L’infibulazione non è citata nel Corano, ma è in auge in Egitto, Eritrea, Guinea, Senegal, Somalia e Sudan

“I miei genitori hanno organizzato una festa e alcuni parenti sono venuti a vedere la mia cicatrice”; “Mia sorella è morta, la mano della nonna, non è più precisa come un tempo”; l’infibulazione nonostante sia una pratica disumana e le pene nei confronti dei medici che si prestano nell’operare clandestinamente le piccole pazienti, siano severissime, continua ad essere praticata in tutto il mondo. Migliaia di persone in tutto il mondo,ogni giorno si uniscono al grido di sdegno di chi da anni combatte contro le mutilazioni genitali delle donne e grazie a loro qualcosa si sta muovendo, infatti, a giugno, la Nigeria è stato il primo Stato africano a vietarla in maniera ufficiale. Auspicandoci che dopo di essa, molti altri Stati africani si esprimano in tal senso, è importante chiarire che l’infibulazione non ha origini islamiche, in quanto non è citata nel Corano, come peraltro non sono ammesse pratiche che possano in un certo modo mutilare il piacere femminile, ma è stata di sicuro generata da menti grette e per nulla empatiche. Sebbene, nel suddetto libro sacro, non le venga data alcuna rilevanza, l’infibulazione è in auge nei paesi in cui il culto islamico è prevalente come Egitto, Eritrea, Guinea, Senegal, Somalia, Sudan.




UNGHERIA – Posizioni xenofobe del premier Orban, barriera al confine con la Serbia

Dopo che l’immagine di uomini, donne a bambini stipati in treni diretti verso campi profughi ha fatto il giro del mondo, sollevando l’indignazione della società civile, l’Ungheria torna a far parlare di sé per le proprie posizioni razziste e xenofobe.

Secondo il premier Viktor Orban, infatti, l’immigrazione illegale è una “minaccia per l’Europa”, in quanto mette a rischio “l’identità culturale europea”. Ciononostante, s’è lamentato il presidente, l’Ue non fa nulla per difendersi dalle “masse di clandestini” che contribuiscono “a far prosperare terrorismo, disoccupazione e criminalità”.

Proprio a fronte di simili convinzioni, il governo ha già deciso di realizzare una barriera sul confine con la Serbia: “Questa gente doveva essere fermata e registrata già in Grecia, perché sono entrati in Ue da lì”, ha tuonato il vicepremier Janos Lazar. “A quel che mi risulta, nei Balcani non c’è attualmente alcuna guerra. Hanno pagato dei trafficanti, in Serbia, e vengono trasportati a bordo di autobus fino al confine ungherese. Costruiamo una barriera proprio per farla finita con tutto questo”.

Intanto, il passaggio illegale in Ungheria sarà qualificato come reato invece che come semplice contravvenzione, come accadeva fino ad oggi.

Sono attorno a 1400-1500 gli immigrati sbarcati in Sicilia negli ultimi giorni. Gran parte e’ approdata nel porto di Palermo a bordo di un rimorchiatore norvegese inserito nel dispositivo Triton: ben 785, africani e siriani, molte donne e molti minori, per lo piu’ non accompagnati. Dei nuovi arrivati, un centinaio restera’ nell’Isola; per gli altri e’ stato disposto il trasferimento nelle altre regioni del Paese. A Pozzallo sono arrivati invece in 468, a bordo di una nave militare irlandese. Tra loro sette donne in gravidanza. E poi 102 arrivati a Trapani; tra loro 24 donne (di cui tre in gravidanza), 12 minori non accompagnati, e due neonati. Cinque migranti sono stati trasferiti all’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani per accertamenti sanitari. Nel frattempo sembra aggravarsi il bilancio del naufragio al largo della Libia. Alle circa quaranta vittime di cui hanno parlato i superstiti, se ne aggiungerebbero altre cinque, in base alle testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie presenti sul posto. Sarebbero dunque 45 le vittime, secondo le loro ricostruzioni. Tra le ipotesi della tragedia, anche quella di un possibile incidente in mare nelle concitate fasi dei soccorsi: il panico e la foga per mettersi in salvo avrebbe provocato il dramma.

Dei 785 giunti a Palermo sulla nave norvegese Siem Pilot, 133 sono donne, due delle quali in stato di gravidanza e 27 bambini. La maggior parte proviene dall’Eritrea (766) gli altri da Siria, Bangladesh, Etiopia e Sudan. In particolare, tra i profughi in condizioni fisiche piu’ delicate, sono scesi un non vedente e un uomo e una donna in iperglicemia acuta che hanno avuto bisogno dell’intervento immediato dei sanitari dell’Asp. Gli altri migranti, alcuni con problemi dermatologici, sono complessivamente tutti in buone condizioni di salute. La gran parte dei migranti saranno trasferiti nei centri di prima accoglienza delle varie regioni italiane. Circa una settantina , per pochi giorni, verranno accolti dal centro San Carlo e Santa Rosalia della Caritas.

Al porto, sotto il sole cocente, ad attivarsi anche 28 volontari della Caritas con due operatori. Si tratta di persone, giovani e non, che hanno risposto all’appello lanciato nei giorni scorsi dalla Caritas che invitava i cittadini a farsi avanti per partecipare attivamente alla distribuzione di cibo, acqua e scarpe ai profughi durante lo sbarco. Sono stati preparati all’alba e distribuiti al Porto dalla Caritas ben 2800 sacchetti con il pasto che i migranti porteranno con loro nel viaggio per le diverse destinazioni e oltre cento paia di scarpe. “Continuiamo a verificare con piacere – afferma Anna Cullotta, coordinatrice dei volontari della Caritas – che, nonostante il sole cocente, tanti giovani e meno giovani si stanno spendendo, in pieno spirito di gratuita’ con grande energia, nei confronti dei primi bisogni dei migranti. L’invito che continuiamo a rivolgere alla cittadinanza e’ quello di partecipare attivamente al porto, non soltanto per rispondere al bisogno che abbiamo ma anche per potere fare un’esperienza umana molto forte”. Tra i migranti giunti a Pozzallo, invece, 41 sono donne e 42 i bimbi. Nove donne in gravidanza sono state trasferite per controlli, negli ospedali di Ragusa, Vittoria e Modica. Un uomo e’ stato ricoverato a Ragusa. I migranti provengono da Bangladesh, Nigeria, Etiopia, Siria, Senegal, Costa D’Avorio, Guinea, Marocco e Somalia.




ITALIA – Morti bianche: due storie recenti

Incidente sul lavoro  al Petrolchimico di Marghera. Il lavoratore era di origine albanese e ha perso la vita a causa della pressione di una pompa idraulica a cento atmosfere. Immediato l’intervento di ambulanza e automedica arrivate poco dopo che i primi soccorsi del responsabile sanitario dello stabilimento allarmato dai colleghi del’operaio. La vittima era dipendente di una ditta in appalto – la Sirai Srl – ed è deceduta nella zona del cracking dove stava lavando dei serbatoi con una pompa ad alta pressione.

La segreteria della Filctem Cgil di Venezia sottolinea che il sindacato denuncia di continuo la pericolosità del ricambio degli appalti basati sul massimo ribasso. Questo porta con sé la riduzione delle tutele dei diritti e delle tutele dei lavoratori. La Filctem Cgil chiama in causa l’Eni e le principali imprese di appalto perché vengano a confrontarsi sulle regole che vadano a tutelare a pieno i lavoratori con azioni di prevenzione e nella gestione corretta delle spese nel bilancio dedicate a salute e sicurezza. Invece – dice la Filctem – ad oggi la sicurezza viene vista come un costo aggiuntivo e non come una opportunità per qualificare il lavoro.

Miceli (Filctem), basta lavoratori appalti di serie B
“Accertare subito le responsabilità; seguiremo con grande attenzione l’evolversi della situazione, senza fare sconti a nessuno” . A dirlo è Emilio Miceli, segretario generale della Filctem. “Purtroppo – ha aggiunto il dirigente sindacale, che ha espresso le condoglianze e la solidarietà della sua organizzazione alla famiglia del lavoratore scomparso –, in Italia, i lavoratori in appalto sono ancora considerati di serie B, con scarsi diritti e tutele”.

Marghera, 22 luglio prima ora di sciopero
“A pochi giorni dall’incidente che ha visto come vittima un lavoratore in nero a Favaro Veneto dobbiamo registrare con sdegno e rabbia l’ennesima morte sul posto di lavoro. Ancora una volta si tratta di un dipendente di una ditta in appalto”. Così un comunicato della Cgil Venezia. Prima ora di sciopero dei chimici di Cgil Cisl e Uil, alla quale aderiranno categorie impegnate al Petrolchimico.

“Crediamo che, da subito, si debba affrontare seriamente la questione degli appalti su scala nazionale, con una legge che ne regoli le modalità e che scardini finalmente la logica del massimo ribasso. In questi giorni, in tutta Italia si sta impennando il numero di incidenti mortali. Nella gran parte dei casi, le vittime sono proprio di lavoratori impiegati nelle ditte in appalto. Questa è un’emergenza – lo sottolineiamo con forza -, da affrontare subito. Il periodo di crisi ha incrementato gli incidenti sul lavoro, che sono assolutamente sottostimati dai dati ufficiali, proprio perchè è altissimo il ricorso al lavoro irregolare, l’utilizzo degli appalti senza controllo che portano alla mancata denuncia o al camuffamento degli infortuni. La crisi ha portato come conseguenza l’abbassamento della qualità e la sicurezza del lavoro in una perversa spirale al ribasso. Invece, pensiamo che sia urgente prendere di petto la questione della qualità e della sicurezza del lavoro, perché sono questi i requisiti per una sana ripresa dell’economia del nostro Paese”, prosegue la Camera del Lavoro.

Nel caso del Petrolchimico, saranno le indagini degli organi competenti a dire se la ditta era in regola con tutte le prescrizioni di legge. Chiediamo a Eni di verificare la regolarità degli appalti, che ha stipulato sia al Petrolchimico che in Raffineria, visto che sta al committente garantire la gestione di tutte le fasi della filiera. Nei mesi scorsi, il sindacato ha tenuto un tavolo in Prefettura sulla sicurezza in Fincantieri. Chiediamo che un analogo incontro avvenga per Eni, al fine di predisporre azioni di prevenzione, piani formativi e bilanci che prevedano il giusto peso per le voci sicurezza, salute e tutela ambientale. I diritti e le tutele dei dipendenti diretti devono essere estesi a tutti i lavoratori a prescindere dall’azienda di provenienza. Questo deve avvenire in tempi stretti ed essere finalizzato ad una buona contrattazione sugli appalti. Contrattazione che deve avere come priorità la regolarità dei capitolati e la tracciabilità delle imprese in appalto. In qualsiasi caso, la Cgil ribadisce che nel terzo millennio non si può ancora morire di lavoro e porterà avanti in tutte le sedi il diritto dei lavoratori e dei cittadini ad avere delle aziende che rispettino la vita, la dignità e la sicurezza di tutti. Anche in questo caso, la Cgil è vicina alla famiglia ed è a disposizione per risolvere le pratiche legali e previdenziali”, conclude il sindacato.

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Un bracciante impegnato in Salento nella raccolta dei pomodori è morto dopo un malore mentre stava lavorando sotto il sole in un campo di raccolta nelle campagne tra Sant’Isidoro e Avetrana, nel tarantino. Si tratta di uomo di 47 anni proveniente dal Sudan. L’uomo, lavoratore stagionale presso una ditta di ortofrutta di Nardò, era impegnato nella raccolta di pomodori, ad una temperatura molto vicina ai 40 gradi, ha accusato un malore, dal quale non si è più ripreso. stando ad alcune testimonianze raccolte sul posto, l’ambulanza sarebbe arrivata troppo tardi perchè sarebbe stata chiamata dopo due ore circa.




International day of Happiness, ma il mondo guerreggia in 30 conflitti

Siamo caduti nel buco nero di un conflitto di tutti contro tutti di cui non si intravede la fine eppure oggi si festeggia il giorno della felicità. Quale? E dove prenderla? Perchè si dovrebbe essere felici se non si riesce nemmeno a essere contenti? Trovo che questa sia la festa più ipocrita che potessero istituire, visto che non riescono a garantire un sano tenore di vita nemmeno ai cittadini dei paesi più ricchi e sviluppati del mondo. Ormai sopravviviamo e lo dimostrano  le indagini per la misurazione della F.i.l. (Felicità interna lorda. Il termine FIL fu coniato all’inizio degli Settanta dal re del Butan, Jigme Singye Wangchuck), che prendono in esame variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili. Anche questa, tra crisi e guerre, con il Pil ha raggiunto i minimi storici.

Essendo la  socialità  la tendenza innata degli individui a convivere tra di loro, la nostra vita è tanto più felice quanto più ricche sono le nostre relazioni sociali. Perciò il concetto di benessere basato sul reddito o sul reddito pro capite deve essere allargato per includere variabili economiche diverse e considerare un insieme ampio di indicatori, quali  il numero di ore lavorate, il tasso di disoccupazione, la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita, per valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci oppure attraverso indagini nella popolazione che stimino il grado di soddisfazione percepito dai cittadini.

La classifica che mette al primo posto il Costa Rica,  definendolo il paese più felice del mondo,  non  include nell’elenco i paesi più infelici e forse bisognerebbe invertirla e domandarsi qual è il paese più infelice.

Mentre le guerre in Siria, Iraq e Ucraina riscuotono l’interesse dei mezzi d’informazione occidentali, sono una trentina gli altri conflitti di cui si parla pochissimo e che, in assenza di interventi, continueranno a colpire milioni di persone.

Le guerre civili nella regione del Darfur e negli stati meridionali del Sudan sono quasi sparite dai mass media anche se riguardano moltissime persone e nel solo Darfur hanno provocato 2,4 milioni di profughi.

La crisi nel vicino Sud Sudan è trascurata invece avrebbe un urgente bisogno di attenzione: è l’opinione di Jean-Marie Guéhenno, presidente dell’International crisis group, con sede a Bruxelles, che sta attualmente monitorandole guerre presenti in tutto il mondo.

Il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Siria sono stati considerati nel 2014 i paesi meno pacifici del mondo, secondo la classifica annuale compilata dall’Institute for economics and peace.

“L’orribile violenza alla quale si assiste ancora in Sud Sudan va avanti perché non c’è alcuna forma di pressione da parte dell’opinione pubblica”, sostiene Guéhenno.

Il secondo anno di guerra civile sta portando il paese più giovane del mondo sull’orlo della bancarotta e della carestia, e le violenze hanno costretto alla fuga almeno 1,9 milioni dei suoi 11 milioni di abitanti, uccidendone più di diecimila.

Secondo Guéhenno, se il Sud Sudan ricevesse una maggiore attenzione dai mezzi d’informazione occidentali, potrebbero essere adottate misure come un embargo sulle armi o un’azione seria per tagliare i finanziamenti alla guerra e simili pressioni avrebbero un seguito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

“Eppure questo conflitto resta fuori dei radar, tranne quando si verificano scontri più gravi”, afferma.

La Nigeria è un altro paese che risente della scarsità di notizie sui conflitti interni.
Anche se gli attacchi dei militanti islamisti di Boko haram ottengono qualche copertura, lo stesso non si può dire per le tensioni in corso altrove. Secondo Guéhenno, potrebbero esplodere gravi scontri nella regione del delta del Niger, ricca di petrolio.

“Nel caso di episodi di violenza dopo le elezioni, la notizia finirebbe su tutte le prime pagine perché la Nigeria è un paese molto importante in Africa. Ma sarebbe meglio se questioni del genere fossero affrontate già da adesso”, ha aggiunto.

Nell’ultimo decennio il numero di conflitti nel mondo è rimasto piuttosto stabile, oscillando fra i 31 e i 37, ma alla metà del 2014 il numero di profughi in fuga dalle guerre ha toccato il suo apice dal 1996.

Tuttavia, molte guerre compaiono raramente sui giornali o le tv occidentali.

Nel 2014 gli scontri nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo hanno costretto circa 770mila persone alla fuga, portando il numero totale di profughi a 2,7 milioni in un paese di 68 milioni di abitanti. Più di venti gruppi armati sono attivi solo nella provincia del Kivu Nord.

Altri conflitti sono in corso in Somalia, Yemen, Libia, Repubblica Centrafricana e Pakistan. Dopo il ritiro di gran parte delle truppe straniere, anche l’Afghanistan riceve meno attenzione.

Secondo i ricercatori, non è necessariamente la portata del conflitto ad attirare le attenzioni dei giornalisti.

Virgil Hawkins, professore associato alla Osaka school of international public policy dell’Osaka university in Giappone, ha osservato come il conflitto israelo-palestinese abbia una copertura mediatica significativa nonostante il numero di vittime sia inferiore rispetto a quelle della Repubblica Democratica del Congo.

Hawkins ha paragonato l’interesse riservato dai mezzi d’informazione all’inizio di gennaio all’attentato islamista contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi con il relativo silenzio su una serie di massacri compiuti quasi contemporaneamente da Boko haram in Nigeria.

“Le differenze non sono dovute al tipo di atrocità commesse, ma al luogo dove queste atrocità sono commesse e alle loro vittime”, ha scritto in un blog.

“Ci sono molti conflitti relativamente piccoli che covano sotto la cenere in paesi come l’India, la Thailandia, la Russia, la Turchia, la Birmania e l’Etiopia che non dovrebbero essere ignorati”, aggiunge.

I conflitti di portata ridotta spesso diventano più grandi nel momento in cui si collegano a una tematica più ampia, afferma Guéhenno. Per anni nessuno ha fatto molto caso ai microconflitti in corso nel Mali settentrionale, finché non sono diventati per il movimento jihadista un’opportunità per creare delle basi in quel territorio. “All’improvviso sono diventati strategici”, osserva Guéhenno.

“È molto difficile per i leader politici sollecitare un’azione politica su questioni che non riscuotono un grande interesse nei paesi occidentali”, conclude. “Quando le persone cominciano a essere uccise, allora c’è la mobilitazione”

Solo in Siria si contanto 220mila morti in quattro anni.

Era il 15 marzo del 2011 quando a Daraa, nel sud del Paese, si tenne la prima manifestazione contro il regime, dopo che il mese prima un gruppo di studenti erano stati arrestati con l’accusa di avere tracciato con lo spray slogan anti-regime. Un fatto senza precedenti nei 40 anni al potere della famiglia Assad. La reazione delle autorità di Damasco fu durissima. Nel sangue vennero represse anche successive manifestazioni in altre città, fino a quando l’opposizione cominciò a fare ricorso alle armi e i primi militari disertori fondarono l’Esercito libero siriano (Els). Da allora è stato un vortice di violenza che sembra non dover avere fine.

Il regime di Assad è ancora in sella nonostante l’ingiunzione lanciata fin dall’estate di quell’anno ad Assad dal presidente americano Barack Obama e dalla Ue perché lasciasse il potere. Il regime è riuscito a imporsi grazie alla fedeltà della maggior parte delle forze armate e all’appoggio dei suoi due grandi alleati, la Russia e l’Iran, anche se attualmente controlla con sicurezza solo una parte del territorio: da Damasco, attraverso la regione centrale di Homs, fino alla costa mediterranea, dove sono le roccaforti degli Assad. Nel nord Aleppo, quella che era una splendida città capitale economica e commerciale della Siria, è devastata dai combattimenti che da due anni e mezzo oppongono forze lealiste e ribelli. Più a est lo Stato islamico impone la sua versione oscurantista della Sharia nelle province di Al Hasakah e di Raqqa. A sud, presso il confine con la parte del Golan occupato da Israele, proseguono gli scontri con gruppi islamisti e il Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, mentre consiglieri iraniani e milizie sciite libanesi di Hezbollah appoggiano le forze lealiste.

Una conferenza di pace organizzata all’inizio del 2014 a Ginevra è fallita dopo due sessioni e l’estate successiva il mediatore dell’Onu e della Lega Araba, Lakhdar Brahimi, ha gettato la spugna, come aveva fatto prima di lui l’ex segretario generale Kofi Annan. Il nuovo inviato speciale, il diplomatico italo-svedese di lungo corso, Staffan de Mistura, sta cercando di favorire un dialogo che parta da obiettivi modesti, come tregue locali temporanee, a cominciare da Aleppo. Ma anche questa iniziativa sembra trovare notevoli difficoltà.

L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha detto di essere riuscito a documentare i casi di quasi 13.000 detenuti morti nelle carceri del regime per le torture subite. Ma quando le atrocità non sono riprese in video è impossibile che scuotano le coscienze come fanno le immagini degli ostaggi occidentali decapitati dai fanatici dell’Isis.

L’ultimo attentato ha ucciso oltre venti persone (tra cui quattro italiani, spagnoli e francesi) al museo Bardo di Tunisi, a pochi passi dal Parlamento, che proprio in quelle ore stava discutendo le leggi antiterrorismo. Ha colpito contemporaneamente la nascente democrazia araba e la sua fragile economia fondata sul turismo.

«La gente ancora non ha capito cosa è successo ma si tratta del più grande attentato mai avvenuto nella capitale tunisina».

«Il Bardo è il simbolo della Tunisia», continua il blogger Youssef Cherif: «Nel colpirlo i terroristi dello Stato Islamico hanno voluto colpire l’unico Paese in cui la rivoluzione araba ha avuto successo».  Il Bardo, uno dei più bei musei del Mediterraneo, raccoglie molti dei più preziosi mosaici di epoca romana.

La Tunisia è il Paese da cui era partita la serie di rivoluzioni che nel 2011 hanno sconvolto il Mediterraneo mettendo fine al regime decennale dei dittatori del Nord Africa. Ed è anche l’unico Paese che è riuscito ad eleggere liberamente il suo Parlamento e a formare un governo di unità nazionale in cui i laici di Nidaa Tounes e gli islamisti Ennahada sono riusciti a confrontarsi. In Egitto infatti il dittatore Hosni Mubarak è stato sostituito con un colpo di stato nel 2013 dal collega Abdel Fattah al-Sisi che ha eliminato fisicamente o imprigionato tutti i principali islamismi del Paese senza distinzione tra terroriste conservatori. La Libia invece è discesa nel caos e nell’anarchia con due principali fazioni politiche che si contendono il controllo e, nel farlo, lasciando territorio libero ai barbuti dell’Is.

«La democrazia non piace agli uomini dell’Is che sono allergici a qualsiasi cosa non sia esclusivamente religiosa», continua Cherif: «Da mesi sul web minacciavano il nostro Paese, il più secolare del mondo arabo. Avremmo dovuto aspettarci un evento simile».

Il problema è che da mesi la sicurezza è un enorme problema per la Tunisia. La criminalità è in aumento e il numero di tunisini partiti per raggiungere i ranghi dell’Is in Siria e in Libia è altissimo: almeno tremila persone, ma c’è chi ne stima settemila. Le risorse economiche e le forze di polizia non sono sufficienti. Perfino un obiettivo sensibile come il museo (di mosaici romani) più importante del Paese che si trova per lo più nello stesso piazzale del parlamento, è stato lasciato scoperto, facile preda di uomini armati.

“Ogni volta che viene commesso un crimine terroristico, ovunque sia, siamo tutti colpiti”. Questo il commento del presidente francese Hollande all’attacco di Tunisi. “Quando si tratta di vite umane spaventosamente schiacciate dalla macchina terrorista, che sia in Francia, in Tunisia o a Copenaghen, siamo tutti colpiti”

Per far ripartire l’economia e offrire una speranza ai milioni di giovani tunisini disoccupati Tunisi aveva lanciato lo scorso autunno una vasta campagna per il rilancio del turismo, puntando tutte le fiche sull’imminente stagione estiva. «Adesso questo attacco non solo finirà per annullare ogni sforzo pubblicitario compiuto negli ultimi mesi ma rischia anche di dare corda ai fautori della contro-rivoluzione, ovvero a coloro che sostengono che la democrazia non sia un sistema politico possibile in un Paese arabo e che si debba ritornare a uno stato di polizia. A una dittatura», sottolinea Cherif.

Intanto in Italia c’è chi comincia a contare i pochi, pochissimi chilometri che ci separano dalle coste tunisine. Da settimane, sul web, si moltiplicano le minacce a Roma, l’antica capitale del Mediterraneo.

Quale sarà il prossimo paese infelice?