Le visioni oniriche di Ana Juan

Pittura, scultura e in particolare illustrazione per libri e riviste: i campi d’azione in cui Ana Juan è attiva sono molteplici, ma in ognuno di essi è riconoscibile il suo stile assolutamente unico e inconfondibile.

Nata a Valencia nel 1961, si trasferisce a Madrid appena ventenne, agli inizi degli anni Ottanta, distinguendosi per la qualità del suo lavoro, che nel 2010 le farà vincere il prestigioso Premio Nazionale di Illustrazione (un riconoscimento conferito dal Ministero della Cultura Spagnolo).

In Italia è diventata famosa grazie alle splendide copertine realizzate per i libri di Isabelle Allende, ma in realtà, Ana Juan si muove in molti settori.

1. Copertine The New Yorker

Da un lato ci sono le collaborazioni con importanti riviste:  El Pais, El mundo e in particolare The New Yorker, per la quale ha realizzato più di venti copertine (tra cui una dedicata all’attentato alla sede della rivista francese Charlie Hebdo). Dall’altro, invece, c’è tutta la produzione di libri per bambine e bambini dove è evidente la varietà di stili e di temi che è in grado di padroneggiare.

Si passa da visioni oniriche e poetiche ad atmosfere oscure e angoscianti, da esplosioni di colore a tavole in bianco e nero, che l’artista ha ammesso di prediligere, in particolare per la possibilità di inserire dei dettagli colorati e creare così forti contrasti.

I protagonisti delle sue illustrazioni sono sempre presentati nell’incredibile molteplicità dei propri stati d’animo, espressi attraverso i loro corpi.

È proprio da questi ultimi che si rendono più evidenti i riferimenti a grandi maestre e maestri della storia dell’arte. Modigliani, Chagall, Tamara de Lempicka, Picasso, Gaugin, e così via: il corpo diventa protagonista, rappresentato senza fronzoli, adattato alle emozioni che lo muovono, ora etereo e quasi intangibile, ora monumentale e scultoreo.

Nel 2015 la casa editrice Logos (che ha pubblicato i suoi lavori in Italia) ha realizzato una raccolta delle sue opere. Non solo le numerose copertine, ma anche le tavole per i suoi libri.

2. Amantes

Ci sono i suoi Amantes, che ci mostrano diversi tipi di amore, da quello settimanale a quello finale.

C’è una Snowhite oscura, sfruttata da sette nani spietati e da un principe senza cuore.

3. Snowhite

Ci sono le Sorelle, legate l’un l’altra dalla nascita attraverso i loro stessi capelli e da un amore ossessivo (in copertina).

C’è L’isola, dove un guardiano del faro, annebbiato dall’alcol, si innamora di una donna immaginaria, che si insinuerà anche nei rapporti con la sua famiglia.

4. L’isola

E così via, in un universo onirico, senza tempo, dove i personaggi delle sue storie sono costretti a fare i conti con la realtà più cruda, con le proprie ossessioni, paure, la propria solitudine, sempre in equilibrio tra dolcezza, inquietudine e, spesso, tragedia.




ITALIA – “Bellezza divina” nel Palazzo Strozzi di Firenze

Di  Domenico Simi de Burgis

La mostra “Bellezza divina” curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Ludovica Sebregondi e Carlo Sisi presso Palazzo Strozzi a Firenze prende in esame le rappresentazioni a soggetto sacro dalla metà dell’800 fino alla metà del ‘900 circa: si apre infatti temporalmente con Bouguerau e si chiude con Vedova.

La mostra è divisa in varie sezioni e non sottostà quindi a un criterio temporale. Le sezioni sono: “Dal Salon all’altare” che illustra il passaggio da un’arte prettamente accademica al ritorno a un’arte sacra presente nelle chiese così come era nel Rinascimento attraverso una grande flagellazione di Bouguerau da una parte e una pala d’altare di Ciseri dall’altra. “Rosa mystica”, invece, espone raffigurazioni di Madonna con bambino partendo dalle due Vergini di Munch fino ad arrivare alle sculture di Adolfo Wildt e Libero Andreotti. La sezione “Vita di Cristo” ripercorre tutte le tappe caratterizzanti l’esistenza del Messia e occupa numerose sale. Nella prima compaiono varie interpretazioni dell’episodio dell’Annunciazione tra cui notabili sono il carboncino di Segantini con l’arcangelo in volo che sussurra alla Vergine la buona novella, o il rovesciamento di prospettiva dettato dalla figura angelica di Philpot che porge direttamente al fruitore un giglio senza che Maria sia rappresentata, o ancora la tela accennata dal divisionista Previati. Nelle sale successive l’attenzione viene divisa tra vari episodi trattati quasi unicamente da un solo quadro o scultura. Solo la natività ha più interpretazioni, tra cui il presepe in ceramica dipinta di Arturo Martini concepito in un pezzo unico circolare. Per il resto è da notarsi una scultura di riunione tra il figliol prodigo e suo padre sempre di Arturo Martini o una fuga in Egitto dai colori magici di Odilon Redon. Una sala intera invece è segnata dal tema della passione fino al culmine della crocifissione: dalle più famose di Chagall o Guttuso si passa a quelle meno note ma altrettanto particolari e suggestive quali quella di Primo Conti o quella di un Picasso quindicenne con il Cristo che sembra contraddistinto da un muso allungato di cane o cavallo al posto del volto.

Altra sezione, invece, è quella intitolata alle decorazioni murali di Gino Severini su alcune chiese contemporanee: compaiono, infatti, vari disegni di progetti dell’interno della chiesa di Saint-Pierre a Friburgo.

Il penultimo blocco di mostra è stato chiamato in maniera generica “La Chiesa” a causa delle rappresentazioni tutte atte a un’esaltazione di tale istituzione: da notarsi un potente e imponente busto in marmo ritraente Pio XI di Adolfo Wildt.

Compare infine una sezione concentrata sul raccoglimento privato e che coglie il momento della preghiera attraverso la delicatezza di un gesso di Vincenzo Vela o di una tela di Felice Casorati.

Per quanto riguarda le opere ritengo che la mostra valga la pena di essere vista essendo tutte di alto interesse circa la mescolanza di autori più rinomati ad altri meno. Se da un lato però permane questo giudizio positivo, dall’altro si fa strada uno scetticismo di fondo causato dalla disposizione degli stessi lavori d’artista. Procedendo per sezioni espositive infatti, si perde il senso del tempo e prevale una sensazione di spaesamento che lascia, alla fine del percorso, un retrogusto amaro dato dal non saper ripercorrere la mostra con precisione privati del sussidio di una guida sicura. Questo stesso retrogusto è anche alimentato dalle schede espositive caratterizzanti i vari scompartimenti che risultano assolutamente inutili nel non riuscire a motivare ed esaltare i tratti salienti della mostra che in questo modo risulta incompleta oltre che, per certi versi, priva di senso.

L’ordine dato dai curatori, inoltre, sottopone le opere a una vera e propria forzatura. In questo modo l’opera non diventa più figlia del proprio tempo o letta in relazione a esso ma viene classificata in maniera sterile e imprigionata all’interno del soggetto che rappresenta.

Una mostra quindi da prendere con le dovute precauzioni ma comunque da vedere per le curiosità alle quali ci fa assistere.