Le orme di Laetoli: primi passi femminili nella preistoria

I reperti paleoantropologici non sono costituiti solo da ossa e da manufatti. A volte la presenza dei primi ominidi è testimoniata da altre tracce altrettanto significative. È il caso delle “orme di Laetoli”, impronte perfettamente conservate nel tufo solidificato formatosi dalle ceneri di un antico vulcano.

Cosa ci dicono queste orme rinvenute nella località di Laetoli in Tanziania a circa 45 km a sud di Olduvai, uno dei più importanti siti archeologici africani, ricco di ritrovamenti che hanno avuto un ruolo determinante per quello che riguarda la comprensione dell’origine dell’Umanità?  Nel 1977, durante una spedizione guidata dalla famosissima paleoantropologa inglese Mary Leakey (di cui parleremo nel prossimo numero), ad opera di un membro del team, il dottor Paul I Abel, vennero alla luce queste impronte dalle caratteristiche morfologiche tipicamente umane. Si possono infatti rilevare il tallone moderno,  l’arco plantare perfettamente formato e l’allineamento dell’alluce con le altre dita, a differenza delle scimmie antropomorfe che hanno l’alluce divergente del piede prensile. Poi le orme: due tracce facilmente distinguibili, di due individui di dimensioni diverse, che camminavano affiancati. Le più grandi appartenevano a un maschio adulto, quelle più piccole a una femmina di corporatura più minuta. Ma non è tutto: si possono mettere in evidenza altre orme ancora più piccole probabilmente appartenenti a un cucciolo che cammina, quasi saltellando, mettendo i piedini nelle impronte del grande maschio. Si può ipotizzare che sia una famigliola preistorica composta da un padre, una madre e un figlio che proseguono la loro marcia in un territorio ostile e pericoloso. Ma si tratta di un avanzare tranquillo: l’intervallo tra le orme indica l’ampiezza di un passo normale. La famigliola si spostava senza fretta, probabilmente alla ricerca di cibo e acqua, mentre all’orizzonte il vulcano rumoreggiava emettendo ogni tanto sbuffi di cenere,

Si tratta del vulcano Sadiman, attivo in quell’epoca, ossia quasi tre milioni e mezzo di anni fa, secondo le datazioni radiologiche al potassio-argo. A seguito di un’eruzione, nel luogo si depositò uno strato di cenere di circa 1,5 cm; una breve pioggia trasformò la cenere in fango su cui si impressero le impronte di quei lontani viandanti (circa una cinquantina) per un tratto di quasi 23 metri. Successivamente il sole solidificò il fango trasformandolo in tufo. Un’ulteriore eruzione seppellì il tutto sotto uno strato di cenere conservando intatte le orme.

I metodi di datazione radiometrica al potassio-argo hanno confermato l’antichità di queste orme che dovevano appartenere a individui del genere Australopithecus afarensis, insomma, parenti di Lucy!

 




Le donne nella preistoria. Lucy

La storia dei ritrovamenti paleontologici umani è fatta di tanto lavoro, pazienza e fortuna, come quella che ebbe il paleoantropologo statunitense Donald C. Johanson quando si accorse che dal terreno vicino al campo base africano dove era iniziata una campagna di scavi emergeva un fossile di osso umano. Era il 24 novembre del 1974 e dopo quel primo reperto ne emersero vari altri che risultarono appartenere allo stesso individuo di sesso femminile, come testimoniava la struttura del bacino. Questa femmina di circa tre milioni e duecentomila anni fa, in base alle datazioni più attendibili, venne familiarmente chiamata dai ricercatori Lucy perché in quei giorni al campo base si ascoltava una famosa canzone dei Beatles: Lucy in The Sky With Diamonds. Nella lingua locale, l’aramaico, Lucy è chiamata Dinginesh che vuol dire “Tu sei meravigliosa” mentre il suo nome in codice è: A.L.288 (cioè Afar Locality 288).

Da allora quel reperto è passato alla storia come Lucy, anche se il suo nome scientifico è Australopithecus afarensis. Il nome è composto da due parti: la prima, con l’iniziale maiuscola, indica il Genere – Australopithecus ossia scimmia dell’emisfero australe; la seconda, con l’iniziale minuscola, indica la specie – afarensis ossia della regione dell’Afar in Etiopia, a circa 60 km da Addis Abeba, dove venne ritrovata.

Si tratta di una femmina adulta, alta circa un metro e del peso approssimativo di 30 kg.

Lo scheletro, completo al 40%, presenta alcune caratteristiche sicuramente umane, come la statura eretta e la locomozione bipede, testimoniate dalla struttura delle ossa lunghe degli arti inferiori. Accanto a questi caratteri se ne trovano altri ancora primitivi quali l’assenza del mento, la fronte sfuggente e la piccola capacità cranica, circa 350 centimetri cubici, di poco superiore a quella di uno scimpanzé.

FOTO. Lo scheletro di Lucy

Lucy doveva avere circa 18/20 anni quando morì e, considerando che la vita media degli Australopiteci era di circa venticinque anni, la si può ritenere una femmina adulta.

Dalla dimensione dei denti e dallo spessore dello smalto si può ipotizzare che avesse una dieta prevalentemente a base di cibi coriacei, probabilmente radici, raccolti nei continui spostamenti alla ricerca di cibo.

Probabilmente nel corso di uno di questi spostamenti venne sorpresa, insieme ad altri membri del suo gruppo (nello stesso strato geologico sono stati rinvenuti i resti di altri tredici individui) da un’improvvisa inondazione. Il corpo, sommerso dal fango, si fossilizzò restando quasi intatto e attraverso milioni di anni, giunse fino ai giorni nostri.

Gli Australopiteci, nella classificazione paleoantropologica, non sono ancora Genere Homo ma appartengono alla stessa Famiglia, quella degli Hominidi.

Si tratta di una linea evolutiva partita circa sette milioni di anni fa in Africa dove, in quel periodo, grandi sconvolgimenti climatici avevano portato a un progressivo diradamento delle foreste e a un aumento delle savane. In questo nuovo habitat la strategia evolutiva vincente fu l’acquisizione della statura eretta e della locomozione bipede, che permisero di osservare meglio i dintorni, dare l’allarme in presenza di predatori e correre velocemente avendo liberi gli arti superiori per trasportare, per esempio, i cuccioli.

Inoltre, la locomozione bipede ebbe il fondamentale risultato di liberare la mano, permettendo l’acquisizione di tutta una serie di capacità che contribuirono allo sviluppo del cervello.

In questo lungo cammino, durato milioni di anni e costellato da tutta una serie di ritrovamenti altamente significativi è di fondamentale importanza la presenza di reperti femminili che andremo a esaminare nei prossimi articoli.