Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte seconda)

A Brescia negli anni Venti del secolo scorso vengono messe in cantiere numerose opere pubbliche per modernizzare la città e si decide di redigere un nuovo piano regolatore, in sostituzione del precedente, risalente al 1897 e scaduto nel 1922. Nel 1927 è indetto un concorso nazionale per un piano di ampliamento del nucleo urbano, che disegni “ un centro degno delle tradizioni artistiche della città, adeguato al suo sviluppo economico e demografico”, secondo le parole del podestà Ugo Calzoni. Le ambizioni dei tredici progetti presentati vengono decisamente ridimensionate dall’amministrazione comunale, che decide di rinunciare al previsto sviluppo di zone periferiche e di concentrarsi esclusivamente sul centro storico, e affida l’incarico a Marcello Piacentini, “architetto del regime” e autore del riassetto del centro di Bergamo. La sua idea di fondo è aprire la città storica per farla attraversare dai nuovi flussi veicolari che ruotano attorno al suo cuore vivo e pulsante, la nuova piazza, in diretto contatto con Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato, e lambita dai nuovi flussi, ma mai attraversata dal traffico veicolare. L’area prescelta per l’apertura è quella dell’antico quartiere delle Pescherie, che sorge nel luogo in cui i Longobardi, dopo aver messo la città a ferro e fuoco, insediano nel VII secolo il loro primo accampamento, a ovest delle antiche mura romane e sulle rive del torrente Melo, rinominato Garza in età medievale, per svilupparsi poi nei secoli a ridosso delle principali piazze cittadine (Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato) e diventare uno dei principali luoghi del commercio di pesce, formaggio, carne e granaglie in città. Popolarmente noto anche come “serraglio” e ricco di osterie e bordelli, è popolato da oltre seicento famiglie, più di tremila persone, che vivono in case strette e alte fino a 25 metri, affacciate su vicoli oscuri e tortuosi, in condizioni igienico-sanitarie che sono considerate le peggiori della città, tanto che la cultura fascista paragona il quartiere a un tumore da estirpare.

FOTO 1. Cartolina d’epoca. Piazzetta delle Pescherie, 1929

Con i fondi stanziati dal Regio Decreto n. 787, del 25 aprile 1929, si espropriano oltre duecento fabbricati, sistemando gli oltre tremila abitanti in precari alloggi di periferia, in alcuni casi semplici baracche, in aree che diverranno nei decenni successivi simbolo del degrado urbano, e i cui abitanti, ancora alla fine degli anni Sessanta, sono indicati come “gli sfrattati”, o sbandinell’icastica definizione dialettale, che sintetizza la loro condizione di marginalità e la memoria dell’espulsione coatta. In meno di due anni si completa lo sventramento, che rade al suolo, oltre a laboratori artigianali, botteghe e facciate affrescate, una delle quali, particolare per i notevoli affreschi del ‘500 con scene di storia romana di Lattanzio Gambara, è stata inglobata nell’edificio delle poste; edifici di importante valore storico quali le antiche pescherie, il macello risalente al Quattrocento, la chiesa romanica di Sant’Ambrogio, i resti della curia ducis romana, le fondamenta della cinta urbana tardo-antica, di una torre, di un palazzo ducale di età longobarda, tre resti di ponti sul torrente Garza. Nel 1970, durante gli scavi per la costruzione del parcheggio sotterraneo terminato nel 1974, vengono ritrovati altri  importanti resti risalenti alle età imperiale e longobarda e, nel 2008, durante gli scavi per la realizzazione della metropolitana di Brescia, vengono alla luce le fondamenta di una torre di epoca medievale.

FOTO 2. Particolare dell’affresco di Lattanzio Gambara in via XXIV Maggio lungo una parete dell’edificio delle poste

 

Il progetto di Piacentini è classicheggiante, ricco di volumi squadrati e ricoperti di lucente marmo bianco. La piazza ha una forma a L, cioè quella di un rettangolo con il lato lungo parallelo all’asse nord-sud e, nell’angolo nord-ovest, la rimanente porzione d’area che costituisce la L, richiamando la forma di un’altra piazza cittadina, Piazza del Foro, di età romana, sulla quale si affaccia il Tempio Capitolino o Capitolium (79 d.C.).

Piazza della Vittoria è progettata come spazio solenne per le celebrazioni e, allo stesso tempo, spazio di vita quotidiana.

FOTO 3a. Cartolina d’epoca. Piazza Vittoria

FOTO 3b. Cartolina d’epoca. Piazza della Vittoria dall’aereo

Secondo alcuni studi l’impianto si ispirerebbe, sia pure con alcune differenze, alla disposizione della piazza minore di San Marco a Venezia, quella che, oltre il Canal Grande, guarda alla chiesa di S. Giorgio.Come nella chiesa palladiana infatti il lato meridionale della piazza, su cui si affaccia l’edificio della Banca Commerciale, è l’unico ad avere un prospetto scolpito dalla presenza dell’ordine gigante; l’unico lambito dal “fiume veicolare” che ricorda il canale, mentre la piazza resta chiusa ai mezzi da due pennoni, ora vicini al palazzo delle poste, allineati agli spigoli dei palazzi laterali, anche se poi, già dal 1935, è utilizzata come area di sosta per automobili private, parcheggiate anche in doppia fila.

Come a Venezia il lato sinistroè il più classicoe si chiude sull’angolo retto interno alla piazza con il Torrione; unico edificio in mattoni come il celebre campanile di S. Marco, ovvero il grattacielo di proprietà dell’INA, il primo in Italia e uno dei primi in Europa, una struttura di cemento armato alta 57 metri, che ricalca il gusto eclettico dei primi grattacieli statunitensi, nonostante il regime imponga di definirlo “edificio multipiano” o “torrione”.

FOTO 4. Grattacielo INA

Marcello Piacentini, in effetti, ricicla per Brescia il progetto di grattacielo con cui nel ’22 aveva partecipato, con esito negativo, al concorso americano per la Chicago Tribune Tower. L’intero edificio si discosta dal candore della bicromia marmorea degli altri edifici della piazza e, ad eccezione del porticato e della parte inferiore del fabbricato, è interamente rivestito con mattoni a vista, a richiamare cromaticamente i tetti in tegola delle costruzioni circostanti e inserirsi armonicamente tra le cupole e le torri medievali.  La facciata principale, rivolta verso la piazza, presenta dodici grandi archi, racchiudenti ognuno le finestre di due piani, e una decorazione di dodici bassorilievi in terracotta, realizzati dal ceramista Vittorio Saltelli, che raffigurano le attività produttive tipiche di Brescia. Sul basamento porticato campeggiava un bassorilievo di Arturo Martini, l’Annunciazione, forse distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, forse trafugato, oggi non più visibile. All’ultimo piano, raggiungibile per mezzo di un modernissimo ascensore elettrico, si trovava un ristorante panoramico, poi divenuto lo studio dell’architetto Fedrigolli. Secondo le retoriche cronache dell’inaugurazione, Mussolini avrebbe disdegnato l’ascensore per salire a piedi, “con passo giovanile e rapido”, i tredici piani del grattacielo, raggiungendo per primo la terrazza panoramica, dopo aver seminato chi aveva seguito il suo esempio. L’edificio, archetipo del grattacielo italiano, suscita una vasta eco nella stampa italiana dell’epoca e viene preso a modello per la costruzione di altri simili, in una sorta di “corsa al grattacielo”, bruscamente interrotta allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto i suoi sotterranei sono utilizzati come rifugio antiaereo. Affiancato al torrione, sempre sul lato ovest della piazza, si trova il palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, sulla cui facciata classico-déco spicca un leone alato in bronzo, modellato da Alfredo Biagini, fronteggiato, sul lato opposto della piazza, da un altro simile scolpito sull’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà.

FOTO 5. Il leone alato in bronzo sulla facciata dell’edificio delle Assicurazioni Generali

Sul lato settentrionale della piazza si affaccia la sobria facciata del palazzo delle Poste, con il suo rivestimento in bicromia bianco-ocra; un simbolo civico, in quanto l’edificio sarebbe dovuto diventare il nuovo palazzo comunale, in sostituzione della storica sede di Palazzo Loggia, di cui riprende la triplice apertura, abbandonando però gli archi a favore di tre alti fornici sormontati da architravi. La fitta cortina muraria del lato settentrionale è attraversata da vie pedonali, il quadriportico e una galleria, volutamente allineate alle strade provenienti dalla piazza delle cattedrali per creare un legame con la maglia viaria scomparsa,e a  nord-est della piazza una grande scalinata, che  contorna il Palazzo delle Poste, colma il dislivello creatosi tra Piazza Vittoria e il piano costituito da Piazza della Loggia e via X Giornate.

Unico elemento anomalo nel richiamo ai riferimenti veneziani resta la Torre della Rivoluzione dedicata alla vittoria nella Grande Guerra, una torretta celebrativa piuttosto semplice, con un orologio alla sommità, dalla superficie volutamente liscia, che ospitava le scomparse scritte celebrative del regime e un altorilievo monumentale in bronzo raffigurante il Duce a cavallo, dello scultore Romano Romanelli. L’opera suscita vivaci polemiche già al suo apparire e la critica del tempo “ne disconosce il significato di rimando simbolico fascista e ne sottolinea piuttosto il richiamo a un faro portuale o a una torre comunale, nonché altri edifici palesemente ispirati all’architettura classica”[1]

FOTO 6. La Torre della Rivoluzione

Nel 2014 lo scomparso duce trionfale a cavallo è sostituito dall’istallazione temporanea, realizzata per celebrare il centenario della nascita dell’artista e collezionista d’arte Guglielmo Achille Cavellini, noto anche come GAC.  Sotto la Torre della Rivoluzione resta invece l’arengarioin pietra rossa di Tolmezzo, che fungeva da palco per gli oratori durante le adunanze cittadine,  utilizzato anche da Benito Mussolinidurante la cerimonia di inaugurazione della piazza. È decorato con lastre di marmo lavorate a bassorilievoda Antonio Maraini che raffigurano allegorie della storia di Brescia: dalla Vittoria alata, a ricordo della dominazione romana, al longobardo Re Desiderio, dall’eretico Arnaldo da Bresciaal vescovo Berardo Maggi,dai santi patroni Faustino e Giovitaalle glorie della pittura locale del Cinquecento Romaninoe Moretto, dalle Dieci giornate di Bresciaalla Prima guerra mondialefino all’Era Fascista, recante la scritta, scalpellata via nel dopoguerra ma ancora leggibile, “FASCISMO ANNO X” in riferimento al decimo anniversario dalla nascita del fascismo.

FOTO 7. L’arengario in pietra rossa

Come nella città lagunare, il lato destro della piazza, su cui prospettano palazzo Peregallo, l’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà, il nuovo albergo Vittoria e le sale per le contrattazioni commerciali volute dal Consiglio provinciale dell’economia, contrappone alla monocromia del sinistro il colore, ma del bianco e del verde della scacchiera che impreziosivano le facciate ora resta solamente un labile alone.

Servizio fotografico di Maria Paderno

Cartoline d’epoca dal sito www.bresciavintage.it

 

[1]Paolo Corsini e Marcello Zane, Storia di Brescia. Politica, economia, società 1861-1992,Bari, Laterza, 2014, p. 257

 




La nostra politica risponde ai bisogni essenziali dell’uomo?

Siamo reduci dalle ultime elezioni politiche e sono davvero innumerevoli le valutazioni sul voto di elettori ed elettrici e su come cambia il panorama politico. Lo sguardo della psicologia sociale riesce però a intercettare gli umori e i criteri decisionali a partire dai bisogni essenziali.

Il partito più votato in assoluto, specie al sud, è stato quello che prometteva il reddito di cittadinanza. Invece al nord ha prevalso una coalizione di destra e la difesa identitaria.

La progressiva colata a picco dell’area politica un tempo chiamata “sinistra” è stata invece l’esito del tradimento del mandato sociale che fino a pochi decenni fa consegnava a tale area gli interessi dei ceti medi e bassi, non tutelati dallo sviluppo delle società occidentali.
I cambiamenti sociali degli ultimi decenni che hanno visto un appiattimento della “buona vita” su immaginari di benessere ipercodificati in senso neoliberista (il consumatore ha preso totalmente il posto del cittadino), hanno visto la crisi fatale delle sinistre che hanno voluto inseguire modelli di benessere e visioni del mondo totalmente uniformi, perdendo di vista i bisogni reali delle parti sociali precedentemente rappresentate: lavoratori/lavoratrici e ceti medi.

Inseguire idee astratte di sviluppo e qualità di vita legate a indicatori economicistici e non a indicatori psicologici e sociologici chiari ha portato agli attuali risultati.

I bisogni essenziali delle persone, sono fuori dalla portata della politica.

Ma quali sono?

In estrema sintesi:

  1. continuità esistenziale
  2. progetto
  3. vita comunitaria

 

Tre tra i principali capisaldi psicosociali appartenenti alla stessa natura umana che gli attuali stili di vita e l’attuale contratto sociale neoliberista non prevedono più o che hanno reso sempre più faticosi ed elitari.

Già oggi il mercato del lavoro attuale non prevede se non in modo residuale alcuna possibilità di continuità esistenziale né di progetto. Ma se allunghiamo il nostro sguardo nel futuro prossimo è facile prevedere che le nostre società, per via della progressiva robotizzazione, faranno sempre più a meno del lavoro routinario e impiegatizio e i tassi di disoccupazione organici aumenteranno sempre di più, e mentre le garanzie sociali di istruzione, lavoro, sanità, abitazione, sussistenza si assottiglieranno, sarà sempre più difficile per i sistemi sociali occidentali far derivare i redditi dal lavoro per una grande parte della propria cittadinanza.

Se non si vorranno creare sacche di disagio grave sempre più ampie, sarà necessario sganciare il concetto di reddito da quello di lavoro, affrontando il pregiudizio di un neoassistenzialismo incombente (pregiudizio che, in altre realtà occidentali avanzate dove il reddito di cittadinanza è già operativo, non ha minimamente luogo).
Continuità esistenziale, progetto, vita comunitaria. Non esiste alcuna forza politica in grado di pronunciare parole attendibili su questi bisogni umani. Occorre dirlo e pensare ad altro, a qualcosa che ancora non c’è. Qualcosa che spodesti il “consumatore” e rimetta al proprio legittimo posto il “cittadino”.
Dovremo attendere l’autodissoluzione spontanea dei modelli di vita neoliberisti (che invece sopravvivono senza problema)? O invece possiamo cominciare a ripensare al ruolo della politica per la nostra vita quotidiana?

 




La diagnosi psicologica in politica come insulto

Da qualche settimana è online un documento e una annessa raccolta adesioni (https://psicodiagnosiepolitica.wordpress.com/) di addetti ai lavori psicologi, psicoterapeuti e psichiatri, di diversi orientamenti, ma anche sostenitori non del settore, che intendono esprimere un disagio etico e anche una forte protesta verso tutti coloro che, specialmente se in contesti pubblici, utilizzano il linguaggio e le categorie della diagnostica e dei saperi psicopatologici per apostrofare o connotare un avversario politico.

Dare del “matto” o del “bipolare”, “schizofrenico”, “psicotico”, “disturbato”, o semplicemente dell’incapace a un politico dello schieramento opposto al proprio utilizzando argomenti clinici o teorie psicologiche in modo disprezzante è, indipendente dall’appartenenza politica, una scorrettezza grave in quanto si sposta un’azione da un contesto ad un altro. Ed in questa decontestualizzazione si opera una profonda alterazione degli scopi per i quali quei saperi e quei termini sono stati pensati.

In particolare si sposta una atto terapeutico (la diagnosi ha senso all’interno di una procedura di aiuto o di valutazione clinica) da un contesto di aiuto, servizio, cura, con tutti i vincoli di riservatezza necessari, ad un contesto in cui quella stessa diagnosi assume una forte connotazione negativa e discriminatoria, praticamente diventa un insulto, per lo più avvalorato dal prestigio del professionista che lo esprime, ad uno e consumo dell’agone politico e al servizio di una parte contro l’altra.

Cosa dovrebbe pensare una persona sofferente di uno di quei disturbi nominati laddove osservasse il  terapeuta o qualcuno della stessa categoria professionale utilizzare la sua diagnosi come insulto? Secondo la mia sensibilità è inimmaginabile anche solo porre un’eventualità del genere.

Su tale tema si è già espressa, senza alcuna esitazione e dubbio, l’APA, l’Associazione Americana di Psichiatria dichiarandosi contraria (https://www.washingtontimes.com/news/2018/jan/10/american-psychiatric-association-calls-end-arm-cha/) per motivi di riservatezza e rigore professionale a petizioni pubbliche diagnostiche a proposito del Presidente degli Stati Uniti e dei suoi veri o presunti squilibri psichici.

La diagnosi, atto riservato e fiduciario tra terapeuta e paziente, non può diventare argomento politico. Pena la perdita della fiducia pubblica verso quel terapeuta e verso l’intera professione che lo accoglie.

Purtroppo questa pratica sta pericolosamente prendendo piede a livello pubblico tramite articoli e dichiarazioni e fortunatamente comincia a sollevare le giuste inquietudini e proteste di alcune parti delle categorie professionali coinvolte che prendono le distanze da questa nuova barbarie.

Ben altra è la funzione di stimolo intellettuale dell’esperto “psy” che, invece di usare metodi da bar dello sport, utilizza i propri strumenti per analisi ben più ampie e corpose al servizio di tutti.