Vogliamo i dolci e le rose! Niente butzen al Carnevale di Colonia

Addio  rose e dolcetti.  Niente grande show, gioia e colori a ravvivare  l’inverno tedesco.

Scordatevi la calda accoglienza delle ragazze tedesche il Giovedì Grasso: niente butzen, nessun bacio con lo schiocco sulla guancia! Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più famosi e tradizionali di Colonia, che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato agli individui di origini mediorientali.

Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo e fin qui ci piacciono. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti dalle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti  asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”.

Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.

E pensare che l’abitudine delle ridanciane ragazzone tedesche è di tagliare  pezzi di cravatte e di collezionarli, per esibirli come trofeo alla fine del Carnevale!

Ma il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”.Eppure il  ‘protocollo della vergogna’, il protocollo della polizia di Colonia che descrive, con tipico gergo burocratico, le molestie, le violenze e i furti subiti dalle donne nella notte di Capodanno, riporta, minuto dopo minuto, quel che è accaduto nella piazza della stazione centrale, tredici pagine di descrizioni sconvolgenti, raccolte dai poliziotti durante tutta la notte del Capodanno di Colonia:

“Ore 0:50, piazza del Duomo: più donne vittime. A tutte hanno cercato di infilare dita nella vagina, non riuscito grazie a collant. A tutte sono stati palpati seni e sedere. Una vittima è stata penetrata con un dito. Alle donne sono stati rubati soldi, documenti, iPhone e carte di credito”.

“Ore 03:40, piazza del duomo: gruppo di 20 uomini nordafricani ha infilato mani nel pantalone. In seguito rubato portafoglio. Furto: contanti e portafoglio”.

Ore 01:30, Breslauer Platz: infilata mano nel pantalone, palpeggiato il sedere. Messa mano nella borsa, rubato il telefonino e toccata dappertutto”.

Ore 4:15, piazza della stazione: l’accusato ha palpeggiato più volte tra le gambe”.

Da quanto riportato, vi sembra che le donne in piazza fossero sole? Che furono loro ad avvicinarsi agli aggressori? E che assunsero atteggiamenti che potessero essere fraintesi?

La Vergine, la donna per eccellenza del Carnevale di Colonia, è sempre in realtà interpretata da un uomo, ma senza baffi e barba evidenti. La sua corona e la sua verginità rappresentano l’inespugnabilità della città. La sua figura ricorda l’imperatrice romana Agrippina, a cui Colonia (Colonia Agrippinae) è intitolata. Reca con sè uno specchio, immagine di vanità…

Le misure di Heriette Beck non saranno razziste, ma svelano un certo pregiudizio sessista. Entro Pasqua ci dirà di mettere il burqa.

Koelle Alaaf! (Colonia prima di tutto!) Forse, è proprio il caso di dirlo.




GERMANIA – Quattrocentonovanta attacchi contro i centri di accoglienza. I tedeschi si schierano contro la Merkel

Le rivolte contro i profughi sono in crescita, tanto da preoccupare la Cancelliera e il governo federale tedesco. Il ministro dell’Interno Thomas De Maizière ha lanciato  l’allarme sulle violenze contro i migranti che si stanno moltiplicando in Germania.

Dall’inizio dell’anno sono stati 490 gli attacchi registrati contro i centri di accoglienza, in alcune situazioni sono anche stati dati alle fiamme interi campi profughi. In un’intervista diffusa dai quotidiani tedeschi del gruppo Funke, esprimendo la propria preoccupazione, il ministro ha precisato che due terzi dei responsabili sono “residenti nella regione, che non avevano mai commesso prima atti illegali”. Insomma, una rivolta che non interessa criminali, ma persone comuni preoccupate dall’arrivo incondizionato di stranieri.
“Si tratta di una vergogna per la Germania“, ha sottolineato il ministro, che li considera “delitti inaccettabili”. Ma non è tutto. Perché oltre alle rivolte dei cittadini tedeschi ci sono anche incidenti continuano peraltro ad essere registrati all’interno dei campi di accoglienza:  a Schwerin, nella parte orientale della Germania, è scoppiata una rissa tra un gruppo di siriani e uno di afgani. Ieri, invece, in un centro ad Amburgo i rifugiati iracheni ed eritrei si erano azzuffati. La polizia era stata costretta a inviare 15 veicoli sul posto insieme a tanti agenti per riuscire a riportare la situazione alla calma.
Intanto anche sul piano politico la decisione della Merkel di aprire le porte ai migranti ha scatenato reazioni a catena. Dopo aver fortemente criticato la Cancelliera nei giorni scorsi, il presidente della Baviera Horst Seehofer ha annunciato che presenterà ricorso alla Corte Costituzionale per far imporre la limitazione degli arrivi dei profughi, se non ci penserà lo Stato federale.
Senza contare poi che i lettori della Bild hanno dichiarato con un sondaggio che sui profughi la pensano come il bavarese Horst Seehofer: nel 90% bocciano la politica di accoglienza di Angela Merkel, appoggiata solo da un 10%. Al sondaggio hanno risposto 344.256 lettori.




Thailandia – Caccia all’uomo per la bomba a Bangkok. Dalla Cina l’invito a evitare la Thailandia

La polizia thailandese sta dando la caccia anche «a una donna con una maglietta nera» in relazione dell’attentato di Bangkok al tempio Erawan. «La esorto a farsi avanti per fornire informazioni» ha detto il generale Prawut Thavornsiri che ha anche reso noto che è stato escluso un coinvolgimento nell’attacco dei due uomini identificati come ricercati e che si sono presentati spontaneamente alla polizia.

I due sono risultati essere un turista e una guida turistica e sono stati rilasciati. E pare dunque chiaro che a tre giorni dall’attentato la polizia thailandese sembra brancolare nel buio. Secondo le autorità thailandesi almeno 10 persone potrebbero aver preso parte all’attentato ma pare improbabile che si tratti di terrorismo internazionale. Nello scoppio della bomba hanno perso la vita 20 persone e ne sono state ferite più di 120. Al centro della caccia all’uomo c’è sempre il misterioso giovane dalla maglietta gialla, il cui identikit lo indica come «straniero» nonostante un volto difficilmente attribuibile a una precisa etnia. La polizia ha ricostruito altri suoi movimenti, riuscendo a rintracciare il conducente di tuk tuk che l’ha portato al luogo della strage e il mototassista con cui invece si è allontanato dopo aver abbandonato lo zainetto con l’esplosivo nel complesso del santuario induista Erawan. Ma del ragazzo, apparentemente sotto i trent’anni, non c’è ancora traccia. Inoltre una troupe della Bbc ha ritrovato delle schegge della bomba a 50 metri dall’esplosione, assieme a biglie metalliche: segno che dei dettagli chiave potrebbero essere sfuggiti. E più tempo passa senza progressi di rilievo, più calano le probabilità di fare luce sul mistero.

In televisione il portavoce dell’esercito thailandese Winthai Suvaree ha detto di ritenere “improbabile” che l’attacco sia stato organizzato dal terrorismo internazionale, aggiungendo che i turisti cinesi “non erano un obiettivo diretto” degli attentatori.

In mattinata un portavoce del Ministero dell’interno ha spiegato che l’attentato  non è stato rivendicato ancora, tuttavia la polizia tende a escludere che possa trattarsi di terrorismo Internazionale o di matrice religiosa, concentrando invece le indagini sulle lotte politiche interne. Pare che sia stata individuata attraverso i video di una camera di sorveglianza una delle persone che materialmente hanno piazzato la bomba: maschio, giovane, con occhiali e una t-shirt gialla, secondo gli investigatori vicino al movimento delle Camicie Rosse fedele all’ex primo ministro Yingluck e al fratello Thaksim Shinawatra. Almeno secondo le dichiarazioni di Prayut Chan-O-Cha.

La polizia sta lavorando sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza nelle quali potrebbe essere stato identificato uno degli attentatori. L’unità di crisi della Farnesina, intanto, ha invitato i connazionali presenti a Bangkok a evitare la zona nel «distretto centrale di Chidlom, nei pressi dell’omonima stazione della metropolitana e del tempio di Erawan». Nel messaggio pubblicato sul sito Viaggiare Sicuri, inoltre, si da’ conto anche dell’esplosione presso il molo di Sathorn a Bangkok, non risultano al momento feriti».

Ieri le autorità thailandesi hanno diffuso un filmato delle telecamere di sicurezza, presenti di fronte al tempio Indù, che potrebbe aver immortalato uno dei possibili terroristi. Un uomo, con una maglietta gialla, zaino nero in spalla e cellulare in mano, mentre abbandona una borsa accanto ad una panchina e si allontana. «C’è un sospettato e lo stiamo cercando», ha affermato il portavoce della polizia, Prawut Thavornsiri. A proposito della granata lanciata da un ponte, le forze dell’ordine hanno chiarito che «se non fosse caduto in acqua, avrebbe certamente provocato feriti». Le indagini, quindi, vanno avanti. Il capo di Stato maggiore e vic ministro della Difesa, il generale Udomdej Sitabutr, ha escluso la pista dei ribelli islamici separatisti del sud, sostenendo che la dinamica dell’attentato «non corrisponde» a quelle abituali impiegate dai jihadisti. La pista più seguita porterebbe al terrorismo interno di matrice politica. Il capo della giunta militare al potere, il generale Prayuth Chan-ocha, ha puntato il dito verso il «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», noto come Camicie rosse, considerate vicine alla famiglia dell’ex premier Thaksin Shinawatra e alla sorella, Yingluck, deposta il 7 maggio 2014 da una decisione della Corte Costituzionale. Prayuth Chan-ocha, riferendosi ai responsabili dell’attentato, ha parlato di possibili legami con «un movimento anti-governativo che ha base nel nord-est della Thailandia». Il generale Prayuth, che è anche primo ministro, ha annunciato inoltre di aver effettuato un rimpasto di governo e di aver sottoposto all’anziano e malato re, Bhumibol Adulyadey, la lista per ottenere l’approvazione. Secondo il viceministro della Difesa, generale Udomdej Sirabut, l’attacco è stato invece «una vendetta per una recente operazione delle autorità». L’allusione è al rimpatrio coatto di un centinaio di musulmani uiguri in Cina. Molti membri della minoranza sono infatti fuggiti dalla Cina, a causa della repressione del governo di Pechino nei loro confronti. Intanto da Londra ieri è arrivata la conferma che tra le vittime dell’attentato a Bangkok c’è anche un cittadino britannico che viveva a Hong Kong.
La Thailandia ha visto  un’escalation di violenza che alza il livello di instabilità e incertezza nella crisi politica in corso da quattro mesi, in un clima sempre più di divisione e odio che rende sempre più difficile un negoziato tra i due blocchi di potere rivali. Il centro di Bangkok è stato scosso anche dall’esplosione di una granata di fronte al popolare centro commerciale Central World, a un centinaio di metri da uno degli accampamenti della protesta anti-governativa.

L’ordigno, scoppiato tra le bancarelle di souvenir dei manifestanti, ha causato la morte di un bambino di quattro anni (inizialmente indicato come dodicenne), della sorella di sei, e di una donna, oltre al ferimento di almeno altre 22 persone. Ieri sera, uomini armati a bordo di due pick-up hanno invece aperto il fuoco e lanciato ordigni in un mercato locale nella provincia orientale di Trat, dove una piccola folla era riunita per ascoltare il comizio di un leader locale affiliato alla protesta.
Una bambina di cinque anni seduta a un vicino ristorante di strada è stata colpita a morte, e un’altra è in coma; altre 34 persone sono rimaste ferite. I due attacchi portano a 19 morti e quasi 800 feriti il bilancio delle violenze da fine novembre. Ma se nei primi episodi di violenza le vittime erano spesso attivisti protagonisti di scontri, nelle ultime settimane gli attacchi hanno colpito moltissimi innocenti, in diversi casi neanche partecipanti alle manifestazioni.
Ora il coinvolgimento di bambini sembra aver scosso il Paese. La premier Yingluck Shinawatra ha condannato gli attentati definendoli «atti terroristici». Il problema è che ogni episodio di violenza finisce nel calderone delle strumentalizzazioni, alimentando le accuse reciproche. Per il movimento di protesta guidato dall’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, ogni morte è responsabilità di un governo malvagio, corrotto, populista e che ha perso ogni legittimità. I sostenitori di Yingluck, tra cui le «camicie rosse» del popoloso nord-est rurale che formano lo zoccolo duro dell’elettorato fedele all’ex premier Thaksin Shinawatra (fratello di Yingluck), intravedono invece giochi sporchi per creare instabilità e provocare un intervento delle forze armate, o comunque un colpo di mano dell’elite.

Estremisti di entrambe le fazioni dipingono sempre più i rivali come nemici subumani che meritano la morte. Oltre a confermare l’esasperazione delle fazioni rivali, secondo molti analisti l’accresciuta frequenza degli attacchi rappresenta un segnale che fa temere per una conclusione violenta della crisi. L’assenza di negoziati tra due posizioni incompatibili – con Yingluck che chiede il rispetto del suo mandato popolare e Suthep che vuole rimpiazzarla con un «Consiglio del popolo» nominato dall’alto – non lascia intravedere margini di manovra. La premier appare scivolare sempre più in una morsa, con la protesta di piazza da una parte e l’establishment tradizionale a lei ostile dall’altra. Se però dovesse cadere, a quel punto sarebbero i «rossi» a sentirsi legittimati a protestare, e il ciclo di violenze ricomincerebbe.

Intanto il Baht, la moneta thailandese, è ai minimi storici da sei anni e l’immagine turistica del Paese all’estero sta crollando velocemente. Non bastano la tradizionale ospitalità, il buon cibo, la bellezza di coste e templi a bilanciare la paura: già spuntano sul web le offerte speciali di agenzie e compagnie aeree. E se pubblicamente le autorità dichiarano che la situazione è sotto controllo, negli aeroporti periferici non ci è sembrato che le misure di sicurezza siano aumentate. I controlli, almeno per gli standard europei e americani, sono superficiali e veloci, il personale è sempre gentile ma non brilla per numero né per efficienza. Diversa la situazione a Bangok e Koh Samui, dove si è registrato qualche ritardo nelle procedure di imbarco.

La stampa in lingua inglese riporta le testimonianze raccapriccianti di chi ha assistito allo scoppio e continua ad aggiornare il conteggio di morti e feriti: per le fonti più attendibili, i primi sarebbero 22, i secondi oltre un centinaio, e in entrambi i casi non tutti sarebbero stati identificati. Diversi i turisti, anche se la maggior parte delle vittime sono thailandesi, come ha ammesso lo stesso portavoce in tv. E thailandesi, racconta un sito locale, sono anche i volontari che a centinaia  sono accorsi negli ospedali della capitale per dare una mano come potevano: chi donando sangue per le trasfusioni, chi mettendo a disposizione la propria auto o il tuk tuk per fare la spola tra il pronto soccorso e il luogo dell’attentato. Parecchi si sono offerti come interpreti, per aiutare i feriti e i loro parenti, soprattutto quelli cinesi e di Hong Kong.

Almeno due morti erano cittadini di Hong Kong, e proprio dall’ex protettorato cinese arriva il primo invito ufficiale a evitare la Thailandia. Più cauti gli altri Paesi, ma l’invito generico è a prestare attenzione, specie nelle mete turistiche e nei luoghi affollati; dalla Farnesina ancora nessuna notizia sull’eventuale coinvolgimento di italiani, che in questo periodo sono numerosi in Thailandia. “Faremo di tutto per riguadagnarci la fiducia di ognuno”, promette il portavoce del governo, annunciando un programma di sostegno alle vittime e ai loro familiari, mentre il Comitato nazionale per la Pace e l’Ordine invita la nazione a restare forte e unita e su Twitter si moltiplicano da tutto il mondo le preghiere per le vittime.




ITALIA – Regioni del Sud al limite sul fronte accoglienza: decessi e proteste

Trecentonovantacinque migranti di diverse nazionalità, tra cui siriani e subsahariani, sono sbarcati  a Crotone dal rimorchiatore di altura norvegese “Siem Pilot St Avangar”. Tra loro 150 minori, tanti bambini e alcuni neonati, 24 donne di cui due incinte. Dopo il controllo da parte degli agenti della polizia, gli immigrati sono stati prima accolti dai volontari per il primo soccorso e poi trasferiti al centro d’accoglienza di Sant’Anna.

La Prefettura di Crotone, che ha coordinato le procedure per il primo soccorso e l’accoglienza, informa che sono già stati fermati 10 presunti scafisti.

Temporaneamente ospitati presso il C.D.A./C.A.R.A. di Isola di Capo Rizzuto ai fini della pre-identificazione, saranno nei  trasferiti – secondo un piano di riparto del Ministero dell’Interno – in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Campania.

PUGLIA – E’ stata eseguita  nell’Istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari l’autopsia sul corpo del 52enne tunisino morto martedì scorso in un’azienda di Polignano a Mare. Il pm Grazia Errede ha affidato l’incarico al professor Francesco Introna il quale dovrà stabilire le cause del decesso e se siano la conseguenza di un infortunio sul lavoro. Stando alla ricostruzione l’uomo si è sentito male alla fine del turno di lavoro nei campi dove caricava cassette di uva.

Al termine di un turno di otto ore all’aperto, avvertendo un malore l’uomo ha deciso di prendere un caffè al distributore dell’azienda. Giunto davanti alla macchinetta, il 52enne si è accasciato al suolo privo di sensi.

Soccorso da una collega, all’arrivo del 118 per il bracciante non c’era più nulla da fare. Residente a Fasano da diversi anni, dai primi accertamenti l’uomo risultava assunto con regolare contratto dall’azienda, anche se i Carabinieri stanno eseguendo verifiche sul contratto per verificarne la validità. Il gip ha disposto l’autopsia sul corpo del 52enne per verificare l’origine del malore che ha causato la morte e capire se poteva essere evitata.

LECCE – Tre persone sono state iscritte nel registro degli indagati della Procura di Lecce per la morte di Mohamed, il 47enne sudanese stroncato da un malore mentre lavorava come bracciante irregolare, sotto il caldo torrido – la temperatura sfiorava i 40 gradi – in un campo di pomodori fra Nardò e Avetrana. Gli indagati sono i titolari dell’azienda agricola Mariano, marito e moglie, e il caporale sudanese che avrebbe svolto il ruolo di intermediario fra gli imprenditori e i lavoratori.

Il sostituto procuratore Paola Guglielmi ipotizza per ora il solo reato di omicidio colposo, ma è probabile che altre ipotesi si aggiungeranno presto all’elenco delle imputazioni: i primi controlli effettuati dai carabinieri della compagnia di Campi Salentina – guidati dal maggiore Nicola Fasciano – stanno portando alla luce un quadro di diffusa illegalità. Mohamed, stando alle prime ricostruzioni, era in possesso di permesso per stare in Italia in quanto richiedente asilo, ma non aveva un contratto di lavoro.

Irregolari anche altre due braccianti straniere, che quando l’hanno visto accasciarsi sulla terra hanno cercato di soccorrerlo. In regola con il contratto, ma non con altre norme sulla sicurezza sul lavoro, le altre 28 persone che lavoravano nella stessa porzione di terreno. Per questo gli accertamenti saranno effettuati a 360 gradi, sia sotto il profilo penale sia sotto quello prettamente professionale, tramite una serie di verifiche affidate anche agli ispettori dell’Inps.

L’azienda in cui è avvenuto l’incidente, del resto, già nel 2012 era finita nel mirino della Procura con l’arresto del titolare Giuseppe Mariano, coinvolto nell’operazione ‘Sabr’ sullo sfruttamento dei braccianti nei campi, insieme con tutti i più grossi imprenditori della zona. Da allora, e nonostante gli arresti, nulla è cambiato nelle campagne di Nardò e dell’hinterland.

I migranti continuano a lavorare in condizioni disumane, i caporali a fungere da intermediari e molti imprenditori a non rispettare completamente le regole. La situazione in cui lavoravano Mohamed e i suoi compagni lo dimostrerebbe in pieno: per ore chinati sotto il sole, con temperature che nei giorni scorsi hanno toccato i 40 gradi. Quelli che segnavano appunto i termometri nelle campagne verso Avetrana.

Cordoglio per la scomparsa del 47enne è stato espresso dal governatore Michele Emiliano: “Si tratta dell’ennesimo incidente sul lavoro, questa volta ancora più angosciante per la dinamica, visto che il bracciante, cittadino sudanese, probabilmente è morto a causa del gran caldo che imperversa in questi giorni, ancor di più sensibile nei campi di pomodori del Salento dove stava guadagnando la giornata. Il tragico episodio ci ricorda che a svolgere determinati lavori sono in gran parte immigrati da Paesi lontani”.

“Mohammed aveva i documenti in regola e faceva proprio il bracciante per professione – ha proseguito il governatore – Lo vogliamo ricordare a chi guarda a questi operai come ladri di lavoro, mentre con il loro sacrificio fanno funzionare pezzi di un’economia che vogliamo sempre più sana e sicura”. Emiliano si è detto sicuro “che magistratura e investigatori faranno luce sulle condizioni di lavoro in quella azienda agricola, perché a volte l’intreccio fra manodopera irregolare e poca chiarezza sulle imprese è fatale per gli anelli più deboli della catena”.

Sulla vicenda interviene anche Stefania Crogi, segretario generale Flai Cgil: “Questa morte non può restare un fatto di cronaca estiva, è un atto di accusa verso un mercato del lavoro agricolo colpito in modo forte dalla piaga dello sfruttamento”.

SALENTO – A Torre Chianca due salentini si sono accaniti su un ambulante 17enne in spiaggia: indagati per tentato omicidio, uno è sorvegliato speciale. Cori razzisti dei bagnanti contro la vittima e i poliziotti

Prima gli hanno rubato un paio di occhiali. E quando l’ambulante diciassettenne originario della Nuova Guinea ne ha chiesto la restituzione, lo hanno picchiato selvaggiamente, trascinato in mare e tenuto con la testa sott’acqua per diversi minuti. Il tutto sotto gli occhi dei bagnanti, che non solo non hanno aiutato il ragazzo, ma all’arrivo della polizia hanno circondato le volanti, facilitando la fuga di uno dei due aggressori e inveendo contro gli agenti e la vittima con frasi pesanti dal chiaro contenuto razzista.

Il pomeriggio di ordinaria follia ha avuto come teatro la spiaggia di Torre Chianca (a pochi chilometri da Lecce) e come protagonisti due giovani del capoluogo già noti alle forze dell’ordine, Federico Ferri e Mirko Castelluzzo, rispettivamente di 25 e 37 anni, arrestati per tentato omicidio al termine di un’indagine lampo della squadra volante della polizia di Stato, guidata dalla dirigente Eliana Martella. Entrambi vengono ritenuti vicini a gruppi della criminalità leccese che operano nel capoluogo: Castelluzzo è un sorvegliato speciale con obbligo di dimora, che non aveva remore a scontare sulla spiaggia in compagnia degli amici.

I due uomini, stando alla ricostruzione effettuata, avrebbero mercanteggiato con il venditore ambulante per qualche minuto e poi avrebbero sottratto un paio di occhiali dalla sua cesta. Il ragazzo se ne sarebbe accorto, chiedendone la restituzione e scatenando così la furia dei due leccesi. Alle botte è seguito il trascinamento in mare e poi quel tenerlo sott’acqua, che ha configurato l’ipotesi di tentato omicidio, condita da minacce rivolte ai presenti affinché si facessero “i fatti loro”.

Il migrante sarebbe poi riuscito a liberarsi e a scappare, chiedendo aiuto ai bagnanti, nessuno dei quali gli ha dato un cellulare per poter avvisare le forze dell’ordine. Una telefonata anonima al 113 ha determinato l’intervento delle volanti, ai cui agenti la vittima ha raccontato tutto con dovizia di particolari: “Mi tenevano con la testa sott’acqua, credevo di morire”.

Quando è riuscito a uscire dall’acqua, il diciassettenne era molto dolorante, essendo stato colpito in diverse parti del corpo (faccia, testa, collo, zigomo sinistro), comprese quelle intime, tanto che è stato condotto in ospedale, dove è stato sottoposto alle cure del caso e poi dimesso con una prognosi di dieci giorni. Al termine della brutta avventura il ragazzo è stato riaccompagnato a casa, dove abita con la famiglia, composta da lavoratori, tutti in regola con i permessi di soggiorno.

Le indagini dei poliziotti hanno inoltre consentito di identificare e denunciare per offese a sfondo razziale altre tre persone (una di loro anche per furto), che durante le fasi concitate di intervento della polizia, hanno inveito contro l’immigrato, rubandogli anche altre cinque paia di occhiali e i 40 euro, magro guadagno di un’intera giornata di lavoro sotto il sole.

Nella notte – poche ore dopo l’arresto di Ferri e Castelluzzo – un ordigno è esploso nei pressi dello stabilimento balneare ‘La Cambusa’ davanti al quale è avvenuta la brutale aggressione, danneggiando gravemente alcune cabine e magazzini. Difficile ipotizzare, al momento, se i due episodi siano collegati e se la presenza della bomba sia stata un segnale intimidatorio rivolto ai proprietari del lido in relazione a quanto accaduto il pomeriggio. Gli investigatori della squadra mobile diretti da Sabrina Manzone, però, non escludono alcuna possibilità e hanno già acquisito le immagini delle videocamera di sorveglianza installate nella zona.

SARDEGNA – Mentre prosegue la protesta a Cagliari dei migranti eritrei che vogliono lasciare l’isola,  sono sbarcati a Sant’Antioco e Teulada altri 15 nordafricani. Secondo i primi accertamenti si trovavano a bordo di due barchini, uno dei quali è stato già trovato, mentre il secondo sarebbe stato avvistato da una motovedetta. Cinque dei profughi sono stati intercettati dai carabinieri a Sant’Antioco, mente gli altri dieci sono stati rintracciati poco più tardi nella zona delle saline di Teulada. Sono tutti giovani nordafricani e in buone condizioni di salute, una parte dei migranti è stata già trasferito al centro di prima accoglienza di Elmas.

PROFUGHI ERITREI – E’ ripresa poco dopo  la protesta dei migranti eritrei davanti agli ingressi dei traghetti al porto di Cagliari. I profughi – 80/100 tra uomini e donne – che si trovavano in piazza Matteotti e nella zona del porto dove hanno trascorso la notte, sono tornati ai cancelli dei traghetti e chiedono di poter lasciare la Sardegna, come fatto  dai 56 connazionali. La Polizia sta controllando la situazione. Per molti di loro la partenza non sarebbe possibile a causa della mancanza di documenti e di denaro per acquistare i biglietti della nave Tirrenia. Chi invece è in possesso di documentazione e biglietto, come già accaduto, in giornata potrebbe lasciare l’isola. Alcuni dei profughi avrebbero già detto di essere disponibili a tornare nelle strutture di accoglienza, visto che molti di loro arrivano da altre province dell’isola.

IN 56 HANNO GIA’ LASCIATO LA SARDEGNA – Sono partiti  con il traghetto della Tirrenia diretto a Civitavecchia, 56 dei 120 migranti eritrei che ieri mattina si sono presentati davanti ai cancelli degli imbarchi del porto di Cagliari, chiedendo di poter lasciare la Sardegna e raggiungere altre nazioni europee. Tra di loro ci sono 25 donne e un minorenne. Quattordici dei profughi erano arrivati nello sbarco del 18 luglio scorso, mentre gli altri fanno parte dei 435 arrivati a Cagliari dalla nave della Marina tedesca sabato scorso. I 56 migranti, che erano ospiti di strutture ricettive nel Cagliaritano, sono in possesso di biglietto e di documenti validi. Da valutare la posizione degli altri arrivati da altre province dell’isola.

Il QUESTORE DI CAGLIARI – “Bisogna prendere atto che si tratta di un fenomeno storico epocale che non riguarda certo l’Italia, ma tutta l’Europa, soprattutto il nord Europa. L’Italia sta dando prova di essere un paese di grande umanità e accoglienza”. Lo ha detto all’ANSA il questore di Cagliari, Filippo Dispenza, commentando la protesta dei profughi eritrei al porto del capoluogo. “E’ un fenomeno epocale e storico dettato da guerre, carestie e condizioni di vita impossibili – ha evidenziato ancora Dispenza – bisogna puntare sui sistemi di sviluppo economici, sociali e politici nei paesi di origine e puntare sulla pacificazione”. In riferimento ai migranti che chiedono di lasciare la Sardegna ha aggiunto: “Sono persone che sono sottoposte a forme di protezione internazionale, non sono prigionieri ma sono ospitati in strutture di accoglienza della Regione e, una volta identificati, sono liberi di uscire e rientrare. Devono rispettare chiaramente certe regole, come l’assenza prolungata (tre giorni) dalle strutture in cui sono alloggiati, per non perdere il diritto all’ospitalità. Devono poi rispettare le norme del vivere civile, le regole e le leggi vigenti”, ha concluso il questore.

CAMPANIA – La Campania è la quarta regione in Italia, dopo Lombardia, Sicilia e Lazio per il numero di profughi da accogliere. L’epicentro della protesta è Varcaturo dove i residenti hanno protestato davanti all’Hotel di Francia, un albergo di lusso, come ricorda linkiesta, trasformato in centro di accoglienza. Lo scenario si è ripetuto a Licola Mare nei pressi dell’Hotel Panorama. Anche lì dopo le proteste dei residenti davanti all’Hotel Panorama è scoppiata una rissa tra profughi che è stata sedata dalle forze dell’ordine. La situazione appare fuori controllo a Giugliano. Circa 900 su 2300 sono concentrati in 8 centri. Il sindaco ha chiesto al Prefetto di Napoli di bloccare nuovi arrivi.

“Il Prefetto, su mia sollecitazione, – ha dichiarato Poziello – ha escluso il Comune di Giugliano dalle nuove gare in corso per la collocazione in strutture ricettive di migranti richiedenti asilo. Ciò in considerazione dell’elevato numero di richiedenti già presenti sul territorio”. Intanto altri venti immigrati sono stati “dirottati” sabato scorso per motivi di ordine pubblico da Acerra all’Hotel Bella Mbriana, altro centro di accoglienza nel giuglianese, dopo che gli acerrani avevano protestato per l’arrivo del bus carico di profughi. “Siamo stanchi e spaventati, – affermano alcuni cittadini giuglianesi a Linkiesta – è un’invasione. Ormai loro sono diventati più di noi e quindi si sentono forti, non è la prima volta che avvengono episodi del genere come la rissa di martedì”. La rabbia degli italiani e dei campani diventa sempre più pressante.




Duemila donne contro “L’Italia che stupra impunita”

Erano arrabbiatissime le donne che  hanno protestato a Firenze contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Firenze ha assolto sei uomini dall’accusata di aver stuprato, nel luglio del 2008, una giovane donna nell’area del parcheggio della Fortezza da Basso.

Alla manifestazione, convocata da un nutrito gruppo di associazioni, sono intervenute in più di duemila da diverse città del centro e nord Italia per esprimere solidarietà alla donna e alzare la voce contro una sentenza che risulta essere più un giudizio sulle scelte di vita della vittima piuttosto che nei confronti di chi quella vita ha violato.

Le stesse motivazioni della sentenza racchiudono in sé giudizi morali nei confronti della donna che non ha avuto diritto di giustizia perché secondo i giudici la sua vita “non è lineare”, quattro pagine in cui sostengono che “il comportamento della ragazza ha dato modo ai ragazzi di pensare che la stessa fosse consenziente”. In un passaggio i giudici definiscono la ragazza “un soggetto fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”.

Erano tante le donne, ma c’erano anche uomini da alcune accettati da altre tollerati, che hanno prima sfilato intorno alla Fortezza da Basso, percorso autorizzato, ma poi hanno valutato che la gravità del caso pretendeva qualcosa di più che un girotondo e hanno deciso di osare di più.

Hanno prima occupato via Strozzi, davanti la questura, per proseguire verso il centro della città, via Cavour, la stazione ferroviaria, piazza del Duomo per tornare alla Fortezza.

Moltissimi i cartelli con l’hastag #nessuna scusa, ad indicare che non esistono giustificazioni per uno stupro, tanti slogan contro il patriarcato, alcuni anche duri sul tono “L’Italia stupra impunita, se non c’è giustizia ci sarà vendetta”. E non sono mancati riferimenti internazionalisti al coraggio e alle lotte delle “sorelle curde, yazide, nigeriane, indiane…”

La manifestazione, anche se in buona parte non autorizzata, si è conclusa intorno a mezzanotte e comunque senza incidenti, tra la curiosità dei molti turisti e la solidarietà delle e dei fiorentini che per qualche minuto hanno abbandonato la tv e si sono affacciati da balconi e finestre per salutare l’insolito corteo.

Anche a Roma, nel quartiere del Pigneto, in contemporanea con la manifestazione di Firenze, si è tenuta una protesta in solidarietà con la donna che ha subito violenza e contro la sentenza che ha assolto i suoi stupratori.

Per i giudici la giovane, all’epoca 23enne, avrebbe denunciato il rapporto sessuale per “rimuovere” un suo “discutibile momento di debolezza e fragilità”. E, comunque, i ragazzi possono aver “mal interpretato” la disponibilità della ragazza.

A questi giudici la ragazza ha voluto rispondere. Lo ha fatto con una lettera pubblicata sul blog Abbatto i muri: “Come potete immaginare che io mi senta adesso? Non riesco a descriverlo nemmeno io. La cosa più amara e dolorosa di questa vicenda é vedere come ogni volta che cerco con le mani e i denti di recuperare la mia vita, di reagire, di andare avanti, c’é sempre qualcosa che ritorna a ricordarmi che sì, sono stata stuprata e non sarò mai piú la stessa”. Lo ha fatto per ribadire alla Corte d’Appello che lei, nonostante la violenza sessuale, esiste ancora. “Esisto – scrive la ragazza – nonostante abbia vissuto anni sotto shock, sia stata imbottita di psicofarmaci, abbia convissuto con attacchi di panico e incubi ricorrenti, abbia tentato il suicidio più e più volte, abbia dovuto ricostruir a stenti briciola dopo briciola, frammento dopo frammento, la mia vita distrutta, maciullata dalla violenza: la violenza che mi é stata arrecata quella notte, la violenza dei mille interrogatori della polizia, la violenza di 19 ore di processo in cui é stata dissezionata la mia vita dal tipo di mutande che porto al perché mi ritengo bisessuale”. Per l’avvocata Lisa Parrini che ha difeso la vittima si tratta di una sentenza impregnata di moralismo dal momento che è stata portata avanti indagando sulle abitudini sessuali della donna violentata per stabilire se davvero si è trattato di stupro. “Ogni maledetta volta dopo aver lavorato su me stessa, cercato di elaborare il trauma, espulso da me i sensi di colpa introiettati, il fatto di sentirmi sbagliata, sporca, colpevole – scrive la ragazza – dopo aver cercato di trasformare il dolore, la paura, il pianto in forza, in arte, ecco un altro articolo che parla di me. E io mi ritrovo catapultata di nuovo in quella strada, nel centro antiviolenza, nell‘aula di tribunale”.

“Abbiamo perso tutti – condanna la ragazza – non hanno vinto loro, gli stupratori, la loro arroganza, il loro fumo negli occhi, le loro vite vincenti”. E, dopo che i giudici di appello hanno clamorosamente ribaltato la sentenza del primo processo che condannava i sei ragazzi del branco, arriva addirittura a pensare che, forse, tornando indietro non denuncerebbe le violenze subite. “Che se anche la giustizia con me non funziona prima o poi funzionerà – è l’auspicio – cambierà, dio santo, certo che cambierà”. “Ebbene sì – conclude – se per essere creduta e credibile come vittima di uno stupro non bastano referti medici, psichiatrici, mille testimonianze oltre alla tua, le prove del dna, ma conta solo il numero di persone con cui sei andata a letto prima che succedesse, o che tipo di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai mai baciato una ragazza, se giri film o fai teatro, se hai fatto della body art, se non sei un tipo casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e lottare per i tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi essere creduta”.




USA – Un attentato uccide 4 marines a Chattanooga. Abbattuto Abdulazeez

L’attentato terrorista che uccide 4 marines negli Stati Uniti avviene a Chattanooga, Tennessee: Muhammad Youssef Abdulazeez, 24 anni, è il terrorista sospettato di simpatie islamiste che ha aperto il fuoco usando “numerose armi” e ha lasciato sul terreno 4 militari americani prima di venir abbattuto dalle forze di polizia, non prima di aver ferito altre tre persone. L’uomo ha aperto il fuoco contro un centro di reclutamento dei marines, prima di dirigersi verso una struttura della marina e riprovarci; le persone che sono rimaste ferite non sarebbero gravi e si starebbero già riprendendo.

La dinamica è raccontata da Huffington Post nella sua edizione americana.
Muhammad, che la polizia ha identificato come l’uomo che ha aperto il fuoco, avrebbe usato “numerose armi da fuoco” quando ha sparato contro un centro di reclutamento militare intorno alle 10.45 del mattino, prima di dirigersi verso una struttura della marina poco distante. I testimoni lo hanno descritto mentre riversava contro il centro salve di proiettili: “Non riuscivo a credere a quanti fori di proiettili ci fossero in quella porta. Era assurdo. Era un giorno come gli altri e lui è saltato fuori e basta, non pensavo che cose del genere potessero succedere”, raccontano i testimoni.
E’ trascorsa circa mezz’ora prima che le forze dell’ordine abbattessero l’uomo, anche se non è chiara la dinamica: Muhammad potrebbe essersi ucciso. Le forze dell’ordine indagano per l’ipotesi di reato di “terrorismo”.

“Le autorità statunitensi stanno verificando l’ipotesi che l’attentatore si sia ispirato allo Stato islamico o ad altri gruppi jihadisti”, scrive il Corriere della Sera, anche se le ultime notizie, riportate da Reuters, vedono l’Fbi essere plausibilmente sicuro che l’attentatore “non avesse collegamenti con gruppi internazionali: stiamo ancora indagando il movente”, ripete l’autorità federale di indagine. L’uomo, scrive Washington Post, veniva da “una famiglia della classe media” di religione mussulmana: “Mohammad Youssef Abdulazeez era nato in Kuwait, ma si era trasferito negli Stati Uniti con la famiglia poco dopo l’inizio della Guerra del Golfo persiano ed era diventato cittadino americano”. Aveva sempre vissuto nei dintorni e si era laureato in ingegneria proprio all’università del Tennessee di Chattanooga, molto vicino al luogo degli attentati.




KENIA – Taglia sulla testa del terrorista Mohamed Mohamud Kuno. La polizia ha promesso 220mila dollari

Le autorità keniane non hanno dubbi, anche dietro l’ attentato al college universitario nella città di Garissa c’è la mano di Mohamed Mohamud Kuno, conosciuto anche come Dulyadin e Gamadhere. Kuno è un keniano, ex operatore umanitario, che ha insegnato e avuto funzioni di direttore in una scuola teologica proprio a Garissa, l’istituto Madrasa Najah, prima di unirsi alle milizie islamiche somale. Le sue posizioni si sono radicalizzate col passare degli anni fino a quando ha deciso di dedicarsi anima e corpo al terrorismo unendosi ad al-Shebaab. Con i jihadisti somali ha rivendicato l’attacco del 22 novembre 2014 contro un autobus nei pressi di Mandera – una cittadina al confine tra il Kenya e la Somalia – costato la vita a 28 passeggeri non musulmani, colpevoli secondo i miliziani di “non conoscere il Corano”. La polizia ha promesso 220mila dollari a chiunque sia in grado di dare informazioni che portino al suo arresto, ma al momento Mohamed Kuno è irrintracciabile, sparito dal dicembre dello scorso anno. secondo il quotidiano kenyano Daily Nation, che ne ha tracciato un profilo sul suo sito, Kuno è ormai il capo delle operazioni qaediste in Kenya e utilizzerebbe spesso membri della sua famiglia nei raid.

L’attacco è cominciato all’alba. I jihadisti hanno preso d’assalto il campus intorno alle 4,30 ora italiana: hanno sparato alle due guardie al cancello di ingresso e poi, una volta entrati, hanno aperto il fuoco a caso, prima di asserragliarsi in uno dei dormitori degli studenti.

Gli al-Shebaab somali, legati ad al-Qaeda, hanno rivendicato l’attacco. Per tutto il giorno decine di studenti cristiani sono stati tenuti in ostaggio. I 15 ostaggi islamici erano invece stati liberati subito: “Quando i nostri uomini sono arrivati, hanno rilasciato i musulmani. Teniamo gli altri in ostaggio” ha detto un portavoce degli shebaab, Sheikh Ali Mohamud Rage. I guerriglieri si sono asserragliati nella residenza universitaria per ore e l’assedio è stato dichiarato concluso alle 20,30 ora italiana dopo una battaglia con le forze di sicurezza, esercito e polizia locale che avevano circondato il complesso.

Alcuni degli studenti liberati in mattinata hanno raccontato che tra le vittime dei qaedisti somali, alcune sono state decapitate. Citata dalla rete all news sudafricana ‘News24’, Winnie Njeri, una delle studentesse riuscite a scappare, ha dichiarato di aver “visto corpi senza teste”. Nel bilancio ufficiale, oltre i 147 morti ci sono 79 feriti ma mancano all’appello ancora almeno 150 persone tra studenti e professori. Degli 815 che risultavano presenti al momento del raid, solo 500 sono stati ritrovati. Quattro dei terroristi sono stati uccisi.




ITALIA – Donne e criminalità: la storia di Rossella Casini

Il 22 febbraio del 1981 all’età di venticinque anni sparì nel nulla Rossella Casini, una giovane fiorentina la cui unica imprudenza fu quella di sfidare da sola la ‘ndrangheta. Poco prima di sparire aveva chiamato suo padre per avvisarlo del suo ritorno a casa. Era una ragazza bellissima e perspicace, iscritta alla facoltà di psicologia e figlia unica di un operaio della Fiat e di una casalinga che non smisero fino alla loro morte di cercarla. Sua madre morì consumata dal dolore, senza sapere cosa fosse accaduto alla sua amata figlia. La vita di Rossella trascorreva spensierata fino a quando non conobbe nel 1978, uno studente in Economia, Francesco Frisina proveniente da Palmi. I due si fidanzarono sin da subito e la loro storia in origine rendeva Rossella e la sua famiglia molto felici. Nel 1979 suo suocero, Domenico Frisina fu assassinato da due sicari e qualche settimana più tardi Francesco fu ferito alla nuca. Rossella cercò di comprendere i motivi di ciò che era accaduto e ben presto scoprì che la famiglia Frisina era legata alla ‘ndrangheta ed implicata nel conflitto tra clan Condello e Gallico. Questa guerra portò ad una vera e propria mattanza che costò la vita a 54 persone. Rossella in un primo momento riuscì a convincere il suo fidanzato a collaborare con la polizia, ma dopo pochi giorni lui ritrattò. Interrogata dal magistrato Francesco Fleury, riuscì a inchiodare alcuni componenti dei clan. La famiglia Frisina allarmata dalla “fuga di notizie” richiamò a Palmi la ragazza e riuscirono grazie all’aiuto di un legale a farle firmare un documento in cui ritrattava tutte le dichiarazioni fatte al magistrato. Subito dopo Rossella svanì fino al 22 luglio 1994, giorno in cui suo padre Loreto lesse su un quotidiano la notizia dell’uccisione di sua figlia, i genitori non seppero più nulla di lei. A rivelare cosa fosse accaduto alla ragazza fu un pentito parlermitano, Vincenzo Lo Vecchio, lui affermò che la ragazza fu stuprata, uccisa e il suo corpo fu fatto a pezzi. La presunta mandante fu Concetta, sorella di Francesco, i presunti esecutori invece furono individuati in Domenico Gallico e Pietro Managò, ma il processo a loro carico durato nove anni, tra ritardi ed errori procedurali, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati. Nessuno ha mai pagato per la morte di Rossella e probabilmente la vicenda sarà archiviata, in quanto tutti i membri della famiglia Casini sono deceduti e dunque nessuno chiederà che venga fatta giustizia.




ITALIA – Ritornano i fatti di Genova. “Diaz, non lavate questo sangue”

Se questo è un uomo. Se questo è un individuo che ha scelto di svolgere una professione volta ad aiutare il suo prossimo e a tentare in tutti i modi di salvarlo. Se sempre questo essere umano ha giurato: “Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa” come può essere stato complice ed esecutore di sevizie a danno di persone indifese? Non ci è dato sapere le motivazioni che hanno spinto il dottor Giacomo Toccafondi, responsabile sanitario della caserma di Bolzaneto, a essere implicato in una delle vicende più vergognose della storia italiana, ossia quella inerente alle torture nei confronti degli ospiti della scuola Diaz durante il vertice del G8. La sera del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz fece irruzione un comando di Polizia che fu colpevole di un pestaggio definito dal vicequestore Michelangelo Fournier da “macelleria messicana” nei confronti di persone che erano a Genova per manifestare contro l’ assemblea dei capi di Stato degli otto paesi più industrializzati, in corso proprio nel capoluogo ligure. Gente che non ha opposto resistenza, pacifisti trattati alla stregua di terroristi. Alcuni di questi giovani furono condotti nella caserma di Bolzaneto dove subirono maltrattamenti senza rispetto alcuno, furono costretti a esporsi nudi a un pubblico di ominicchi pronti a deriderli, furono costretti a stare per ore in piedi e privati di ogni diritto umano. Giacomo Toccafondi avrebbe meritato per questo di essere radiato dall’ordine dei medici, ma i suoi colleghi lo hanno impunemente graziato infliggendogli una pena esigua, vale a dire sei mesi di sospensione dall’attività medica. Se questa si può definire una pena!  “Diaz, non lavate questo sangue”.