La tattica dello struzzo

Dagli adulti più prossimi fin da piccoli si impara, non solo con le parole e gli esempi ma anche attraverso i silenzi, che cosa è il rapporto con il proprio corpo e con quello dell’altro/a; si imparano affettività, amore, piacere, relazione, rispetto, responsabilità.

Di “certi” argomenti però, oggi come in passato, genitori o insegnanti non vogliono parlare, o ne parlano con reticenza, con imbarazzo. Ne hanno paura, o non sono preparati, o li ritengono temi scottanti e difficili: con questo suggeriscono che siano cose scabrose o malsane. Una famiglia su tre non ha mai affrontato il tema e due terzi dei genitori hanno difficoltà a parlarne con i figli.

E allora a chi si ricorre? I ragazzi e le ragazze si arrangiano come possono, dove possono.

Le statistiche dicono che i giovani imparano la sessualità anzitutto dagli amici (30%) e dalla rete (60%), poi da libri e riviste (13%); solo in ultima istanza dalla propria madre (10%) o dal proprio padre (7%). Ai/alle docenti spetta la percentuale più misera: 5%. Secondo l’Osservatorio su minori di Torino, il 72% degli adolescenti quando ha dei dubbi cerca risposte su Internet.

Precoci, disincantati ma sempre meno informati: è questo il ritratto del rapporto sugli adolescenti italiani disegnato dal XXV Congresso nazionale della Società italiana di andrologia.

Il materiale pornografico è il modello di riferimento prevalente, quando gli adulti latitano. Ilaria Bonato presenta una ricerca tra 600 studenti e studentesse bolognesi tra i 13 e i 16 anni: solo tre giovani su dieci non guardano video porno (i siti porno in rete sono 2 miliardi). L’88% delle ragazze trova la pornografia violenta e volgare, contro il 12% dei maschi, ma per un terzo di loro il sesso reale non è diverso da quello mostrato nella pornografia. Del resto il 16% la trova utile per imparare, il 12% la ritiene divertente e per il 27% è normale esserne curiosi.

Si registra un allarmante distacco fra affettività e sessualità.

Sull’amore fisico conoscono solo parole grevi, volgari, animalesche. Le ragazzine parlano di sesso come di caramelle, poiché restare vergine è “da sfigate”: “ho fatto quello, proverei quell’altro, l’importante è non restare fregata”. La maggioranza di loro – nonostante i precoci esordi – si muove alla cieca, è afflitta da conoscenze approssimative e da convinzioni sbagliate.La stragrande maggioranza ignora l’esistenza dei consultori.

Secondo un sondaggio condotto dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia su un campione di adolescenti, il 18,9% dei maschi e il 14,8% delle femmine ritiene ragionevole avere rapporti sessuali completi fin dai 14 anni.

Solo il 39%  di loro usa abitualmente il preservativo, il 37% ritiene inutile l’utilizzo combinato di pillola e preservativo, il 14% li considera un ostacolo al rapporto.

In questo quadro, la demonizzazione dell’educazione sessuale a scuola pare davvero colpevole, giocata com’è sulla pelle dei nostri figli e delle nostre figlie.

La Chiesa fa muro e la classe politica si adegua: decenni di proposte per introdurne l’insegnamento tra i banchi e neanche una legge in materia, anzi reazioni furiose da parte del fronte antigender. Il dibattito non è nemmeno più all’ordine del giorno nel nostro Paese, dove la prima proposta di legge risale al 1910.

Occhio non vede, cuore non duole: una tattica fin troppo vecchia, una mastodontica ipocrisia ai danni di generazioni sempre più disorientate.

 

 

 

 

 




Interroghiamo il fuori tema

Molti assassini di donne si suicidano dopo aver compiuto il femminicidio: l’ultimo caso – avvenuto a Prato – ce lo ricorda. Distruggono se stessi con l’oggetto di attaccamento (a volte coinvolgendo anche figli e figlie), poiché per loro non esiste distinzione tra i soggetti. 

Qui sta la loro “anormalità”, ma davvero è solo la loro?

Questo dato agghiacciante parla delle patologie non di singoli, non di culture lontane e arretrate, ma di una cultura attuale, la nostra: parla di una concezione diffusa che esalta l’amore fusionale e la coppia romantica, che in loro nome non vede la vocazione al controllo e giustifica l’incapacità di elaborare i lutti e le perdite.

Dobbiamo ragionare a fondo su quanto è nascosto nelle relazioni intime, nella vita delle coppie, nei rapporti familiari. Dobbiamo trovare il coraggio di portarlo alla luce senza temere che questo comporti complicità con gli assassini.

Finalmente nominiamo il potere, ma troppo a lungo abbiamo eluso il nesso tra amore e violenza, nonostante il lavoro magistrale di Lea Melandri (Amore e violenza; Come nasce il sogno d’amore):

Separandosi, la donna non colpirebbe solo un privilegio e un potere indiscutibile della maschilità, ma l’amore di sé, la fonte prima, rimasta tale anche nell’età adulta, dell’autoconservazione. Il fatto che chi uccide spesso riservi a sé la medesima sorte sembra esserne la conferma.

Abbiamo preferito ignorarlo, perché fa male, destabilizza e può mettere in crisi racconti antichi di amori salvifici, idealizzazioni comode di universi incantati dal “per sempre”, forti desideri inconsci di risarcimenti: composizioni utopiche di interezza, “due in uno”, metafore potenti di pezzi di mela che si ricongiungono, sogni di beatitudini originarie, armonie perfette, reciproche indispensabilità. In definitiva, indistinzioni tra soggetti (“senza di te non sono niente”). 

Troppo facile, persino liquidatorio ripetere “questo non è amore”, come se l’amore non abbisognasse di aggettivi: come se non conoscessimo legami esclusivi, legami perversi, amori malati, amori masochistici, amori che fagocitano, passioni abusanti, abbracci mortali. 

Nella postmodernità è cambiato il sogno d’amore? La commercializzazione della sessualità ha avuto almeno il vantaggio di svelare le trappole del sogno romantico? L’autodeterminazione conquistata dalle donne con l’emancipazione economica ha ridotto almeno la necessità della dipendenza emotiva?

Da quanto posso ascoltare nelle scuole e tra la gente io non lo credo; sono convinta che sia arrivato il momento di portare il tema in primo piano, nelle discussioni pubbliche e nei discorsi privati.

Troppo ne stiamo tacendo con i nostri figli e le nostre figlie, senza accorgerci che spargendo miele a piene mani facciamo loro del male e che li prepariamo male alla vita.




Trascurare in coppia

Come già introdotto negli articoli precedenti, appare chiaro dal mio osservatorio professionale che rappresentarsi l’alta frequenza delle situazioni di crisi delle relazioni come un improvviso quanto stupefacente “malfunzionamento” degli individui dentro il sistema-coppia non ci aiuta a comprendere alcuni meccanismi ricorrenti che invece appartengono in tutta evidenza al piano storico-sociale. Questo non significa certo che, se le coppie scoppiano, è tutta “colpa” della società e che gli individui non c’entrano niente (tutt’altro, gli individui fanno come sempre la loro parte in commedia interpretando perfettamente il ruolo a loro assegnato), ma significa che per capire cosa accade dobbiamo interrogare la storia e i suoi rapidi e recentissimi mutamenti, dentro i quali ognuno si muove con la propria personalità.

Prendiamo il frequentissimo caso della progressiva trascuratezza tra i membri della coppia e/o della trascuratezza dei singoli individui con se stessi nel prosieguo di una relazione, fatto questo all’origine di molti disappunti e conflittualità delle coppie contemporanee. Ci si trascura e ci si lascia andare fisicamente e contemporaneamente si diventa progressivamente meno attenti ai bisogni dell’altro come parte dei propri, sia riguardo agli aspetti fisici che emotivi e affettivi, sia rispetto alla sessualità. Ci si ritrova sempre più soli e distanti dall’altra/o senza capire come questo sia avvenuto, anche nel volgere di poco tempo.

I sistemi motivazionali che reggono le fortune e le sfortune delle coppie sono intimamente legati al concetto di “cura” sia riguardo all’altro come oggetto di attenzioni accudenti fisiche ed emotive, sia riguardo al prendersi cura del piacere, proprio ed altrui, relativamente alla sessualità. Accudimento e sessualità sono due pilastri motivazionali che, qualora funzionanti, accompagnano le coppie di lungo corso e, viceversa, crollano nelle coppie che si insabbiano strada facendo.

Ma cosa è cambiato sul piano storico-sociale riguardo l’idea del “prendersi cura” nella coppia in modo tale da disorientare in maniera così drammatica le ultime generazioni di coppie?

È cambiato tantissimo, ma forse l’aspetto più spaesante riguarda il senso di responsabilità che gli individui sentono di assumere nei confronti del proprio partner. 

Tutti noi proveniamo da famiglie nelle quali, quasi sempre, tale responsabilità dei singoli membri era fortemente mediata da vincoli e codici sociali ben precisi, sottolineati da precise ritualità e anche da vincoli giuridici. La/il coniuge doveva prendersi cura dell’altro/a a prescindere da innumerevoli aspetti più o meno gradevoli del/la proprio/a partner. Era un impegno per la vita, stop. Ci si turava il naso (non solo metaforicamente) e si andava avanti.

Oggi questa responsabilità si è fortemente diluita ed è sempre più diventata “negoziale”, ovverosia, il vincolo di responsabilità reciproca è valido fino a prova contraria, fino a quando tornano i conti. Ma questi conti attengono il più delle volte a valutazioni dell’individuo e dei suoi criteri di soddisfazione e di felicità.

La coppia, questa strana creatura, è però croce e delizia. È sia fonte di massima gioia e riconoscimento che fonte di massima frustrazione e negazione. Si crea perciò un gigantesco conflitto tra criteri di valutazione, vecchi e nuovi, come due software che entrano in conflitto sullo stesso sistema operativo: da un lato il criterio di responsabilità reciproca misurato alla maniera di qualche generazione fa (e sempre presente in noi) secondo vincoli eterni, glissava sugli aspetti frustranti e neganti (erano le donne soprattutto che sopportavano in silenzio) decentrando la coppia a favore della famiglia e i figli; dall’altro lato, il criterio di responsabilità reciproca, misurato alla maniera odierna, sul proprio tornaconto individuale in termini di felicità, fa saltare in ogni momento tutti i conti e crea perciò disorientamento e confusione. 

Come detto già altrove, non sono affatto un nostalgico. Oggi diamo, giustamente a parer mio, maggiore attenzione al benessere degli individui anche laddove s’ingaggiano in progettualità di coppia e famiglia, ma perdiamo di vista l’aspetto di “trascendenza” (lo dico in senso laico), cioè di decentramento che tale ingaggio comporta laddove la coppia, per sua specificità, punta a diventare famiglia e luogo di progettualità.

Le coppie contemporanee fanno ancora molta fatica a integrare gli aspetti della cura di sé e dell’altro con gli aspetti di decentramento legati alla dimensione trascendente dell’essere un’entità plurale.