RAWA, le donne rivoluzionarie dell’Afghanistan

Nell’Afghanistan martoriato dai regimi e dalle bombe, è attiva fin dal 1977 una piccola organizzazione che lotta per i diritti delle donne e per la democrazia: si tratta di RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan), fondata dall’attivista Meena Keshwar Kamal a Kabul.

L’associazione nasce con lo scopo di promuovere la democrazia, l’alfabetizzazione (nel Paese vi è uno dei tassi più bassi di alfabetizzazione), i diritti delle donne e di combattere la dittatura (che sia quella sovietica o quella del fondamentalismo islamico poco importa), l’ignoranza voluta dai regimi e soprattutto la repressione della libertà delle donne.

L’ambito dei diritti delle donne va di pari passo con quello di giustizia sociale ed è per questo che RAWA negli anni si è impegnata anche attraverso la costruzione di orfanotrofi, ospedali, scuole, aiuti per i rifugiati e per chi scappa dalla guerra.

Ma facciamo un passo indietro: in un Paese come l’Afghanistan un’associazione del genere non ha vita facile. E in effetti, nel 1980 Meena – che è la fondatrice – decide di spostare la sede operativa da Kabul a Quetta, nel vicino Pakistan. Meena dedica tutta la sua vita a questa organizzazione, in senso letterale: nel 1987 viene infatti uccisa dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e da quel giorno è la martire del movimento.

Il suo esempio, però, non scoraggia ma piuttosto brilla, infonde speranza, tanto che RAWA resiste ed è operativa persino durante il governo dei talebani (1996-2001), che impongono un regime teocratico basato su un’interpretazione fondamentalista della Shari’a con dirette conseguenze sulla vita delle donne. Dopo l’invasione dell’Afghanistan del 2001, poco è cambiato e le lotte restano quelle di sempre: contro un’interpretazione fondamentalista dell’Islam e a favore di una democrazia reale.

Come fare tutto questo, come portare avanti la loro lotta? Prima di tutto attraverso la parola, importante veicolo di messaggi rivoluzionari. È per questo che RAWA pubblica “Payam-e-Zan”, un giornale bilingue (in persiano e pashtu) su cui vengono sviscerate le tematiche più importanti (dal rifiuto della guerra all’autodeterminazione delle donne).

FOTO 1. http://pz.rawa.org/pz/

La parola però non è solo quella scritta: le militanti di RAWA si muovono, partecipano a dibattiti internazionali, si mostrano nei canali della tv afghana dal 2006, dove per la prima volta avviene uno storico dibattito con un sostenitore dell’integralismo islamico.

Ma la più importante di tutte è la parola che viene insegnata. RAWA promuove l’alfabetizzazione di donne e bambini, spesso in clandestinità e a domicilio, affiancandovi l’insegnamento della tolleranza e del rispetto delle diversità: un’azione pervasiva, che parte dal basso e si muove su un piano orizzontale, sia in Afghanistan che in Pakistan. Del resto, RAWA si impegna anche nel campo della giustizia sociale e nel tempo è riuscita a costruire cliniche e a operare con team mobili di medici all’interno di campi profughi, garantendo un servizio gratuito a donne, bambini e uomini che non hanno altre possibilità di cura.

Al sociale e ai diritti delle donne si aggiunge la battaglia politica e in particolar modo il rifiuto della guerra. Le donne di RAWA denunciano senza se e senza ma la situazione in cui versa l’Afghanistan: nulla è cambiato dal 2001, lo scettro del potere è passato di mano in mano ed è sempre dei “signori della guerra”, ma la vita all’interno del Paese è sempre la stessa, soprattutto per le donne. Se un cambiamento ci deve essere, deve avvenire in direzione della pace, della democrazia e del secolarismo (come recita lo slogan dell’associazione).

Revolutionary Association of Women of Afghanistan (http://www.satyamag.com/oct05/rawa.html)

Nonostante le difficoltà, però, anche la battaglia prosegue e ha l’obiettivo di espandersi. Già a livello internazionale le donne di RAWA sono conosciute e spesso sostenute: Iran, Italia e Sudan sono fra gli Stati che contano maggiori iscritti all’associazione, ma il supporto giunge anche da organizzazioni territoriali del Giappone, dall’Australia, da quegli stessi Stati Uniti che ne hanno provocato la caduta in una guerra senza fine.

Il supporto da parte della comunità internazionale si trasforma in operatività sul territorio e quindi, negli ospedali, le volontarie insegnano a scrivere a bambine e vedove, scuole di inglese. «Siamo fermamente convinte» si legge sul sito dell’associazione, «che la conoscenza è un grande potere e che farà crescere la consapevolezza delle donne dei loro diritti e del loro posto nella società».

 

 

 




I moti del 1820

A soli cinque anni di distanza dal Congresso di Vienna la stabilità inizia a scricchiolare.

La prima rivolta nasce nelle periferie d’Europa.

Gli anni Dieci dell’Ottocento avevano visto sorgere e rafforzarsi un notevole fermento politico e sociale in America Latina che porterà numerose colonie spagnole e portoghesi a ottenere l’indipendenza, privando la madrepatria di gran parte delle entrate che derivavano dalle miniere e dai latifondi sudamericani. Inoltre, la Spagna è stata il Paese più duramente colpito dalla Restaurazione. Contagiati dai fatti d’oltreoceano, i primi a insorgere sono i soldati che stavano per imbarcarsi a Cadice per andare a reprimere i tentativi di liberazione latinoamericani. E la loro ribellione incontra subito l’appoggio popolare. Il Re è costretto a ripristinare la Costituzione di Cadice del 1812, carta di tendenze liberali (in copertina: Dia 10 de marzo de 1820 en Cadiz, Puerta de Tierra).

La notizia fa il giro d’Europa in fretta.

Un’altra rivolta scoppia in Portogallo, dove il Re concede una Costituzione simile a quella di Cadice. La popolazione insorge anche in Piemonte e a Napoli: il Re Vittorio Emanuele I di Savoia abdica e il successore Carlo Alberto concede anche lui una Costituzione, una legge inviolabile che sancisca diritti e doveri dei sudditi e del sovrano, limitando di fatto il potere di quest’ultimo.

Con grande fatica gli eserciti restauratori ripristinano l’ordine. Con una brutale repressione, la Francia interviene in Spagna, l’Austria in Italia e l’Inghilterra in Portogallo. Ma ormai è chiaro che la pace di Vienna è sotto scacco.

L’altra periferia d’Europa che insorge è la Grecia, stavolta per liberarsi dell’Impero Ottomano, unico Stato islamico. Già nel 1815 la Serbia aveva ottenuto l’indipendenza con l’appoggio russo, e anche in questo caso la Russia aiuta la Grecia, insieme a tutta la Quadruplice Alleanza.

La spiegazione di questo fatto si trova in due motivi fondamentali: il primo è che una potenza islamica in Europa non piace affatto agli imperi cristiani e ogni pezzo di terra che le viene sottratto toglie peso a tale preoccupazione, il secondo è che la Russia ortodossa punta all’egemonia su tutti i Paesi slavi e su tutti i popoli di cultura cristiana ma non cattolica (ovviamente fatta eccezione per l’Inghilterra), quindi sull’intera area balcanica.

In cambio di accettare l’imposizione di un Re austriaco, le potenze europee aiutano la lotta per l’indipendenza greca, che viene ottenuta nel 1823.

I moti ottocenteschi vedono nascere in Europa società segrete di idee liberali e democratiche avanzate, vietate e represse dai rispettivi governi per le loro finalità insurrezionali. La più nota di queste è la Carboneria, così chiamata perché i suoi membri agiscono camuffati da venditori di carbone. Le donne legate a questa società sono invece dette giardiniere. La storiografia ufficiale da un lato ha cancellato del tutto la partecipazione femminile ai moti e dall’altro ha raccontato quella maschile solo in chiave nazionalistica e patriottica, non menzionando il carattere rivoluzionario di tali organizzazioni.

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