ITALIA – Giorgiana Masi,vittima della violenza del regime.Roma, ponte Garibaldi, 12/5/1977

Di Andrea Zennaro

Non sorride ma il suo sguardo punta lontano, verso un futuro che non vedrà. Pur non essendo particolarmente bella, i suoi capelli lisci scuri le danno grazia. Con questa espressione si presenta la fanciulla, nell’unica fotografia nota con cui conosciamo il suo volto.

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È il pomeriggio del 12 maggio1977 quando una ragazza di diciannove anni cade a terra nei pressi di ponte Garibaldi a Roma. Tutti i soccorsi sono inutili. In un primo momento le cause del suo rapido decesso restano incerte, solo più tardi verrà notato il foro di un proiettile entrato nella sua schiena e fuoriuscito dall’addome. Nel frattempo i giovani intorno a lei continuano a correre senza meta, inseguiti, manganelli alla mano, dallo Stato, che colpisce anche dall’alto con una fitta pioggia di candelotti lacrimogeni. Giorgina Masi, meglio nota come Giorgiana, era uscita di casa quella mattina dicendo di star andando a una festa, anche se gli eventi di quella giornata erano alquanto prevedibili.

In piazza Navona si parla di femminismo e autodeterminazione, di aborto e divorzio, di parità sociale e libertà di scelta. L’iniziativa è stata indetta dal Partito Radicale per sfidare l’ordinanza imposta alla città dal sindaco Giulio Carlo Argan che vieta qualsiasi manifestazione pubblica in seguito agli scontri avvenuti il 12 marzo tra la polizia e il movimento, in particolare l’area dell’Autonomia, davanti alla sede centrale della Democrazia Cristiana.

Lo stesso Ministro dell’Interno Francesco Cossiga definisce il divieto illegale ed extra legem in quanto estrapolato non da una legge della Repubblica Italiana ma dal codice penale fascista, non riconosciuto dalla Costituzione del 1948. Quel 12 maggio un cartello, ironico ma neanche tanto, chiede ai militari schierati intorno alla piazza di non sparare sul pianista: tale è infatti l’aria che si respira nelle iniziative politiche da quando lo Stato ha inaugurato quella che è nota come “strategia della tensione”.

Commentare l’uccisione di una manifestante con le solite frasi – che in questi casi non mancano mai – del tipo “se l’è cercata” o “poteva starsene a casa o prestare più attenzione” non solo sarebbe semplicistico ed estremamente riduttivo, ma mancherebbe di rispetto a tutte le persone uccise da un regime contro il quale lottavano. Allo stesso modo non basta limitarsi a constatare quanto criminale sia stato l’operato delle cosiddette forze dell’ordine durante quella giornata: è necessario attribuire le responsabilità in modo corretto e soprattutto approfondire il contesto storico in cui l’assassinio è maturato.

Nessuna persona in buona fede ha mai sostenuto che si sia trattato di un incidente.

Negli anni ’70 la società italiana è in fermento. I sindacati riconoscono e tutelano soltanto chi ha un contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le nuove forme di lavoro sempre più frequenti. Le precarie e i precari, i disoccupati e le disoccupate, di conseguenza, non credono più nelle istituzioni in cui invece avevano creduto le generazioni precedenti.

L’estensione della scuola dell’obbligo e l’apertura dell’università a chiunque, indipendentemente dalla scuola superiore frequentata, fanno sì che l’università, prima riservata a un’élite, diventi di massa, esasperando l’agitazione studentesca: gli atenei non raccolgono più i figli della ricca e media borghesia ma l’intera società giovanile con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, diventando così il luogo di concentramento di disagi ben più grandi. Inoltre, le facoltà si ritrovano a essere, di fatto, anche sede di preparazione al lavoro salariato e precario, sfruttato ed estraneo alla rappresentanza sindacale. E per le istituzioni chi non è rappresentato costituisce un problema non politico o sociale ma solo di ordine pubblico. Diversamente dal Sessantotto, non sono intellettuali e studenti privilegiati a criticare la società, ad assaltare i centri della cultura, ma la parte più disagiata e meno riconosciuta della società, tagliata fuori dalla società stessa: la fantasia del decennio precedente lascia spazio a frustrazione e rabbia.

L’altro fattore di novità consiste nel fatto che le prime agitazioni studentesche scoppiano al Sud. Quando la riforma Malfatti diminuisce la possibilità di ripetere gli appelli d’esame e pone forti restrizioni al diritto degli studenti di scegliere liberamente quali corsi inserire nel piano di studi, le università già in fermento esplodono. La circolare Malfatti non è stata la causa determinante delle lotte ma solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scintilla su una polveriera già da tempo pronta ad incendiarsi.

Giorgiana vede un’Italia in fermento in cui i diritti individuali aumentano.

Nel 1974 un referendum sancisce il diritto al divorzio, nonostante la forte contrarietà della Chiesa e della DC. Pochi anni dopo venne il diritto all’aborto: la maternità deve essere una scelta consapevole e non un obbligo. Per il movimento femminista e per le donne in generale è una vittoria mai vista, inimmaginabile fino a poco prima.

È bene ricordare che il movimento del ‘77 è ostile non solo al governo democristiano ma anche e soprattutto al principale “partito non di maggioranza” (sarebbe fuori luogo definirlo partito di opposizione). Nel 1972 alla segreteria del PCI viene eletto Enrico Berlinguer, con cui il Partito cambia totalmente volto. In uno dei suoi primi discorsi da segretario, Berlinguer dichiara che la spinta propulsiva data dalla Rivoluzione del lontano ottobre 1917 è ormai finita e che c’è bisogno dunque di un’energia nuova. Il PCI, filosovietico ma non antagonista al sistema liberale, apre le trattative con il governo: il comunismo è messo in soffitta sostituito da una blanda socialdemocrazia. La CGIL, sindacato fedele al PCI, preme per calmare le spinte rivoluzionarie ancora presenti nelle fabbriche e nelle università, smettendo di fatto di guidarne le lotte.

In generale si potrebbe dire che la forma Partito, nata in Italia all’inizio degli anni ’20, egemone durante la Resistenza e ancora funzionante negli anni ’50, dopo il Sessantotto abbia smesso di funzionare e negli anni ’70 si sia ritrovata a essere come una scarpa troppo stretta rispetto ai piedi cresciuti di una società che si evolve rapidamente.

Abbandonati gli ideali rivoluzionari che avevano prima dato vita al PCI subito dopo il biennio rosso e poi animato gran parte della Resistenza contro il Nazifascismo, non riuscendo a ottenere alcuna maggioranza parlamentare per via elettorale pur crescendo nei sondaggi, il partito di Berlinguer cambia strategia cercando di avvicinarsi a posizioni di governo tramite accordi interpartitici. Il cosiddetto compromesso storico, noto anche come “governo della non-sfiducia” o “delle astensioni”, consiste in un governo “monocolore” (cioè monopartito) della DC reso possibile grazie all’astensione del PCI alla Camera, che non vota contro la fiducia al governo Andreotti per garantirsi un maggior peso istituzionale.

È chiaro che nel 1977 il PCI sia ormai un partito filogovernativo e quasi conservatore, ma in quanto forza egemone della sinistra, non può tollerare di essere deriso e non rispettato proprio da sinistra. Il PCI, scavalcato da questo nuovo movimento incontrollabile che non riesce a imbrigliare, non manca mai occasione di ripetere che chi occupa le università (e l’Autonomia in particolare) è estraneo alla legalità e quindi alla democrazia e che i raduni di giovani militanti sono solo covi di violenza, delinquenza comune e addirittura squadrismo quasi fascista.

La sfiducia di studenti e futuri precari versi il partito e il sindacato in cui le persone più anziane avevano creduto finisce per dar vita a un conflitto senza precedenti in cui la generazione protagonista della Resistenza si sente tradita da quella successiva che a sua volta si vede tagliata fuori da istituzioni obsolete.

Non c’è da stupirsi, quindi, che il Partito accusi pesantemente chi non crede nella legalità dello Stato repubblicano, né tanto meno che ragazzi e ragazze abbandonino le sezioni di partito per cercare rifugio altrove.

Del resto, gli artefici della guerriglia partigiana, cresciuti sotto il regime ed educati dalla scuola gentiliana a non disdegnare le figure autoritarie, vedevano molto più di buon occhio il rigore del Partito che la stravagante libertà del movimento. E il principale cavallo di battaglia della retorica vicina al PCI è sempre stato il mito dell’epopea partigiana. Quando a Bologna i carabinieri uccidono Francesco Lorusso, venticinquenne militante di Lotta Continua, il PCI indice un presidio sotto il monumento ai caduti della Resistenza per celebrare non un ragazzo ucciso, ma la legalità dello Stato; quando gli studenti occupano l’università di Roma, è proprio il segretario della CGIL, legata al PCI, a dar vita alla provocazione che conduce allo sgombero dell’università, ammettendo egli stesso che il fine di tale operazione è quello di riportare l’ordine e mettere fine alle agitazioni per “ripristinare la vita democratica e legalitaria all’interno dell’Ateneo”; quando gli studenti reagiscono alla provocazione e lo cacciano, i mezzi d’informazione legati al Partito sottolineano con insistenza che Luciano Lama è stato partigiano; quando viene uccisa Giorgiana Masi, il PCI si limita a tacere, continuando a votare la “non-sfiducia” al governo. L’apice di questo scontro avviene a Bologna in quanto storico baluardo del PCI e al tempo stesso città universitaria, quindi teatro della più grande incompatibilità sociale e generazionale.

Dopo aver lasciato a terra una ragazza, i manifestanti continuano la fuga disperata e le truppe proseguono il loro feroce inseguimento. Smarrito nella confusione e accecato dai gas lacrimogeni, un fotografo trentacinquenne vaga per il centro di Roma con la sua Leica sempre al collo. È uno dei pochi che ha mostrato ciò che nessuno ha voluto vedere, regalando alla Storia testimonianze fondamentali e di rara bellezza.

La sera stessa il Ministro dell’Interno dichiara di non aver mandato nessun agente in borghese nel corteo. Dichiara inoltre che non sono state usate armi da fuoco per l’attività di ordine pubblico. Dunque Giorgiana Masi risulta uccisa da una pallottola vagante sparata dai manifestanti in direzione delle forze dell’ordine. E questi, sicuramente autonomi ed evidentemente distratti, non hanno notato che in mezzo tra loro e il bersaglio vi erano altri manifestanti in corsa, tra cui la ragazza colpita.

È la versione ufficiale del Ministero.

Servirebbe poi un esperto di fisica fantascientifica per spiegare come mai una pallottola sparata da davanti l’abbia colpita alla schiena.

Un’immagine mai pubblicata dai quotidiani mostra un uomo in borghese con una pistola in mano mentre riceve istruzioni da un superiore e alle spalle ha un gruppo di uomini armati e in divisa difficilmente riconducibili all’Autonomia.

(foto 2)

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Così un fotografo ha palesemente smentito un ministro. La sua stessa Leica ha testimoniato la frettolosa violenza degli uomini in divisa: è un’immagine molto potente che richiama il mondo classico: gli uomini armati sullo sfondo fanno capire di cosa si parla, mentre lo sguardo disperato e intenso delle ragazze in primo piano mostra la tragicità della scena.

(foto 3)

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Accostare la bellezza e la pena, la grazia e la brutalità, è uno strumento efficace e fastidioso, di certo non gradito dal signor Ministro.

Un’altra immagine dello stesso autore mostra la determinazione delle donne che sotto una pioggia battente porgono l’ultimo saluto alla loro sorella “uccisa dalla violenza del regime”, come recita la targa in memoria di Giorgiana Masi presso ponte Garibaldi.

(foto 4)

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Le foto di Tano D’Amico sono importanti per rileggere gli ultimi decenni in quanto mostrano la bellezza, la grazia, la poesia dei volti e delle istanze di chi non dovrebbe averne, di chi l’Unità avrebbe preferito descrivere come teppista scalmanato attraverso immagini brutte e prive di significato. Quelle immagini sono sempre state tenute nascoste perché non si pensasse che le invadenti femministe avessero qualche ragione, che i cattivissimi autonomi si scontrassero con un Partito in cui era vietato avere dubbi, che gli stravaganti indiani metropolitani non facessero poi così schifo. Sono foto, quelle di Tano D’Amico, che non hanno bisogno di didascalie, che colpiscono e restano nell’eternità, diversamente da quelle dei giornali, che vivono un giorno solo per poi scomparire nel nulla senza lasciare segni nella memoria, fagocitate dall’oblio collettivo.

Nel 2001 un enorme movimento internazionale viene schiacciato dalla repressione.

A Genova i carabinieri uccidono un ragazzo di ventitré anni: prima uno sparo in faccia, poi una jeep dell’arma lo schiaccia due volte ancora vivo, e infine il colpo di grazia è un sasso che gli spacca la fronte per mano di un uomo in divisa. Ci vuole una buona dose di coraggio e immaginazione per sostenere che si sia trattato di un incidente. Il commento del Premier è “poteva restarsene a casa”; invece i galantuomini delle istituzioni osano molto di più, e non sorprende che a farlo per primo sia il vicepremier fascista, presente nella caserma in cui venivano torturati i manifestanti fermati: è legittima difesa spaccare la fronte a un ragazzo agonizzante a terra ed è legittima difesa schiacciarlo due volte con un defender, sparare in faccia con armi fuori ordinanza, figuriamoci, è degno di una medaglia, parole sue.

Nel 2001 Francesco Cossiga è senatore a vita ed è proprio lui a intervenire non interpellato quando una parte delle opposizioni presenta una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno dopo i tragici fatti di Genova; la cosa particolare è che Cossiga in aula non difende né il Ministro dell’Interno né il Premier né il Vicepremier ma se stesso: con un intervento furioso trova inammissibile la mozione di sfiducia in questione e rivendica la brutalità con la quale ordinò di agire nel 1977. A decenni di distanza, l’assassinio di Giorgiana Masi è motivo di vanto per il suo principale responsabile.

Oggi, a quarant’anni dal suo assassinio, una piccola strada intitolata a Giorgiana Masi è presente a Bassano in Teverina (VT) e in villa Pamphili a Roma (foto 5), dove la ragazza è ricordata insieme a varie antifasciste e donne eroiche della Repubblica Romana.

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Checché ne dica l’ex Presidente della Repubblica, ministro degli Interni ai tempi della sua e di altre uccisioni di Stato, la targa su ponte Garibaldi riconosce Giorgina Masi come “vittima della violenza del regime” (foto 6).

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ITALIA – La Liberazione taciuta

Negli anni del secondo conflitto mondiale le italiane hanno messo in gioco le loro vite e capovolto un sistema di valori: chiamate a far fronte alle assenze maschili nelle attività quotidiane private e pubbliche, sono uscite di casa spalancando le porte al futuro.

Occupate nei campi e nelle fabbriche, impegnate nel reperimento di generi alimentari, operose nelle azioni di soccorso e cura, non hanno esitato a impugnare le armi.

Protagoniste della Resistenza, e non solo comparse, non portavano divise, né enfatizzavano le loro azioni, ma sostenevano combattenti, feriti, prigionieri, in una sorta di “maternage di massa”. Nelle loro mani era il mercato nero e buona parte della gestione economica e materiale della vita partigiana: procuravano il denaro e distribuivano armi, vestiti, cibo o medicine.

Cresceva nel contempo la loro politicizzazione personale e collettiva, espressa attraverso agitazioni in fabbrica, adesione a gruppi organizzati e partiti, diffusione clandestina e infine produzione autonoma di stampa (nel luglio del’44, Napoli liberata pubblica il primo numero legale di Noi donne).

Le partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della donna: 4.653 furono arrestate e torturate, 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Nel dopoguerra, l’impostazione maschilista della società, sostanzialmente immutata rispetto al modello precedente, non ha dato loro il giusto riconoscimento.

Nel tentativo di richiudere le porte aperte e soffocare il cambiamento, gli uomini hanno voluto intendere la partecipazione femminile alla Resistenza come manifestazione di senso materno e di pacifismo innato: nell’immaginario collettivo, anche la staffetta andava ricondotta al ruolo di infermiera. Escluse dalle sfilate della vittoria, invitate a rimuovere e a tacere, molte piccole e grandi protagoniste della storia smisero di raccontare.

Alla loro memoria dedichiamo il fotoreportage del 25 aprile.

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Milano

PIAZZALE DONNE PARTIGIANE

Foto di Nadia Boaretto

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Roma

VIA IRIS VERSARI (1922–1944)

Foto di Sara Caponera

Staffetta della formazione partigiana di Tredozio, fece parte della banda di Silvio Corbari al quale era legata sentimentalmente. Diverse e clamorose furono le azioni condotte assieme ai compagni. Ferita durante uno scontro coi tedeschi, decise di uccidersi piuttosto che cadere in mani nemiche. E’ stata insignita della Medaglia d’Oro al V.M.

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Garlasco

VIA GISELLA FLOREANINI (1906-1993)

Foto di Roberta Martinotti

Legata già dagli anni ’30 ai gruppi di Giustizia e Libertà e al PCI divenne, grazie alle sue doti organizzative, un punto di riferimento per la Val d’Ossola. Nel febbraio 1945 fu nominata Presidente del CLN provinciale e trattò la resa dei nazifascisti nei giorni dell’insurrezione. Dopo la guerra fu parlamentare, dirigente dell’UDI e dell’Anpi e membro della Federazione Internazionale della Donna.

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Aosta

VIALE AURORA VUILLERMINAZ (1922-1944)

Foto di Marinella Govenale

Aurora Vuillerminaz dal luglio 1944 si dedicò interamente alla lotta partigiana entrando nella banda A. Verraz, operante nella valle di Cogne. Assunse l’incarico di staffetta creando collegamenti tra la Val d’Aosta e la vicina Svizzera. Al ritorno da una missione fu arrestata e, non avendo rivelato alcuna informazione, affrontò con coraggio la fucilazione.

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Trento

VIA CLORINDA MENGUZZATO “VEGLIA” (1927 – 1945)

foto di Livia Stefan

Infermiera e staffetta partigiana militò, con il nome di battaglia Garibaldina prima e Veglia poi, nel battaglione Gherlenda operante nel Trentino; fu catturata dai nazisti, violentata, fatta azzannare da cani feroci e fucilata. E’ stata insignita della Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria.

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Olbia

VIA JOYCE LUSSU (1912-1988)

Foto di Enrico Grixoni

La famiglia fuggì all’estero nel 1924 a causa delle violenze squadriste subite. Nel 1932 il fratello fu arrestato: Joyce iniziò a diffondere stampa antifascista e accettò diverse missioni clandestine. Una di queste la portò a conoscere il marito Emilio. Nel dopoguerra si legò alla militanza di base in Sardegna, promosse l’UDI, militò nel PSI e tradusse poesie terzomondiste.

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Ragusa

ROTONDA MARIA OCCHIPINTI (1921-1996)

Foto di Rosa Perupato

A Ragusa, nel gennaio del 1945, Maria, 23 anni e incinta di cinque mesi, si stende davanti un camion militare carico di giovani rastrellati da un quartiere popolare, con l’intento di agevolarne la fuga e la diserzione. Viene condannata al confino e al carcere. Finita la guerra viaggerà all’estero stabilendosi infine a Roma, avvicinandosi prima al PCI e poi agli anarchici.

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Genova

VIA TEA BENEDETTI (1930-2000)

Foto di Rossella Sommariva

Proveniente da una famiglia operaia di Rivarolo, divenne staffetta partigiana molto giovane. Dopo la guerra fu sindacalista, assessora in Comune, presidente della Croce Verde di Sestri, inoltre fece parte del Consiglio Comunale di Genova per 21 anni (dal 1976 al 1997), distinguendosi per il suo spirito di servizio.

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Trieste

VIA RITA ROSANI (1920- 1944)

Foto di Lucio Perini

“Vuiatri gavi voia schersàr!”. Con queste parole, dopo averle vanamente proposto di tentare la fuga coperta da una loro sortita diversiva, i combattenti della formazione “Aquila”, sorpresi da un rastrellamento nel loro rifugio in Val Policella, videro uscire a combattere la loro compagna Rita Rosani, ventiquattrenne ebrea triestina. Fu subito catturata e uccisa da un sottotenente repubblichino.

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Napoli

VIA VERA LOMBARDI (1904-1995)

Foto di Rita Ambrosino

Nata nel 1904 in una famiglia di tradizioni socialiste, Vera partecipò agli incontri clandestini di antifascisti, durante i quali scambiava libri e materiali clandestini. Dopo la guerra rimase protagonista della vita culturale e politica napoletana: è stata per anni presidente dell’Istituto campano per la Resistenza che, dopo la sua morte, le è stato intitolato.

 




ITALIA – Foibe: per cinquant’anni il silenzio della storiografia

È in queste voragini dell’Istria, cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo, che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.

La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del terrore titino che riuscì a uscire da una foiba. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico, è la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.

Nel febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia  accoglienza. Non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è la ragione per cui il PCI non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il PCI a lasciar cadere l’argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci, la stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati “cittadini di serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d’altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l’occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco.

Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta, “perché – ricorda ancora Sabbatucci – è stata ignorata per molto tempo”. Il 10 febbraio del 2005 il Parlamento italiano ha dedicato la giornata del ricordo ai morti nelle foibe. E’ iniziata solo da un decennio l’elaborazione di una delle pagine più angoscianti della nostra storia.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Montecitorio durante la giornata del ricordo degli italiani gettati nelle cavità carsiche:

“Il Parlamento con decisione largamente condivisa ha contribuito a sanare una ferita profonda nella memoria e nella coscienza nazionale”. Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato le vittime delle foibe e l’esodo degli italiani giuliano -dalmati nel corso del Giorno del Ricordo, celebrato a Montecitorio. “Per troppo tempo – ha aggiunto il Presidente – le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia”.

Alla celebrazione è intervenuta anche il presidente della Camera Laura Boldrini, che ha parlato di “un debito” italiano verso le vittime e “di una violenza brutale” rispetto alla quale “dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato o teso a oscurare la verità”. Il Giorno del Ricordo è stato istituito nel 2004 per ricordare le oltre diecimila vittime gettate nelle cavità carsiche ai confini orientali del nostro Paese tra il 1943 e il 1945 per ordine del dittatore jugoslavo Tito intenzionato a ‘slavizzare’ territori che erano stati a lungo italiani, come l’Istria e Fiume. Nel suo intervento, Boldrini ha lamentato che questo oblio sia stato dovuto “per calcoli diplomatici o convenienze internazionali”. Quella tragedia, ha detto fra l’altro la presidente della Camera, “è un monito per il passato e per il futuro: contro l’intolleranza, le dittature, le guerre e ogni tendenza a nascondere la verità”. Durante la celebrazione, che si è svolta nella sala della Regina della Camera dei deputati, Mattarella ha consegnato i premi alle scuole vincitrici del concorso nazionale ‘La Grande Guerra e le terre irredente dell’Adriatico orientale nella memoria degli italiani’, promosso dal Miur.