Quando i sudditi scelgono, scappano come conigli

Una scelta vile: la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione invece di dare il proprio apporto al superamento dell’impasse che ha bloccato il mercato. Il referendum sulla Brexit si chiude con il “Leave” che vince 51,9% a 48,1% , ribaltando il primo sondaggio che dava il fronte del “sì” (Remain) al 52% e quello del “no” (Leave) al 48%. Per la Brexit hanno votato 17.410.742 elettori mentre per restare nell’Ue i voti sono stati 16.141.241. L’affluenza al referendum viene fissata al 72,2%. Il primo ministro David Cameron, paladino del fronte dei “Remain”, ha annunciato che si dimetterà, anche se non nell’immediato.

Scozia, Irlanda del Nord e anche Londra hanno votato largamente per restare, il Galles e il resto d’Inghilterra per l’uscita. In particolare nell’Irlanda del Nord il “Remain” ha vinto con il 55,8% a fronte di un 44,2% attribuito al “Leave”. In Galles il “Leave” ha ottenuto il 52,5% battendo il “Remain”, fermatosi al 47.5%. In Scozia il no alla Brexit ha prevalso col 62,0% mentre per l’uscita dall’Ue ha votato il 38,0% degli elettori. Un secondo dato interessante è quello che riguarda i giovani. Ben Riley-Smith – firme di punta del Telegraph- analizza il sondaggio che arriva da YouGov e che testimonia la frattura generazionale che si è creata nelle urne. Il 75% degli under 24 ha votato contro la Brexit. Il 56% degli under 49 ha fatto lo stesso. Sono gli ultracinquantenni — e in particolare gli ultrasessantacinquenni — ad aver votato in maggioranza per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

Una decisione interessata dettata da un’egoistica prudenza che cercando di evitare un dispiacere ne causerà di più grossi.

A cominciare dalla notte drammatica del venerdì nero: in una sola giornata l’Europa ha bruciato 411 miliardi di euro. In mattinata a Milano riesce a far prezzo solo il titolo Recordati che perde subito il 9%. E’ il preludio della peggior seduta di Piazza Affari che chiude a -12,48%, brucia 61 miliardi tornando ai minimi dal 2013: si tratta della maggiore perdita da quando è possibile ricostruirne a ritroso l’andamento, dal 1994. Dopo il crac di Lehman il Ftse Mib segnò un crollo dell’8,24% il 6 ottobre 2008, mentre l’11 settembre 2001 aveva perso il 7,57%.

A pagare lo scotto maggiore sono le banche che solo a fatica riescono a fare prezzo: quando Bpm apre il rosso teorico è del 35%, poi ritraccia, ma le vendite sono pesanti e oltre il 20% come per Unicredit e Intesa Sanpaolo. A essere in ginocchio è l’intero comparto creditizio europeo. Francoforte perde il 6,82% peggio di Londra (-3,15%), ma meglio di Parigi (-8,04%). Effetto Brexit anche su Wall
Street: quando chiudono i mercati europei il Dow Jones che perde il 2,6% e il Nasdaq il 2,7%. In profondo rosso anche l’indice S&P500 che cede il 3,1% dopo aver registrato la peggior apertura dal 1986.

In mattinata Tokyo ha perso il 7,92% archiviando la peggior seduta dall’incidente nucleare di Fukishima. Per evitare danni maggiorni, il Giappone ha deciso l’applicazione del ‘circuit breaker’, il dispositivo che inibisce le funzioni di immissione e modifica degli ordini, limitando i ribassi troppo elevati. Un meccanismo che potrebbe essere utilizzato anche da Borsa italiana che sarebbe pronta a restringere la forchetta di oscillazione dei titoli, per contenere il flusso di vendite.

A terrorizzare gli analisti è anche il percorso travagliato che sancirà il divorzio tra Londra e Bruxelles perché serviranno almeno due anni di negoziati che alimenteranno solo le incertezze. “Brexit può essere la nuova Lehman” dice Vincenzo Longo, analista di Ig Markets. Gli addetti ai lavori si augurano un divorzio che minimizzi il danno economico a tutto quelli che subiranno l’impatto del Brexit. “La Gran Bretagna soffrirà ma sono sicuro che si focalizzerà ancora di più ora sulla competitività della sua economia nei confronti dell’Ue e del mondo in generale” dice Tom Enders, l’amministratore delegato del gruppo aeronautico europeo Airbus Group.

A soffrire sono soprattutto le valute con la sterlina che dopo un avvio iniziale trionfante sulla scia dei sondaggi (volata ai massimi dal 2015, sfiorando gli 1,50 dollari), è crollata nella notte man mano che arrivavano i dati del vantaggio del “leave” dalla Ue, segnando un calo del 8% sul dollaro e chiudendo a 1,36 dopo essere arrivata a quota 1,32: un crollo che ha superato quello del 1985. Le fluttuazioni della sterlina andranno negli archivi come le più forti di sempre. La perdita nel giorno del referendum aveva già superato quella del “mercoledì nero” del 1992, quando la crisi valutaria spinse la Gran Bretagna fuori dal Sistema monetario europeo. L’euro chiude in calo a 1,1124 dollari e 113,28: gli acquisti si concentrano quindi sulla moneta giapponese, bene rifugio che passa di mano a quota 102,01 sul biglietto verde dopo aver toccato un massimo dal novembre 2013 a 99 yen.

Tempesta anche sui titoli di Stato: lo spread, la differenza di rendimento, tra Btp e Bund tedeschi si è ampliato fino a 185 punti base dalla chiusura a quota 130 punti per poi ritracciare a quota 159 con il decennale italiano che rende l’1,55%, mentre il tasso del bund è piombato al minimo record di -0,17% per poi risalire a -0,046%. A sostenere le quotazioni è soprattutto l’intervento della Bce.
La Brexit affonda la sterlina. Sotto pressione anche l’euro
Immediato l’effetto sulle materie prime: mentre il petrolio è in calo e cede oltre il 6% a 47 dollari per il barile Wti e il Brent perde poco meno (il 5,95%) a 47,88 dollari, corre l’oro, considerato il bene rifugio per eccellenza. Le quotazioni del metallo giallo, forti da giorni, salgono del 7,8% ai massimi dal 2008.

A questo punto l’attenzione è tutta rivolta verso le banche centrali. Haruhiko Kuroda, numero uno della Boj, la banca giapponese, ha assicurato che lavorerà a stretto contatto con gli altri governatori centrali per stabilizzare i mercati. In particolare, i banchieri stanno pensando di utilizzare – come già accaduto durante la crisi del 2008 – un accordo di “currency swap” che permetterebbe alla banche centrali di rifornirsi di dollari presso la Federal Reserve mantenendo poi invariato il tasso di cambio al momento della chiusura dell’operazione: in questo modo l’oscilazzione delle valute sarebbe limitata. Anche la Banca d’Inghilterra è intervenuta spiegando che farà “tutto il necessario per assicurare la stabilità dei mercati”.

Sterlina a picco, borse in caduta libera, la Gran Bretagna non ha saputo nemmeno fare la parte del leone. Squilla già la tromba del dietrofont: una nuova petizione online chiede a gran voce di ripetere la consultazione. Una legge prevede che quando almeno 100mila persone firmano una petizione il Parlamento debba prendere in considerazione la proposta. La soglia è stata ampiamente superata nel giro di poche ore. Il traffico online è talmente intenso, che spesso è impossibile accedere al sito web dedicato.

Nello specifico, i firmatari chiedono la promulgazione di una nuova legge che prescriva la ripetizione del referendum in caso di un risultato con un margine di vantaggio del “Leave” inferiore al 60% e che abbia come condizione minima l’affluenza alle urne di almeno il 75%.

Secondo David Alan Green, blogger e opinionista del Financial Times e del New Statesman, l’unica possibilità per fermare le procedure di attivazione della clausola dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona (che prevede l’uscita dall’Unione Europea) è la possibilità di fare un nuovo referendum. Una prospettiva che potrebbe diventare realtà entro il 2018, anno in cui la Brexit avrà i suoi effetti. Ma secondo l’Indipendent, il Parlamento e il governo rifiuteranno la proposta. «Ripetere un referendum non è il genere di cose che vengono prese in considerazione», scrivono in un articolo online.

Sul sito web è disponibile anche una mappa dei firmatari della petizione. Le zone attorno a Londra sono quelle con la maggior concentrazione di firmatari.




USA – E’ polemica sulle trivelle in mare

Mentre il governo italiano toglie la data di scadenza alle concessioni entro le 12 miglia, gli USA riducono il campo d’azione delle trivelle in mare.

Anche negli Stati Uniti infuria la polemica politica sulle trivelle e le estrazioni di idrocarburi in mare. Mentre l’Italia non cancella il regalo del governo Renzi alle concessioni petrolifere entro le 12 miglia, l’amministrazione Obama ha varato  le nuove regole per le perforazioni al largo delle coste USA. La motivazione è semplice: evitare un nuovo disastro ambientale come quello causato dall’esplosione, nel 2010, della piattaforma Deepwater Horizon della BP.
Le nuove norme, secondo l’industria petrolifera, avranno impatti per 31,8 miliardi di dollari sul settore, mettendo in pericolo 50 mila posti di lavoro. Il Dipartimento degli Interni, che ha deciso di rendere obbligatori gli standard, stima i costi di adeguamento degli impianti in meno di 1 miliardo e ha insistito sul fatto che la produzione di petrolio nel Golfo del Messico «è una componente fondamentale del portafoglio energetico della nostra nazione». In realtà, rappresenta il 16% della produzione totale di petrolio degli Stati Uniti e il 5% della loro produzione di gas naturale domestico.

I regolamenti varati dall’amministrazione USA, sostanzialmente, aumentano il monitoraggio dei pozzi e il controllo e manutenzione delle piattaforme. In particolare, i nuovi e più stringenti standard vengono applicati al blowout preventer, dispositivo utilizzato durante la perforazione di un pozzo che ha il compito di metterlo in sicurezza nel caso i fluidi dovessero accidentalmente migrare all’esterno.
L’industria ha avvertito che quasi i due terzi dei pozzi perforati nel Golfo del Messico dal 2010 non soddisfano i nuovi standard. Ma dovranno adeguarsi: nessuno ha voglia di vedere un altro cataclisma nelle acque dell’Atlantico. Secondo una nuova analisi dell’impatto di quel disastro, prodotta dalla ONG Oceana, fino a 800 mila uccelli marini e un gran numero di delfini e balene sarebbero morti a causa della fuoriuscita del petrolio. Molti altri hanno sofferto di problemi riproduttivi per anni, e una superficie corallina delle dimensioni di Manhattan è stata danneggiata.
Oceana dichiara che «l’apertura di nuove aree di perforazione in mare aperto comporta rischi inaccettabili. Non dovremmo espandere la perforazione nelle acque statunitensi o utilizzare tecnologie devastanti come l’airgun, che può compromettere la vita marina».




ITALIA – I NoTriv scrivono il vademecum per il referendum del 17 aprile

Il prossimo 17 aprile si terrà un referendum popolare. Si tratta di un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto e che la maggioranza dei votanti si esprima con un “Sì”. Hanno diritto di votare al referendum tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età. Votando “Sì” i cittadini avranno la possibilità di cancellare la norma sottoposta a referendum. Dove si voterà? Si voterà in tutta Italia e non solo nelle Regioni che hanno promosso il referendum. Al referendum potranno votare anche gli italiani residenti all’estero. Quando si voterà? Sarà possibile votare per il referendum soltanto nella giornata di domenica 17 aprile. Cosa si chiede esattamente con il referendum del 17 aprile 2016? Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane. Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare “Sì” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni. Qual è il testo del quesito? Il testo del quesito è il seguente: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per 2 la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?». È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei “Sì” il risultato venga poi “tradito”? A seguito di un eventuale esito positivo del referendum, il Parlamento o il Governo non potrebbero modificare il risultato ottenuto. La cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum è chiaro e mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque. È vero che se vincesse il “Sì” si perderebbero moltissimi posti di lavoro? Un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, ogni attività petrolifera in corso. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati alle urne il prossimo 17 aprile, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre. L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe opportuno, al contrario, investire nella ricerca degli idrocarburi e incrementare l’estrazione di gas e petrolio? L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale. Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano: portarlo via o magari rivendercelo.  Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty. Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro. Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia? Secondo le ultime stime del Ministero dello Sviluppo Economico effettuate sulle riserve certe e a fronte dei consumi annui nel nostro Paese, anche qualora le estrazioni petrolifere e di gas fossero collegate al fabbisogno energetico nazionale, le risorse rinvenute sarebbero comunque esigue e del tutto insufficienti. Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 8 settimane. La ricchezza dell’Italia è, in verità, un’altra: per esempio il turismo, che contribuisce ogni anno circa al 10% del PIL nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro; la pesca, che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce circa il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000 persone; il patrimonio culturale, che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1 milione e 400.000 persone, con un fatturato annuo di circa 40 miliardi di euro; il comparto agroalimentare, che vale l’8,7% del PIL, dà lavoro a 3 milioni e 300.000 persone con un fatturato annuo di 119 miliardi di euro e che nel solo 2014 ha conosciuto l’esportazione di prodotti per un fatturato di circa 34,4 miliardi di euro; e soprattutto la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di piccole e medie “industrie” (e, cioè, il 99,8% del totale delle industrie italiane), e che costituisce il vero motore dell’intero sistema economico nazionale: tali imprese assorbono l’81,7% del totale dei lavoratori del nostro Paese, generano il 58,5% del valore delle esportazioni e contribuiscono al 70,8% del PIL. Il solo comparto manifatturiero, che conta circa 530.000 aziende, occupa circa 4,8 milioni di addetti, fattura 230 miliardi di euro l’anno, equivalente al 13% del PIL nazionale, e contribuisce al totale delle esportazioni del Made in Italy nella misura del 53,6%. Però gli italiani utilizzano sempre di più la macchina per spostarsi. Non è un controsenso? Ciò che si estrae in Italia non è necessariamente destinato alla produzione del carburante per le autovetture ed ancor meno per quelle in circolazione nel nostro Paese. Ad ogni modo, gli italiani si trovano spesso costretti ad utilizzare l’auto di proprietà. A fronte di un sistema di trasporti pubblici gravemente lacunoso non hanno praticamente scelta. In alcuni Paesi del Nord Europa l’utilizzo dell’auto privata è spesso avvertito come un “peso” e ritenuto economicamente non vantaggioso. Le cose andrebbero diversamente se si perseguisse una seria politica dei trasporti pubblici. Secondo l’Unione europea, rispetto agli altri Stati membri, l’Italia è al riguardo agli ultimi posti.

Cosa ci si attende? Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia a disposizione dei cittadini italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 185 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo. È necessario, nel frattempo, affrontare il problema della transizione energetica, puntando anche sul risparmio e sull’efficienza energetica e investendo da subito nel settore delle energie rinnovabili, che potrà generare progressivamente migliaia di nuovi posti di lavoro. Il tempo delle fonti fossili è scaduto: è ora di aprire ad un modello economico alternativo. Perché questo referendum? Per tutelare i mari italiani, anzitutto. Il mare ricopre il 71% della superficie del Pianeta e svolge un ruolo fondamentale per la vita dell’uomo sulla terra. Con la sua enorme moltitudine di esseri viventi vegetali e animali – dal fitoplancton alle grandi balene – produce, se in buona salute, il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe fino ad 1/3 delle emissioni di anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche. La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare: la ricerca del gas e del petrolio attraverso la tecnica dell’airgun incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica può elevare il livello di stress dei mammiferi marini, può modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario. Ricerca e trivellazioni offshore costituiscono un rischio anche per la pesca. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo. Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.




Salviamo il mare nostrum e anche quello degli altri: i No Triv a Bari

E’ trascorso quasi un anno da quando sette capodogli si sono arenati  sulla spiaggia di Vasto, nella riserva di Punta Penna. Tre non ce l’hanno fatta mentre gli altri quattro sono riusciti via via a riguadagnare il largo con l’aiuto di diversi volontari, in azione con il sostegno del personale della Capitaneria di Porto e della protezione civile di Vasto.

I cetacei erano stati seguiti per qualche giorno nell’Adriatico dopo essere stati avvistati per la prima volta in Croazia.

E’ stato uno  dei disastri ambientali più pesanti della regione.  Non è difficile capire come siano giunti i capodogli fino a Vasto   scegliendo di andare a morire in una delle più belle spiagge d’Italia all’interno della riserva di Punta Aderci.

Dopo che i primi due capodogli sono stati aiutati a tornare in mare, al terzo che ha riguadagnato l’acqua alta è scattato un lungo applauso di centinaia di persone che hanno affollando la spiaggia. Sulla collina che domina la spiaggia all’interno della riserva di Punta Aderci in migliaia hanno “fatto il tifo” per i volontari che dalle 8 della mattina sono stati impegnati per consentire ai cetacei di riprendere il largo.

Tutti e sette erano di sesso maschile e facevano parte di un branco che era stato avvistato qualche giorno prima a largo dell’isola Vis, in Croazia. A dare manforte agli uomini della Capitaneria di Porto, della Protezione Civile di Vasto e di tanti volontari, sono giunti da Riccione anche i soci della Fondazione “Cetacea”.

Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti informato dello spiaggiamento dei sette capodogli è stato in costante contatto con il Reparto Marino Ambientale della Guardia Costiera, che ha coordinando le operazioni per cercare di salvare i cetacei.  E’ intervenuta anche l’Unità Speciale dell’Università di Padova diretta dal professor Mazzariol, che opera in convenzione con il Ministero dell’Ambiente proprio per i casi di spiaggiamento dei cetacei. Erano state inoltre allertate la “Banca Tessuti per Mammiferi”, diretta dal professor Cozzi dell’Università di Padova, la direzione generale per la sanità animale del Ministero della Salute e gli “Istituti Zooprofilattici Sperimentali”, coordinati dalla dottoressa Casalone.
Esperto, attività estrattive tra possibili cause.

“È un vero e proprio grido d’allarme, gravissimo in un bacino chiuso e di piccole dimensioni, che dovrebbe indurci a rivedere profondamente il nostro atteggiamento nei confronti del mare Adriatico”. Questo fu il primo commento del Wwf, secondo il delegato regionale per l’Abruzzo Luciano Di Tizio, dopo lo spiaggiamento di sette capodogli a Punta Aderci, a Vasto. “Il nostro pensiero, anche se è chiaramente da confermare, – sottolinea Fabrizia Arduini, referente energia per il Wwf Abruzzo – va all’intensa attività di ricerca geosismica attraverso l’air-gun da parte delle compagnie petrolifere, attualmente utilizzato soprattutto sulle coste dell’altra sponda dell’Adriatico.

L’air-gun è una pratica che per l’intensità di suono prodotto nel sottofondo marino diviene micidiale per i cetacei e non solo, come dimostra una ampia letteratura a riguardo”. Il Wwf spiega che “anche i sonar militari, in particolare quelli a bassa frequenza, hanno conseguenze devastanti per il mare e sono causa diretta di spiaggiamenti di massa e di emorragie per la risalita eccessivamente rapida degli animali spaventati da suoni mai sentiti in mare”. Le ricerche petrolifere, al di là del micidiale air-gun provocano danni anche con altre attività nel sito della not attivista ambientalista Maria Rita D’Orsogna, ad esempio, si legge che nel 2008 circa 100 balene si spiaggiarono e morirono lungo le coste del Madagascar in conseguenza, come venne acclarato da uno studio indipendente, di stimolazioni acustiche connesse appunto alla ricerca di giacimenti nel fondo marino. Basta progetti inerenti gli idrocarburi in mare Adriatico, basta fiumi che riversano quotidianamente veleni: facciamo appello alle forze politiche e a tutte le Regioni che si affacciano su questo mare perché si attivino immediatamente per avviare la tutela, concretamente e non a chiacchiere, di un fragilissimo ecosistema, fonte di vita di moltissime specie viventi compresa la nostra.

Nonostante le tante proteste, il governo Renzi, subito dopo le scorse elezioni regionali, ha deciso di dare il via libera alle ricerche di idrocarburi anche in Puglia. Dei 16 permessi di ricerca e prospezione rilasciati, ben 11 riguardano proprio le nostre coste.

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Le multinazionali del petrolio potranno così devastare i nostri mari, prima attraverso l’invasiva tecnica di ricerca denominata air-gun, successivamente attraverso l’estrazione del petrolio.

È inutile sottolineare il tremendo impatto che tale scellerata scelta avrà sulla bellezza dei nostri territori, sulla salute delle popolazioni, sull’economia e sul turismo locali.

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Qualche giorno fa un gruppo di attivisti di Greenpeace ha protestato pacificamente davanti alla piattaforma petrolifera offshore Sarago Mare A, posizionata a soli tre chilometri dalla costa di Civitanova Marche. Gli attivisti hanno steso a pelo d’acqua, proprio sotto la struttura gestita dalla Edison un grande striscione galleggiante con la scritta “STOP TRIVELLE”. Poi si sono finti turisti di un possibile futuro prossimo, in cui le vacanze balneari potrebbero svolgersi all’ombra delle piattaforme petrolifere. La protesta di Greenpeace fa parte della campagna TrivAdvisor (trivadvisor.greenpeace.it): in poche settimane, più di 43 mila persone hanno già firmato la petizione di Greenpeace per chiedere una radicale revisione della strategia energetica basata sull’estrazione di petrolio e gas dai fondali marini. Accordo all’unanimità tra le sei regioni Adriatiche di centro e meridione riunite a Termoli per ribadire il ‘no’ alle trivellazioni in mare. Dopo un’ora e mezzo di confronto governatori e assessori presenti (Abruzzo, Molise, Puglia, Marche, Basilicata e Calabria) hanno confermato la “contrarietà unanime” alle trivellazioni. Il 29 luglio ci sarà un primo incontro con il governo a Palazzo Chigi. Il Coordinamento delle regioni coinvolte si riunirà dopo il 18 settembre a Bari.

Il 28 luglio in piazza Eroi del mare, a Bari (Puglia), si terrà un’assemblea pubblica No triv per un confronto sulla situazione attuale e sulle proposte da mettere in campo per reagire al piano che vogliono propinarci come piano di sviluppo economico. Le trivellazioni rientrano, invece, in un preciso piano di devastazione del nostro territorio. Il profitto di pochi, come sempre, a danno di molti.




Masse di profughi e pirateria. I Jihadisti trafficano morte nel Mediterraneo

La notizia più terribile della settimana  è quella del peschereccio di soli 30 metri con più di 700 persone a bordo affondato a una settantina di chilometri a nord delle coste libiche, mentre era diretto verso la Sicilia.  Il peschereccio si sarebbe capovolto quando stava per essere raggiunto da una nave commerciale, la King Jacob, allertata dalla Guardia Costiera. Sono solo 28 i sopravvissuti. Più di due volte il naufragio di Lampedusa.

Ma l’indignazione nasce ricordando che la tragedia è in atto nell’indifferenza generale dall’inizio del 2015. Con l’Unione Europea che non trova motivi d’urgenza per modificare nè le limitazioni dell’operazione Triton (pattugliamento limitato alle acque di Schengen), nè gli accordi di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo.

I morti del Mediterraneo sono le vittime di una guerra feroce nella quale ci nascondiamo, dopo aver ceduto ai trafficanti di morte il monopolio sulle coste nordafricane e su vasti tratti del nostro mare.

Lo dimostra anche l’episodio del peschereccio siciliano che è stato attaccato e poi sequestrato da uomini armati che lo hanno abbordato con un grosso rimorchiatore. Il motopesca “Airone”, del compartimento marittimo di Mazara del Vallo si trovava a 30/40 miglia dalla costa della città libica di Misurata quando è stato dirottato verso il paese nordafricano. A dare l’allarme via radio alla Guardia costiera è stato un altro peschereccio siciliano che si trovava a poca distanza dall’Airone.

L’imbarcazione che ha abbordato il peschereccio non aveva contrassegni militari o simili.

Non è un caso isolato: per decenni motopescherecci italiani sono stati sequestrati dalle autorità di Tripoli, ma perché veniva contestato lo sconfinamento in acque territoriali libiche. Ora, però, il timore principale è che il motopesca possa essere stato sequestrato da miliziani jihadisti che controllano una parte del paese.

La Libia è stata terra di pirati dalla fine del Settecento, al punto che i Marines vi sbarcarono nel 1805 per un’incursione di terra ancora oggi ricordata nel loro inno, e può tornarlo perché la cattura di navi commerciali in transito è la forma più agile per trovare risorse. Basti pensare che davanti alle coste libiche passa il traffico marittimo che collega Gibilterra al Canale di Suez, ovvero l’Atlantico all’Estremo Oriente.

Le coste fra Derna e Sirte, area di insediamento jihadista, offrono facile riparo a possibili barchini che, sul modello degli Al Shabaab, potrebbero minacciare le rotte nel Mediterraneo Centrale trasformandosi in una fonte di auto-sostentamento per qualsiasi gruppo terroristico o clan criminale. Uno dei principi su cui si basa lo Stato Islamico è mantenersi con le risorse trovate in loco, come è nella tradizione delle tribù del deserto, e in Libia si tratta del mare e del greggio. Da qui lo scenario anche del possibile uso delle acque antistanti alla Libia per traffici illeciti di petrolio da vendere sul mercato nero e armi da importare da ovunque, in maniera analoga a quanto i jihadisti riescono attualmente a fare lungo il confine fra lo Stato Islamico – ex Siria-Iraq – e la Turchia di Recep Tayyp Erdogan.
Per questo è stato presentato  al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il rapporto di un gruppo di esperti che sostiene la necessità di una «forza marittima internazionale» per sorvegliare le coste libiche «visto che il governo in carica è impossibilitato a farlo». Lo scenario di un Golfo della Sirte in balia dei barchini-kamikaze dei jihadisti trasformato in piattaforma di traffici illegali di armi e petrolio nel Mediterraneo è una prospettiva da far tremare i polsi, divenuta reale a causa del collasso delle autorità di Tripoli e dell’insediamento lungo la costa di gruppi, clan, tribù e cellule di fedeltà diversa ma accomunate dalla volontà di aumentare i profitti.
È in tale cornice che l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati  ha avvertito l’Unione Europea sulla verosimile possibilità di un «aumento massiccio» dell’immigrazione clandestina dal Maghreb: se nel 2014 gli arrivi sono stati 220 mila il numero potrebbe moltiplicarsi per l’estensione delle aree di instabilità e l’aumentata capacità dei trafficanti di gestire i flussi.
È l’intero Mediterraneo a dover fare i conti con i pericoli libici.

Perchè l’Ue non agisce e consente stragi di massa voltandosi dall’altra parte?