ITALIA – Giorgiana Masi,vittima della violenza del regime.Roma, ponte Garibaldi, 12/5/1977
Di Andrea Zennaro
Non sorride ma il suo sguardo punta lontano, verso un futuro che non vedrà. Pur non essendo particolarmente bella, i suoi capelli lisci scuri le danno grazia. Con questa espressione si presenta la fanciulla, nell’unica fotografia nota con cui conosciamo il suo volto.
È il pomeriggio del 12 maggio1977 quando una ragazza di diciannove anni cade a terra nei pressi di ponte Garibaldi a Roma. Tutti i soccorsi sono inutili. In un primo momento le cause del suo rapido decesso restano incerte, solo più tardi verrà notato il foro di un proiettile entrato nella sua schiena e fuoriuscito dall’addome. Nel frattempo i giovani intorno a lei continuano a correre senza meta, inseguiti, manganelli alla mano, dallo Stato, che colpisce anche dall’alto con una fitta pioggia di candelotti lacrimogeni. Giorgina Masi, meglio nota come Giorgiana, era uscita di casa quella mattina dicendo di star andando a una festa, anche se gli eventi di quella giornata erano alquanto prevedibili.
In piazza Navona si parla di femminismo e autodeterminazione, di aborto e divorzio, di parità sociale e libertà di scelta. L’iniziativa è stata indetta dal Partito Radicale per sfidare l’ordinanza imposta alla città dal sindaco Giulio Carlo Argan che vieta qualsiasi manifestazione pubblica in seguito agli scontri avvenuti il 12 marzo tra la polizia e il movimento, in particolare l’area dell’Autonomia, davanti alla sede centrale della Democrazia Cristiana.
Lo stesso Ministro dell’Interno Francesco Cossiga definisce il divieto illegale ed extra legem in quanto estrapolato non da una legge della Repubblica Italiana ma dal codice penale fascista, non riconosciuto dalla Costituzione del 1948. Quel 12 maggio un cartello, ironico ma neanche tanto, chiede ai militari schierati intorno alla piazza di non sparare sul pianista: tale è infatti l’aria che si respira nelle iniziative politiche da quando lo Stato ha inaugurato quella che è nota come “strategia della tensione”.
Commentare l’uccisione di una manifestante con le solite frasi – che in questi casi non mancano mai – del tipo “se l’è cercata” o “poteva starsene a casa o prestare più attenzione” non solo sarebbe semplicistico ed estremamente riduttivo, ma mancherebbe di rispetto a tutte le persone uccise da un regime contro il quale lottavano. Allo stesso modo non basta limitarsi a constatare quanto criminale sia stato l’operato delle cosiddette forze dell’ordine durante quella giornata: è necessario attribuire le responsabilità in modo corretto e soprattutto approfondire il contesto storico in cui l’assassinio è maturato.
Nessuna persona in buona fede ha mai sostenuto che si sia trattato di un incidente.
Negli anni ’70 la società italiana è in fermento. I sindacati riconoscono e tutelano soltanto chi ha un contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le nuove forme di lavoro sempre più frequenti. Le precarie e i precari, i disoccupati e le disoccupate, di conseguenza, non credono più nelle istituzioni in cui invece avevano creduto le generazioni precedenti.
L’estensione della scuola dell’obbligo e l’apertura dell’università a chiunque, indipendentemente dalla scuola superiore frequentata, fanno sì che l’università, prima riservata a un’élite, diventi di massa, esasperando l’agitazione studentesca: gli atenei non raccolgono più i figli della ricca e media borghesia ma l’intera società giovanile con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, diventando così il luogo di concentramento di disagi ben più grandi. Inoltre, le facoltà si ritrovano a essere, di fatto, anche sede di preparazione al lavoro salariato e precario, sfruttato ed estraneo alla rappresentanza sindacale. E per le istituzioni chi non è rappresentato costituisce un problema non politico o sociale ma solo di ordine pubblico. Diversamente dal Sessantotto, non sono intellettuali e studenti privilegiati a criticare la società, ad assaltare i centri della cultura, ma la parte più disagiata e meno riconosciuta della società, tagliata fuori dalla società stessa: la fantasia del decennio precedente lascia spazio a frustrazione e rabbia.
L’altro fattore di novità consiste nel fatto che le prime agitazioni studentesche scoppiano al Sud. Quando la riforma Malfatti diminuisce la possibilità di ripetere gli appelli d’esame e pone forti restrizioni al diritto degli studenti di scegliere liberamente quali corsi inserire nel piano di studi, le università già in fermento esplodono. La circolare Malfatti non è stata la causa determinante delle lotte ma solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scintilla su una polveriera già da tempo pronta ad incendiarsi.
Giorgiana vede un’Italia in fermento in cui i diritti individuali aumentano.
Nel 1974 un referendum sancisce il diritto al divorzio, nonostante la forte contrarietà della Chiesa e della DC. Pochi anni dopo venne il diritto all’aborto: la maternità deve essere una scelta consapevole e non un obbligo. Per il movimento femminista e per le donne in generale è una vittoria mai vista, inimmaginabile fino a poco prima.
È bene ricordare che il movimento del ‘77 è ostile non solo al governo democristiano ma anche e soprattutto al principale “partito non di maggioranza” (sarebbe fuori luogo definirlo partito di opposizione). Nel 1972 alla segreteria del PCI viene eletto Enrico Berlinguer, con cui il Partito cambia totalmente volto. In uno dei suoi primi discorsi da segretario, Berlinguer dichiara che la spinta propulsiva data dalla Rivoluzione del lontano ottobre 1917 è ormai finita e che c’è bisogno dunque di un’energia nuova. Il PCI, filosovietico ma non antagonista al sistema liberale, apre le trattative con il governo: il comunismo è messo in soffitta sostituito da una blanda socialdemocrazia. La CGIL, sindacato fedele al PCI, preme per calmare le spinte rivoluzionarie ancora presenti nelle fabbriche e nelle università, smettendo di fatto di guidarne le lotte.
In generale si potrebbe dire che la forma Partito, nata in Italia all’inizio degli anni ’20, egemone durante la Resistenza e ancora funzionante negli anni ’50, dopo il Sessantotto abbia smesso di funzionare e negli anni ’70 si sia ritrovata a essere come una scarpa troppo stretta rispetto ai piedi cresciuti di una società che si evolve rapidamente.
Abbandonati gli ideali rivoluzionari che avevano prima dato vita al PCI subito dopo il biennio rosso e poi animato gran parte della Resistenza contro il Nazifascismo, non riuscendo a ottenere alcuna maggioranza parlamentare per via elettorale pur crescendo nei sondaggi, il partito di Berlinguer cambia strategia cercando di avvicinarsi a posizioni di governo tramite accordi interpartitici. Il cosiddetto compromesso storico, noto anche come “governo della non-sfiducia” o “delle astensioni”, consiste in un governo “monocolore” (cioè monopartito) della DC reso possibile grazie all’astensione del PCI alla Camera, che non vota contro la fiducia al governo Andreotti per garantirsi un maggior peso istituzionale.
È chiaro che nel 1977 il PCI sia ormai un partito filogovernativo e quasi conservatore, ma in quanto forza egemone della sinistra, non può tollerare di essere deriso e non rispettato proprio da sinistra. Il PCI, scavalcato da questo nuovo movimento incontrollabile che non riesce a imbrigliare, non manca mai occasione di ripetere che chi occupa le università (e l’Autonomia in particolare) è estraneo alla legalità e quindi alla democrazia e che i raduni di giovani militanti sono solo covi di violenza, delinquenza comune e addirittura squadrismo quasi fascista.
La sfiducia di studenti e futuri precari versi il partito e il sindacato in cui le persone più anziane avevano creduto finisce per dar vita a un conflitto senza precedenti in cui la generazione protagonista della Resistenza si sente tradita da quella successiva che a sua volta si vede tagliata fuori da istituzioni obsolete.
Non c’è da stupirsi, quindi, che il Partito accusi pesantemente chi non crede nella legalità dello Stato repubblicano, né tanto meno che ragazzi e ragazze abbandonino le sezioni di partito per cercare rifugio altrove.
Del resto, gli artefici della guerriglia partigiana, cresciuti sotto il regime ed educati dalla scuola gentiliana a non disdegnare le figure autoritarie, vedevano molto più di buon occhio il rigore del Partito che la stravagante libertà del movimento. E il principale cavallo di battaglia della retorica vicina al PCI è sempre stato il mito dell’epopea partigiana. Quando a Bologna i carabinieri uccidono Francesco Lorusso, venticinquenne militante di Lotta Continua, il PCI indice un presidio sotto il monumento ai caduti della Resistenza per celebrare non un ragazzo ucciso, ma la legalità dello Stato; quando gli studenti occupano l’università di Roma, è proprio il segretario della CGIL, legata al PCI, a dar vita alla provocazione che conduce allo sgombero dell’università, ammettendo egli stesso che il fine di tale operazione è quello di riportare l’ordine e mettere fine alle agitazioni per “ripristinare la vita democratica e legalitaria all’interno dell’Ateneo”; quando gli studenti reagiscono alla provocazione e lo cacciano, i mezzi d’informazione legati al Partito sottolineano con insistenza che Luciano Lama è stato partigiano; quando viene uccisa Giorgiana Masi, il PCI si limita a tacere, continuando a votare la “non-sfiducia” al governo. L’apice di questo scontro avviene a Bologna in quanto storico baluardo del PCI e al tempo stesso città universitaria, quindi teatro della più grande incompatibilità sociale e generazionale.
Dopo aver lasciato a terra una ragazza, i manifestanti continuano la fuga disperata e le truppe proseguono il loro feroce inseguimento. Smarrito nella confusione e accecato dai gas lacrimogeni, un fotografo trentacinquenne vaga per il centro di Roma con la sua Leica sempre al collo. È uno dei pochi che ha mostrato ciò che nessuno ha voluto vedere, regalando alla Storia testimonianze fondamentali e di rara bellezza.
La sera stessa il Ministro dell’Interno dichiara di non aver mandato nessun agente in borghese nel corteo. Dichiara inoltre che non sono state usate armi da fuoco per l’attività di ordine pubblico. Dunque Giorgiana Masi risulta uccisa da una pallottola vagante sparata dai manifestanti in direzione delle forze dell’ordine. E questi, sicuramente autonomi ed evidentemente distratti, non hanno notato che in mezzo tra loro e il bersaglio vi erano altri manifestanti in corsa, tra cui la ragazza colpita.
È la versione ufficiale del Ministero.
Servirebbe poi un esperto di fisica fantascientifica per spiegare come mai una pallottola sparata da davanti l’abbia colpita alla schiena.
Un’immagine mai pubblicata dai quotidiani mostra un uomo in borghese con una pistola in mano mentre riceve istruzioni da un superiore e alle spalle ha un gruppo di uomini armati e in divisa difficilmente riconducibili all’Autonomia.
(foto 2)
Così un fotografo ha palesemente smentito un ministro. La sua stessa Leica ha testimoniato la frettolosa violenza degli uomini in divisa: è un’immagine molto potente che richiama il mondo classico: gli uomini armati sullo sfondo fanno capire di cosa si parla, mentre lo sguardo disperato e intenso delle ragazze in primo piano mostra la tragicità della scena.
(foto 3)
Accostare la bellezza e la pena, la grazia e la brutalità, è uno strumento efficace e fastidioso, di certo non gradito dal signor Ministro.
Un’altra immagine dello stesso autore mostra la determinazione delle donne che sotto una pioggia battente porgono l’ultimo saluto alla loro sorella “uccisa dalla violenza del regime”, come recita la targa in memoria di Giorgiana Masi presso ponte Garibaldi.
(foto 4)
Le foto di Tano D’Amico sono importanti per rileggere gli ultimi decenni in quanto mostrano la bellezza, la grazia, la poesia dei volti e delle istanze di chi non dovrebbe averne, di chi l’Unità avrebbe preferito descrivere come teppista scalmanato attraverso immagini brutte e prive di significato. Quelle immagini sono sempre state tenute nascoste perché non si pensasse che le invadenti femministe avessero qualche ragione, che i cattivissimi autonomi si scontrassero con un Partito in cui era vietato avere dubbi, che gli stravaganti indiani metropolitani non facessero poi così schifo. Sono foto, quelle di Tano D’Amico, che non hanno bisogno di didascalie, che colpiscono e restano nell’eternità, diversamente da quelle dei giornali, che vivono un giorno solo per poi scomparire nel nulla senza lasciare segni nella memoria, fagocitate dall’oblio collettivo.
Nel 2001 un enorme movimento internazionale viene schiacciato dalla repressione.
A Genova i carabinieri uccidono un ragazzo di ventitré anni: prima uno sparo in faccia, poi una jeep dell’arma lo schiaccia due volte ancora vivo, e infine il colpo di grazia è un sasso che gli spacca la fronte per mano di un uomo in divisa. Ci vuole una buona dose di coraggio e immaginazione per sostenere che si sia trattato di un incidente. Il commento del Premier è “poteva restarsene a casa”; invece i galantuomini delle istituzioni osano molto di più, e non sorprende che a farlo per primo sia il vicepremier fascista, presente nella caserma in cui venivano torturati i manifestanti fermati: è legittima difesa spaccare la fronte a un ragazzo agonizzante a terra ed è legittima difesa schiacciarlo due volte con un defender, sparare in faccia con armi fuori ordinanza, figuriamoci, è degno di una medaglia, parole sue.
Nel 2001 Francesco Cossiga è senatore a vita ed è proprio lui a intervenire non interpellato quando una parte delle opposizioni presenta una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno dopo i tragici fatti di Genova; la cosa particolare è che Cossiga in aula non difende né il Ministro dell’Interno né il Premier né il Vicepremier ma se stesso: con un intervento furioso trova inammissibile la mozione di sfiducia in questione e rivendica la brutalità con la quale ordinò di agire nel 1977. A decenni di distanza, l’assassinio di Giorgiana Masi è motivo di vanto per il suo principale responsabile.
Oggi, a quarant’anni dal suo assassinio, una piccola strada intitolata a Giorgiana Masi è presente a Bassano in Teverina (VT) e in villa Pamphili a Roma (foto 5), dove la ragazza è ricordata insieme a varie antifasciste e donne eroiche della Repubblica Romana.
Checché ne dica l’ex Presidente della Repubblica, ministro degli Interni ai tempi della sua e di altre uccisioni di Stato, la targa su ponte Garibaldi riconosce Giorgina Masi come “vittima della violenza del regime” (foto 6).