ad ogni costo e consigliano di aver preparato in anticipo dei profili Linkedin o Twitter con la falsa identità, di non avere un computer con dati che non corrispondano alla storia che devono raccontare e di prepararsi psicologicamente al controllo. Alcune indicazioni sono ovvie, altre di buon senso. Nel complesso, se uno non si è mai posto il problema, lette una dopo l’altra sono anche piuttosto interessanti.
1. Non acquistare il biglietto in contanti e imbarcare i bagagli
I principali problemi agli aeroporti, cioè i controlli maggiori e più approfonditi, vengono fatti quando il biglietto viene acquistato in contanti; quando viene acquistato direttamente all’aeroporto o il giorno prima della partenza; quando è di sola andata; quando il bagaglio non viene imbarcato.
2. Coerenza
Evitare di essere bloccati per controlli più approfonditi dimostrandosi impreparati e mostrando contraddizioni tra quello che si dice di voler fare o tra chi si dice di essere e i dati sui propri documenti. Il contenuto dei propri bagagli deve essere coerente anche con il paese in cui si va. Bisogna sapere la lingua del paese che ha emesso il passaporto.
3.- Essere informati
Una parte dei documenti è riservata alle informazioni sui paesi in cui si intende entrare per essere preparati alle varie procedure ed evenienze. Per esempio è importante sapere quali paesi effettuano controlli biometrici o quali sono in grado di farli. Secondo gli ultimi dati, che risalgono al maggio del 2014, una trentina di paesi – tra cui l’Italia, la Polonia, la Finlandia, l’Estonia, l’Algeria, il Senegal, il Ghana, la Cambogia, Singapore, l’Indonesia e il Cile – non partecipano al programma di autenticazione del passaporto biometrico.
Va anche tenuto conto che i controlli possono essere effettuati su chiunque e che in alcuni paesi ci sono abitudini e pratiche che è bene conoscere: è stato calcolato per esempio, che un viaggiatore statunitense su dodici sarebbe soggetto a tali controlli in modo casuale. A Chittagong, in Bangladesh, i turisti vengono regolarmente sottoposti a una specie di interrogatorio di un’ora prima di essere “rilasciati” e dopo aver pagato 50 dollari. A Mogadiscio, in Somalia, c’è l’abitudine di selezionare almeno un passeggero per volo e accusarlo di attività illegali, per costringerlo a pagare una tangente. In alcuni paesi i controlli degli aeroporti hanno il diritto di trattenere il viaggiatore per ore e questo può essere fonte di stress (in Turchia i passeggeri possono essere fermati anche per 24 ore).
4. Non avere uno sguardo sfuggente
I controlli più approfonditi possono essere decisi in base a criteri soggettivi. Molti aeroporti utilizzano anche tecniche basate sul comportamento per individuare le persone sospette. Bisogna evitare dunque di avere le mani che tremano, di sudare, di avere un battito cardiaco troppo alto, di arrossire, di evitare il contatto con gli occhi (o, al contrario, di cercare il contatto con altri passeggeri a distanza). Di avere, in generale, un atteggiamento reticente e poco disponibile a fornire informazioni.
5. Non andare più di cinque volte in un mese in Venezuela
Ci sono una serie di tragitti o transiti considerati con maggior sospetto rispetto ad altri. Se andate in Cile passando da diversi paesi del sud-est asiatico, potreste attirare l’attenzione della polizia; se andate in Gambia potrebbe essere considerato degno di approfondimento il fatto che vi siate regolarmente recati in Nigeria e in Guinea-Bissau; se andate più di cinque volte al mese in Venezuela potreste essere sottoposti ad un colloquio più approfondito; se avete soggiornato per breve tempo tra Zambia, Pakistan e Sud Africa potreste essere sospettati di essere dei trafficanti droga, per i servizi di sicurezza dello Zambia. Infine evitate di andare in Israele con un passaporto pieno di timbri che mostrano che avete viaggiato in molti paesi musulmani (e viceversa).
6. Meglio viaggiare accompagnati
E preferibilmente con una valigia, e non una borsa o uno zaino. Gli uomini di etnia cinese tra i 16 e i 28 anni potrebbero essere sospettati di essere migranti illegali da parte dei servizi di sicurezza cileni, per esempio: il sospetto diminuisce se con voi c’è qualcuno.
7. Evitare dispositivi elettronici e, comunque, controllare i social network
I controlli possono anche passare attraverso una verifica delle cose scritte su Facebook o su qualunque altro profilo online. Il fatto di non avere un profilo Facebook o Linkedin (nel caso di uomini e donne d’affari) potrebbe essere considerato sospetto. Un altro rischio per chi viaggia sotto copertura è rimanere collegato con il proprio vero account ai vari social network. In ogni caso meglio evitare di portare con sé dispositivi elettronici.
8. Non avere troppa paura dei file e delle banche dati
Ci sono una serie di sistemi di controllo nei paesi dell’area Schengen per evitare soprattutto l’immigrazione clandestina (il sistema d’informazione Schengen, SIS, la banca dati europea delle impronte digitali, EURODAC). Questi sistemi rappresentano un rischio piuttosto basso per la scoperta della vera identità di un cittadino americano sotto copertura, c’è scritto nei documenti della CIA diffusi da WikiLeaks.
9. Dare risposte semplici e immediate
«Perché sei qui?», «Dove vivi?». La CIA ricorda di rispondere in modo pacato, veloce e semplice, senza però fornire troppi dettagli. Vanno evitate le pause troppo lunghe tra la domanda e la risposta, gli intercalari che trasmettano incertezza (non dire «Mmh…», «Ehm…»), vanno evitati i tipici “segni psicosomatici” da stress (mordersi le labbra, ingoiare la saliva, sudare, aggiustarsi i vestiti) e non bisogna cercare di dare credibilità a tutti i costi a quello che si sta dicendo pronunciando parole o espressioni come “normalmente”, “spesso”, “forse”, “ad essere onesti”.
10. Ricordatevi la cravatta
La CIA conclude la sua guida spiegando come un agente in un aeroporto europeo sia stato selezionato dai servizi di sicurezza per un controllo più approfondito solo perché era vestito in modo troppo casual per essere il titolare di un passaporto diplomatico. Nel bagaglio dell’uomo sono state trovate tracce di materiale esplosivo, ma l’agente è riuscito comunque a evitare di essere fermato raccontando di aver partecipato a un corso di formazione anti-terrorismo a Washington. WikiLeaks si chiede come sia stato possibile per le autorità del paese europeo coinvolto non fermare un uomo che abbia semplicemente fornito questa giustificazione.

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Era un programma segreto della Cia – scrive il Corriere della Sera –  usare una finta campagna di vaccinazione per spiare i terroristi in Pakistan. Un piano concepito per arrivare a Osama Bin Laden ma che poi è andato oltre. Con conseguenze drammatiche. Decine di persone innocenti sono state eliminate dai talebani perché sospettate di essere complici dell’operazione americana. Ora la Casa Bianca ha annunciato che questa tattica non sarà più usata e lo ha fatto con una lettera pubblica. Una mossa a lungo attesa dopo polemiche dure anche negli Stati Uniti, con l’agenzia accusata di aver messo in pericolo le vite di molti, la cui colpa era quella di portare un camice.

Torniamo indietro nel tempo. Di almeno tre anni. Soffiate, dati satellitari, indagini e ricognizioni concentrano l’attenzione dell’intelligence americana su una palazzina di Abbottabad, in Pakistan. C’è il sospetto che all’interno del complesso recintato si nasconda un capo di al Qaeda, probabilmente lo stesso Bin Laden. Non c’è la conferma, però, e prima di lanciare un eventuale blitz servono delle verifiche. Ma certo non si può andare a bussare al pesante portone verde. Ed ecco che la Cia, mentre un team sorveglia l’edificio del target da distante, si inventa un trucco.
Gli agenti ingaggiano il medico pachistano Shakil Afridi che dovrà fingere di condurre un programma di vaccinazione contro l’epatite ad Abbottabad. In questo modo potrà mandare delle infermiere nella palazzina per prelevare campioni di Dna dagli ospiti, in particolare i molti bambini presenti, e quindi stabilire se combaciano con quelli del leader qaedista. Afridi porta avanti il progetto, anche se non è mai stato chiarito se la sua missione sia stata decisiva nell’identificare Bin Laden. Secondo molte versioni avrebbe fallito. Di certo c’è che Osama è stato ucciso e che il medico è finito, in seguito, in una prigione pachistana. Ma, purtroppo, non sono mancati altri effetti. Tragici.

I talebani hanno scatenato una guerra contro le vaccinazioni considerate il paravento della Cia. In realtà i militanti le osteggiavano già da prima, sostenendo che si trattava di una manovra per sterilizzare i piccoli musulmani. Visioni da dementi che però si sono sommate ai sospetti dopo l’assalto di Abbottabad e al piano Usa. Così i terroristi si sono scatenati prendendo di mira vaccinatori, medici e uomini di scorta all’equipe di infermieri. I numeri dicono tutto: dal dicembre 2012 al maggio di quest’anno almeno 56 persone sono state trucidate. Tutte erano legate, in qualche modo, all’azione anti-polio. Un massacro. Che si è portato dietro un altro fenomeno. Molte famiglie pachistane si sono opposte alla vaccinazione. E su 77 casi di polio accertati nel 2014 ben 61 si sono verificati nell’area tribale pachistana, il tradizionale rifugio di esponenti talebani ed elementi di al Qaeda.

La storia ha avuto poi contraccolpi negli Usa, dove sedici rettori di scuole legate alla Sanità hanno protestato con la Casa Bianca chiedendo l’immediato stop di un modus operandi che trasformava il personale medico in un bersaglio. La risposta è arrivata con una lettera firmata dal consigliere antiterrorismo di Obama, Lisa Monaco, che ha precisato: 1) Il direttore della Cia, John Brennan, ha bloccato la tecnica nell’agosto 2013. 2) L’agenzia non cercherà di sfruttare o ottenere materiale genetico attraverso questo tipo di iniziative. L’ordine vale su scala globale.
L’intelligence dovrà inventarsi nuove tattiche per infiltrarsi in zone altrimenti precluse. Con il prossimo ritiro, gli Stati Uniti avranno la necessità di mantenere occhi e orecchie sul posto, ossia quegli uomini dietro le linee che non possono essere sostituiti dai droni.

Il teatro afghano-pachistano si è rivelato piuttosto complesso. Senza, però, dimenticare che la Cia non è stata la sola agenzia a ricorrere all’aiuto di qualche medico amico. In Afghanistan, in passato, ha operato un network di informatori che aveva i suoi punti di forza in alcuni ospedali. Si trattava di afghani che collaboravano nella raccolta di informazioni sui terroristi, dati che poi erano passati ai militari. Un apparato, però, che non aveva la «copertura» del Pentagono e neppure della Cia ma agiva in modo autonomo.

Quando si entra nel labirintico gioco di specchi della politica e dello spionaggio c’è il rischio di trovarsi di fronte a una porta che non si apre. La strada giusta era quella accanto, o quella alle spalle. Ma, le ombre e le luci, le immagini riflesse ci hanno depistato. Muovendoci, prima o poi la scopriremo. Comunque, usciremo. Magari dopo che ci avranno indicato un’altro cancello, non quello che stavamo cercando. Il Senato degli Stati Uniti, la Cia e la Casa Bianca sono alle prese con questo gioco. Tocca a noi capire dove stia portando.

Scontro tra il Senato e la Cia

Una grave crisi costituzionale s’avvicina a Washington. Dianne Feinstein, democratica, ha accusato la Cia di aver spiato i lavori della Commissione del Senato sull’Intelligence che presiede, di aver tentato di sottrarre documenti e di aver fatto indebite pressioni sul suo staff. Questo è il culmine di un lungo braccio di ferro, durato quasi un anno, tra Langley e l’organismo parlamentare che indaga sulle attività dell’agenzia dopo l’11 settembre. Ma è solo un altro episodio della partita. Non il finale.

L’oggetto del contendere è il rapporto di 6.300 pagine che la commissione ha stilato in tre anni di lavoro, dal 2009 al 2012. L’inchiesta venne completata nel dicembre del 2012 e approvata con un voto a maggioranza: 9 voti a favore, 6 i contrari. Dopo questa votazione, la Cia ha inviato un memorandum di 120 pagine per confutare la tesi pilastro del rapporto: anni di metodi coercitivi nella lotta al terrorismo non hanno prodotto una sola informazione utile per l’intelligence. Sequestri, torture, imprigionamenti: tutto inutile. Per sconfiggere il nemico c’è (stato) bisogno di altro.

Il rapporto sulle prigioni della Cia

La commissione si è sempre rifiutata di modificare questa impostazione. E lo ha fatto sulla base di migliaia di documenti della stessa Cia contenuti in un database riservatissimo. Nomi, date, circostanze, metodi usati per gli interrogatori. Tutte carte che avrebbero dovuto essere in mano solo i vertici della Central Intelligence Agency e che invece erano finiti nei pc dei senatori. Le pressioni sono iniziate allora. Langley ha cercato di avere indietro quei documenti, dicendo ai membri dello staff della commissione che avevano compiuto un reato nel momento in cui erano entrati in possesso di quelle carte. Lo scontro è andato avanti sotterraneo fino a quando Dianne Feinstein ha deciso di renderlo pubblico.

Questo è avvenuto perché siamo vicini alla diffusione del rapporto (finora) segreto della commissione del Senato sulla Cia. L’annuncio che sarebbe stato reso pubblico è di diversi mesi fa. Barack Obama si è detto d’accordo. Per Langley, un’altra complicazione. Se il Grande Capo ha dato il segnale verde, niente può più fermare la macchina che, alla fine, permetterà all’opinione pubblica americana di sapere cosa ha realmente fatto la Cia negli anni della War on Terror.

Nessuno ne conosce i dettagli – a parte la Cia e i redattori -, ma tutto fa pensare che il rapporto riveli fatti che l’agenzia avrebbe voluto volentieri tenere nascosti. I rapimenti di presunti terroristi, gli interrogatori e le torture, quello che avveniva nelle prigioni segrete della Cia. Da quello che si è compreso, quelle quasi 4.000 pagine, indicano responsabilità ben più gravi, atti ben più brutali rispetto a quello che si è sempre pensato (o si è saputo) finora.

E’vero che, appena insediato e dopo aver firmato l’ordine esecutivo che metteva fine alle torture negli interrogatori, Barack Obama aveva promesso che nessun funzionario dell’intelligence sarebbe stato mai perseguito per le operazioni compiute sotto le direttive della precedente amministrazione, quella di George W. Bush. Ma, è anche vero che la diffusione completa del rapporto e le sue conclusioni sarebbero dei duri colpi per Langley. Molto duri. Tali di minarne la credibilità.

La Casa Bianca e i segreti dell’attuale guerra al terrorismo

La Casa Bianca vuole rimanere a tutti i costi fuori dallo scontro tra il Senato e la Cia. Ma, in realtà, si trova proprio in mezzo. John Brennan, l’uomo che Obama ha voluto alla guida dell’agenzia, dopo la denuncia di Dianne Feinstein avrebbe detto: “Se ho fatto qualche cosa di sbagliato, vado dal presidente e gli spiego cosa ho fatto. Sarà lui a dirmi se devo restare o se devo andarmene”.

Le parole di Brennan, l’architetto della guerra con i droni, il detentore dei segreti delle cyberwars americane, non suonano rassicuranti per la Casa Bianca. E’un modo per chiedere a Obama di schierarsi nello scontro con il Senato. Contro o a favore della Cia.

In ogni caso, per lui sarebbe un problema. Se Obama appoggia l’Agenzia, rischia di essere accusato di voler legittimare i suoi metodi durante gli anni della Guerra al Terrore. Se, invece, toglie la sponda a Langley, sconfessa l’uomo che lui ha chiamato a guidare la Cia (e quindi sconfessa la sua stessa politica di sicurezza) e apre il fianco a qualche velenosa vendetta da parte di settori dell’intelligence.

Non sarebbe la prima volta. Non è un caso che molti analisti abbiano tirato fuori un’analogia storica: la fuga di notizie sull’Iraq del 2004 che tanto misero in imbarazzo George W. Bush. Erano opera della Cia, che voleva mettere in imbarazzo l’uomo che aveva riversato su Langley la responsabilità delle false informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

Perché, in realtà, la posta in gioco, l’oggetto dello scambio tra la Casa Bianca e la Cia, non sono le attività dell’Agenzia durante gli anni di Bush, ma quelle portate avanti sotto l’amministrazione Obama. Non ci sono presidenti esenti da ombre quando si parla di intelligence. Neppure nel caso dell’attuale.

Sono molti i segreti della guerra dei droni in possesso di Langley. Gli omicidi mirati, i civili colpiti, le operazioni lanciate per sbaglio, le decisioni del presidente. Se si devono rivelare le circostanze del passato , perché allora non farlo anche con quelle del presente? Il gioco di specchi ci spinge verso Capitol Hill, ma per risolvere il caso Senato-Brennan la via giusta da seguire sembra essere quella che conduce in Pennsylvania Avenue.

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E allora tutto si spiega, mi riferisco in particolare agli ostacoli giudiziari all’accertamento della verità, come il caso Gelle o i molti depistaggi a cui in questi anni abbiamo assistito e che hanno dimostrato una intensità, una continuità e un livello mai visti se non per casi come Ustica, la strage di Bologna, il Moby Prince. Sin dal primo giorno dopo il delitto (chi conosce “le carte” lo sa) si è depistato per accreditare la tesi della rapina e escludere il delitto su commissione, che invece prevede dei moventi: e chi compie questo gioco di prestigio? Unosom, la cellulla dei Servizi di informazione di Unosom. E chi è Unosom? Unosom è “cosa loro”, la finta uniforme degli USA per le cosiddette operazioni di ingerenza umanitaria a suon di carri armati e di missili. Un coinvolgimento mosso da “necessità nazionali” o maturate in ambito Nato?

Se la Somalia, nel 1983, era “Cosa Nostra”, nel senso dell’Italia, i nostri servizi (o una fazione all’interno di questi) sono da sempre “cosa loro”, nel senso dell’intelligence USA.

Alpi e Hrovatin furono assas­si­nati, in un agguato orga­niz­zato dalla Cia con l’aiuto di Gla­dio e ser­vizi segreti ita­liani, per­ché ave­vano sco­perto un traf­fico di armi gestito dalla Cia attra­verso la flotta della società Schi­fco, donata dalla Coo­pe­ra­zione ita­liana alla Soma­lia uffi­cial­mente per la pesca.

In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shi­fco erano usate, insieme a navi della Let­to­nia, per tra­spor­tare armi Usa e rifiuti tos­sici anche radioat­tivi in Soma­lia e per rifor­nire di armi la Croa­zia in guerra con­tro la Jugoslavia.

La 21 Oktoo­bar II (poi sotto ban­diera pana­mense col nome di Urgull), si tro­vava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una ope­ra­zione segreta di tra­sbordo di armi sta­tu­ni­tensi rien­trate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si con­sumò la tra­ge­dia della Moby Prince in cui mori­rono 140 persone.

Sul caso Alpi, dopo otto pro­cessi (con la con­danna di un somalo rite­nuto inno­cente dagli stessi geni­tori di Ila­ria) e quat­tro com­mis­sioni par­la­men­tari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ila­ria aveva sco­perto e appun­tato sui tac­cuini, fatti spa­rire dai ser­vizi segreti. Una verità di scot­tante, dram­ma­tica attualità.

La docu­fic­tion «Ila­ria Alpi – L’ultimo viag­gio» (visi­bile sul sito di Rai Tre) getta luce, soprat­tutto gra­zie a prove sco­perte dal gior­na­li­sta Luigi Gri­maldi, sull’omicidio della gior­na­li­sta e del suo ope­ra­tore Miran Hro­va­tin il 20 marzo 1994 a Moga­di­scio.

Ci sono indizi sufficienti e documentabili oltre ogni incertezza per affermare che il duplice delitto di Mogadiscio sia stato, per dirla con le parole di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, concordato. Concordato in più sedi e a più livelli, all’interno di uno scacchiere internazionale ben definito e circostanziato che appare abbastanza evidente analizzando il contesto storico in cui è maturato: la guerra nella ex Yugoslavia, il lavoro per  l’ingresso di paesi dell’ex blocco comunista nella Nato (come Polonia e Lettonia), i rapporti ambigui tra blocco occidentale e paesi musulmani (Afganistan e Yemen). La verità sul caso Alpi fa ancora paura dopo 21 anni e quanto si è messo in campo per impedire che venisse alla luce,  comprese le inutili conclusioni della commissione presieduta da Carlo Taormina, la dice lunga sul livello delle responsabilità che ancora devono essere scoperte.

Basterebbe che ognuno gettasse la maschera.




International day of Happiness, ma il mondo guerreggia in 30 conflitti

Siamo caduti nel buco nero di un conflitto di tutti contro tutti di cui non si intravede la fine eppure oggi si festeggia il giorno della felicità. Quale? E dove prenderla? Perchè si dovrebbe essere felici se non si riesce nemmeno a essere contenti? Trovo che questa sia la festa più ipocrita che potessero istituire, visto che non riescono a garantire un sano tenore di vita nemmeno ai cittadini dei paesi più ricchi e sviluppati del mondo. Ormai sopravviviamo e lo dimostrano  le indagini per la misurazione della F.i.l. (Felicità interna lorda. Il termine FIL fu coniato all’inizio degli Settanta dal re del Butan, Jigme Singye Wangchuck), che prendono in esame variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili. Anche questa, tra crisi e guerre, con il Pil ha raggiunto i minimi storici.

Essendo la  socialità  la tendenza innata degli individui a convivere tra di loro, la nostra vita è tanto più felice quanto più ricche sono le nostre relazioni sociali. Perciò il concetto di benessere basato sul reddito o sul reddito pro capite deve essere allargato per includere variabili economiche diverse e considerare un insieme ampio di indicatori, quali  il numero di ore lavorate, il tasso di disoccupazione, la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita, per valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci oppure attraverso indagini nella popolazione che stimino il grado di soddisfazione percepito dai cittadini.

La classifica che mette al primo posto il Costa Rica,  definendolo il paese più felice del mondo,  non  include nell’elenco i paesi più infelici e forse bisognerebbe invertirla e domandarsi qual è il paese più infelice.

Mentre le guerre in Siria, Iraq e Ucraina riscuotono l’interesse dei mezzi d’informazione occidentali, sono una trentina gli altri conflitti di cui si parla pochissimo e che, in assenza di interventi, continueranno a colpire milioni di persone.

Le guerre civili nella regione del Darfur e negli stati meridionali del Sudan sono quasi sparite dai mass media anche se riguardano moltissime persone e nel solo Darfur hanno provocato 2,4 milioni di profughi.

La crisi nel vicino Sud Sudan è trascurata invece avrebbe un urgente bisogno di attenzione: è l’opinione di Jean-Marie Guéhenno, presidente dell’International crisis group, con sede a Bruxelles, che sta attualmente monitorandole guerre presenti in tutto il mondo.

Il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Siria sono stati considerati nel 2014 i paesi meno pacifici del mondo, secondo la classifica annuale compilata dall’Institute for economics and peace.

“L’orribile violenza alla quale si assiste ancora in Sud Sudan va avanti perché non c’è alcuna forma di pressione da parte dell’opinione pubblica”, sostiene Guéhenno.

Il secondo anno di guerra civile sta portando il paese più giovane del mondo sull’orlo della bancarotta e della carestia, e le violenze hanno costretto alla fuga almeno 1,9 milioni dei suoi 11 milioni di abitanti, uccidendone più di diecimila.

Secondo Guéhenno, se il Sud Sudan ricevesse una maggiore attenzione dai mezzi d’informazione occidentali, potrebbero essere adottate misure come un embargo sulle armi o un’azione seria per tagliare i finanziamenti alla guerra e simili pressioni avrebbero un seguito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

“Eppure questo conflitto resta fuori dei radar, tranne quando si verificano scontri più gravi”, afferma.

La Nigeria è un altro paese che risente della scarsità di notizie sui conflitti interni.
Anche se gli attacchi dei militanti islamisti di Boko haram ottengono qualche copertura, lo stesso non si può dire per le tensioni in corso altrove. Secondo Guéhenno, potrebbero esplodere gravi scontri nella regione del delta del Niger, ricca di petrolio.

“Nel caso di episodi di violenza dopo le elezioni, la notizia finirebbe su tutte le prime pagine perché la Nigeria è un paese molto importante in Africa. Ma sarebbe meglio se questioni del genere fossero affrontate già da adesso”, ha aggiunto.

Nell’ultimo decennio il numero di conflitti nel mondo è rimasto piuttosto stabile, oscillando fra i 31 e i 37, ma alla metà del 2014 il numero di profughi in fuga dalle guerre ha toccato il suo apice dal 1996.

Tuttavia, molte guerre compaiono raramente sui giornali o le tv occidentali.

Nel 2014 gli scontri nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo hanno costretto circa 770mila persone alla fuga, portando il numero totale di profughi a 2,7 milioni in un paese di 68 milioni di abitanti. Più di venti gruppi armati sono attivi solo nella provincia del Kivu Nord.

Altri conflitti sono in corso in Somalia, Yemen, Libia, Repubblica Centrafricana e Pakistan. Dopo il ritiro di gran parte delle truppe straniere, anche l’Afghanistan riceve meno attenzione.

Secondo i ricercatori, non è necessariamente la portata del conflitto ad attirare le attenzioni dei giornalisti.

Virgil Hawkins, professore associato alla Osaka school of international public policy dell’Osaka university in Giappone, ha osservato come il conflitto israelo-palestinese abbia una copertura mediatica significativa nonostante il numero di vittime sia inferiore rispetto a quelle della Repubblica Democratica del Congo.

Hawkins ha paragonato l’interesse riservato dai mezzi d’informazione all’inizio di gennaio all’attentato islamista contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi con il relativo silenzio su una serie di massacri compiuti quasi contemporaneamente da Boko haram in Nigeria.

“Le differenze non sono dovute al tipo di atrocità commesse, ma al luogo dove queste atrocità sono commesse e alle loro vittime”, ha scritto in un blog.

“Ci sono molti conflitti relativamente piccoli che covano sotto la cenere in paesi come l’India, la Thailandia, la Russia, la Turchia, la Birmania e l’Etiopia che non dovrebbero essere ignorati”, aggiunge.

I conflitti di portata ridotta spesso diventano più grandi nel momento in cui si collegano a una tematica più ampia, afferma Guéhenno. Per anni nessuno ha fatto molto caso ai microconflitti in corso nel Mali settentrionale, finché non sono diventati per il movimento jihadista un’opportunità per creare delle basi in quel territorio. “All’improvviso sono diventati strategici”, osserva Guéhenno.

“È molto difficile per i leader politici sollecitare un’azione politica su questioni che non riscuotono un grande interesse nei paesi occidentali”, conclude. “Quando le persone cominciano a essere uccise, allora c’è la mobilitazione”

Solo in Siria si contanto 220mila morti in quattro anni.

Era il 15 marzo del 2011 quando a Daraa, nel sud del Paese, si tenne la prima manifestazione contro il regime, dopo che il mese prima un gruppo di studenti erano stati arrestati con l’accusa di avere tracciato con lo spray slogan anti-regime. Un fatto senza precedenti nei 40 anni al potere della famiglia Assad. La reazione delle autorità di Damasco fu durissima. Nel sangue vennero represse anche successive manifestazioni in altre città, fino a quando l’opposizione cominciò a fare ricorso alle armi e i primi militari disertori fondarono l’Esercito libero siriano (Els). Da allora è stato un vortice di violenza che sembra non dover avere fine.

Il regime di Assad è ancora in sella nonostante l’ingiunzione lanciata fin dall’estate di quell’anno ad Assad dal presidente americano Barack Obama e dalla Ue perché lasciasse il potere. Il regime è riuscito a imporsi grazie alla fedeltà della maggior parte delle forze armate e all’appoggio dei suoi due grandi alleati, la Russia e l’Iran, anche se attualmente controlla con sicurezza solo una parte del territorio: da Damasco, attraverso la regione centrale di Homs, fino alla costa mediterranea, dove sono le roccaforti degli Assad. Nel nord Aleppo, quella che era una splendida città capitale economica e commerciale della Siria, è devastata dai combattimenti che da due anni e mezzo oppongono forze lealiste e ribelli. Più a est lo Stato islamico impone la sua versione oscurantista della Sharia nelle province di Al Hasakah e di Raqqa. A sud, presso il confine con la parte del Golan occupato da Israele, proseguono gli scontri con gruppi islamisti e il Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, mentre consiglieri iraniani e milizie sciite libanesi di Hezbollah appoggiano le forze lealiste.

Una conferenza di pace organizzata all’inizio del 2014 a Ginevra è fallita dopo due sessioni e l’estate successiva il mediatore dell’Onu e della Lega Araba, Lakhdar Brahimi, ha gettato la spugna, come aveva fatto prima di lui l’ex segretario generale Kofi Annan. Il nuovo inviato speciale, il diplomatico italo-svedese di lungo corso, Staffan de Mistura, sta cercando di favorire un dialogo che parta da obiettivi modesti, come tregue locali temporanee, a cominciare da Aleppo. Ma anche questa iniziativa sembra trovare notevoli difficoltà.

L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha detto di essere riuscito a documentare i casi di quasi 13.000 detenuti morti nelle carceri del regime per le torture subite. Ma quando le atrocità non sono riprese in video è impossibile che scuotano le coscienze come fanno le immagini degli ostaggi occidentali decapitati dai fanatici dell’Isis.

L’ultimo attentato ha ucciso oltre venti persone (tra cui quattro italiani, spagnoli e francesi) al museo Bardo di Tunisi, a pochi passi dal Parlamento, che proprio in quelle ore stava discutendo le leggi antiterrorismo. Ha colpito contemporaneamente la nascente democrazia araba e la sua fragile economia fondata sul turismo.

«La gente ancora non ha capito cosa è successo ma si tratta del più grande attentato mai avvenuto nella capitale tunisina».

«Il Bardo è il simbolo della Tunisia», continua il blogger Youssef Cherif: «Nel colpirlo i terroristi dello Stato Islamico hanno voluto colpire l’unico Paese in cui la rivoluzione araba ha avuto successo».  Il Bardo, uno dei più bei musei del Mediterraneo, raccoglie molti dei più preziosi mosaici di epoca romana.

La Tunisia è il Paese da cui era partita la serie di rivoluzioni che nel 2011 hanno sconvolto il Mediterraneo mettendo fine al regime decennale dei dittatori del Nord Africa. Ed è anche l’unico Paese che è riuscito ad eleggere liberamente il suo Parlamento e a formare un governo di unità nazionale in cui i laici di Nidaa Tounes e gli islamisti Ennahada sono riusciti a confrontarsi. In Egitto infatti il dittatore Hosni Mubarak è stato sostituito con un colpo di stato nel 2013 dal collega Abdel Fattah al-Sisi che ha eliminato fisicamente o imprigionato tutti i principali islamismi del Paese senza distinzione tra terroriste conservatori. La Libia invece è discesa nel caos e nell’anarchia con due principali fazioni politiche che si contendono il controllo e, nel farlo, lasciando territorio libero ai barbuti dell’Is.

«La democrazia non piace agli uomini dell’Is che sono allergici a qualsiasi cosa non sia esclusivamente religiosa», continua Cherif: «Da mesi sul web minacciavano il nostro Paese, il più secolare del mondo arabo. Avremmo dovuto aspettarci un evento simile».

Il problema è che da mesi la sicurezza è un enorme problema per la Tunisia. La criminalità è in aumento e il numero di tunisini partiti per raggiungere i ranghi dell’Is in Siria e in Libia è altissimo: almeno tremila persone, ma c’è chi ne stima settemila. Le risorse economiche e le forze di polizia non sono sufficienti. Perfino un obiettivo sensibile come il museo (di mosaici romani) più importante del Paese che si trova per lo più nello stesso piazzale del parlamento, è stato lasciato scoperto, facile preda di uomini armati.

“Ogni volta che viene commesso un crimine terroristico, ovunque sia, siamo tutti colpiti”. Questo il commento del presidente francese Hollande all’attacco di Tunisi. “Quando si tratta di vite umane spaventosamente schiacciate dalla macchina terrorista, che sia in Francia, in Tunisia o a Copenaghen, siamo tutti colpiti”

Per far ripartire l’economia e offrire una speranza ai milioni di giovani tunisini disoccupati Tunisi aveva lanciato lo scorso autunno una vasta campagna per il rilancio del turismo, puntando tutte le fiche sull’imminente stagione estiva. «Adesso questo attacco non solo finirà per annullare ogni sforzo pubblicitario compiuto negli ultimi mesi ma rischia anche di dare corda ai fautori della contro-rivoluzione, ovvero a coloro che sostengono che la democrazia non sia un sistema politico possibile in un Paese arabo e che si debba ritornare a uno stato di polizia. A una dittatura», sottolinea Cherif.

Intanto in Italia c’è chi comincia a contare i pochi, pochissimi chilometri che ci separano dalle coste tunisine. Da settimane, sul web, si moltiplicano le minacce a Roma, l’antica capitale del Mediterraneo.

Quale sarà il prossimo paese infelice?




Pena di morte per i marò, il Nostro No

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E’ assurdo che proprio due cittadini italiani muoiano perchè condannati dalla Giustizia di un paese in cui è praticata la pena di morte. Mi riferisco alla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre in India. L’Italia è sempre stata in prima linea nella campagna contro la pena di morte e  impegnata nella battaglia per una moratoria universale delle esecuzioni.

“La difesa dei diritti umani è per l’Italia un principio inderogabile – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Federica Mogherini – intendiamo continuare a batterci per una moratoria delle esecuzioni e in prospettiva per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. Nel 2007 abbiamo dato impulso alle iniziative che portarono all’adozione della prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla moratoria della pena capitale. L’anno seguente e nel 2010 con un gruppo di altri Paesi abbiamo promosso, sempre come Italia, altre due risoluzioni approvate all’Onu”.

Il 1 luglio scorso è stata istituita una «task force», di cui fanno parte Amnesty International, la Comunità di Sant’Egidio e Nessuno Tocchi Caino, destinata al coordinamento dell’azione italiana in vista della votazione in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Ma per svolgere un ruolo incisivo nel consolidamento e nell’ampliamento del risultato già ottenuto, per sensibilizzare quanti più Paesi e raggiungere questo obiettivo, saranno importanti il protagonismo della società civile, del governo e del Parlamento italiani.

La pena di morte è oggi giorno praticata in 95 Stati: è presente in quasi tutti i paesi asiatici, in buona parte di quelli africani, in alcune zone della America, come Stati Uniti, Cuba e Cile, mentre in Europa è esercitata esclusivamente nei territori della ex-Jugoslavia e della Bulgaria. Di tutte queste nazioni, escludendo gli Stati Uniti, le più significative sono la Cina e il Giappone.

Nel 2013 ci sono state esecuzioni in almeno 22 Paesi e in tutto “sono state messe a morte 778 persone, con un incremento del 15% rispetto al 2012”. “Così come gli anni precedenti – prosegue Amnesty International – questo dato non include le migliaia di persone che si ritiene siano messe a morte in Cina dove la pena di morte è considerata segreto di Stato”. Negli Stati Uniti, “unico paese del continente americano a eseguire condanne a morte”, il numero di esecuzioni continua a diminuire e il Maryland è diventato il diciottesimo Stato abolizionista.

In Cina, come del resto in tutti gli altri paesi asiatici, la pena di morte è massicciamente praticata; in tal senso, basti pensare che nel 1993 il 63% delle esecuzioni mondiali sono avvenute proprio in territorio cinese. I reati capitali sono 68, tra cui omicidio, stupro, rapina, furto, traffico di droga, prostituzione, evasione delle tasse e, addirittura, stampa o esposizione di materiale pornografico. Particolarmente raccapricciante è il fatto che spesso le esecuzioni vengono fatte in luoghi pubblici e i condannati sono costretti a tenere al collo un cartello con il loro nome e il reato per il quale vengono giustiziati. Amnesty International, inoltre, denuncia il fatto che spesso ai condannati, una volta giustiziati, vengono espiantati gli organi senza il loro permesso; proprio per questo motivo, si ritiene che alcune condanne vengano eseguite in quanto sono richiesti organi per i trapianti.

In Giappone, la legge prevede la pena di morte per 17 reati, quali l’omicidio e il provocare morte durante un dirottamento aereo. L’aspetto sicuramente più sconvolgente per i detenuti giapponesi è, oltre naturalmente all’esecuzione, il trattamento a loro riservato nel braccio della morte: possono, infatti, ricevere visite solo dai parenti più stretti, nella maggior parte dei casi non è permesso loro ricevere posta, vivono in celle dove la luce viene sempre tenuta accesa, sorvegliati da telecamere, che controllano che non tentino il suicidio. Devono, inoltre, sempre sedere al centro della cella e non è concesso loro di appoggiarsi al muro nè di dormire nelle ore diurne. I detenuti che non rispettano le regole subiscono severe punizioni, come l’isolamento o la sospensione delle visite. Da sottolineare, vi è il fatto che tra il novembre del 1989 ed il marzo del 1993 le esecuzioni vennero sospese perchè i ministri di giustizia dell’epoca erano contrari alla pena di morte: durante la moratoria, il tasso di criminalità non aumentò, ma anzi diminuì.

Condanne capitali colpiscono persone affette da disabilità mentale e intellettiva. In generale, il rapporto di Amnesty International sulle esecuzioni mostra che si è registrata qualche inversione di marcia. “Quattro Paesi, Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam, hanno ripreso le esecuzioni – si legge nel testo – e c’è stato un aumento significativo delle persone messe a morte in Iran e Iraq”.

Non può essere ammissibile che uno Stato arroghi a sé il diritto di vita o di morte su un essere umano: “lo Stato condanna chi uccide e poi uccide a sua volta, riparando una colpa con un’altra colpa”. (C. Beccaria)

Oggi, a distanza di millenni da quando l’uomo ha riconosciuto come inammissibile uccidere un suo simile (Non uccidere è un comandamento scritto  sulle Tavole  di Mosè) e a poco più di 250 anni dagli scritti di Cesare Beccaria,  solo il 50% dei Paesi del globo ha rinunciato alla pena capitale.

Sarebbe meglio per  qualsiasi società  punire  chiunque commetta reati non solo con la pena detentiva, ma  anche con lavori socialmente utili, finora assegnati, in Italia, soltanto a criminali appartenenti a determinate caste (politici ecc.) per evitare che scontino pene più pesanti.