Demagogia e consumismo: il bonus circense per i diciottenni italiani

Con approvazione  di un decreto del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i giovani italiani che hanno compiuto 18 anni, da ieri, possono richiedere un bonus di 500 euro. La somma di denaro con cui Renzi sta cercando di accattivarsi i disoccupati per ottenere voti favorevoli al prossimo referendum è stata chiamata “Bonus cultura”. Il nome fa viaggiare la fantasia di chi la cultura la ama davvero e fa pensare che gli adolescenti italiani finalmente potranno avere corsi di lingua straniera pagati dallo Stato per allinearsi con i coetanei europei, l’iscrizione alla scuola guida per conseguire patenti speciali o ore di sport per vivere sani, belli e forti: “Mens sana in corpore sano” e magari trovare un lavoro che richiede la pratica di determinate discipline sportive.

Ma dove corre la mia testa!  Qualcuno le impedisca di pensare!

Il regolamento per ottenere la somma impone a chiare lettere di  spendere la cifra in concerti, cinema, mostre, musei e libri entro il 31 dicembre 2017. Quello che dovrebbe essere uno strumento per dare un posto di lavoro ai ragazzi e alle ragazze italiane è soltanto un invito a consumare prodotti culturali per far bruciare benzina al sistema. Che sia più importante per inserirsi nel mondo del lavoro conoscere le hit parade dei cantanti, gli ultimi film? Questo è soltanto uno degli strumenti più meschini per manipolare e strumentalizzare i fragili giovani, per comprare voti, far votare Sì al prossimo referendum e ottenere la maggioranza alle future elezioni.

Vergogna! Date i soldi ai terremotati invece di sperperare denaro pubblico! Le nostre imposte! Con il bonus non si mangia, non si costruisce futuro, non si produce cultura. Si consuma. Stiamo tornando al tempo della pietra. Questo salto indietro ci riporta ai Romani che davano giochi e circo gratuiti al popolino ignorante. Eppure il confronto appare forzato. Poveri Romani! Loro accanto ai giochi mettevano il pane. Il viaggio che Renzi fa fare ai nostri giovani, a cui attribuisce un’identità digitale, è virtuale e li conduce al suicidio.




ITALIA – Il suicidio seconda causa di morte per i giovani

In Italia il consumo di antidepressivi cresce. E se è difficile quantificare il peso della crisi economica, diversi soggetti le attribuiscono un ruolo importante nell’aumento dell’uso di questo tipo di farmaci. Nei primi otto mesi di quest’anno è salito del 3,2% rispetto allo stesso periodo del 2012; tra 2000 e 2011 le dosi assunte giornalmente sono più che quadruplicate. L’associazione pensionati Confesercenti, quella dei Contribuenti e la Società Italiana di Psichiatria puntano il dito contro la recessione.

E’ allarmante il dato diffuso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che rivela un aumento del 40% negli ultimi 7 anni di consumo di psicofarmaci tra i paesi occidentali. Il suicidio è la seconda causa di morte per i giovani italiani dopo gli incidenti stradali.




La crisi italiana che vogliono nascondere

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Da quando è iniziata la crisi, in Grecia si sono suicidate 10.000 persone, a riferire questo dato  Theodoros Giannaros, 58 anni, direttore dell’Ospedale Elpis:

“Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo”.

In Italia  i morti non si contano, di loro ci giunge notizia attraverso i giornali e  ci sembrano casi isolati e sporadici.

Si è impiccato il giorno prima dell’esecuzione dello sfratto dell’appartamento dove viveva a Casalecchio. L’uomo, un 53enne agente di commercio, secondo quanto riporta l’edizione locale del Resto del Carlino, reduce dal fallimento della propria attività economica – si occupava della gestione di una rete di distributori automatici di acqua ed alimenti – è stato trovato morto dalla madre.

Separato, padre di una figlia piccola, viveva con una nuova compagna e da due anni era tornato ad abitare assieme alla madre 81enne nell’appartamento, venduto all’asta giudiziaria. Il 53enne aveva manifestato anche chiari segni di depressione, tanto che da alcuni anni era seguito dal servizio di igiene mentale dell’Ausl. A Casalecchio sono intervenuti i carabinieri e il 118.

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Tragedia sull’argine del Brenta, un operaio si suicida impiccandosi.
Il corpo della vittima, un padovano 32enne di Piove di Sacco, è stato trovato martedì pomeriggio da un passante nel territorio di Campolongo Maggiore, nella limitrofa provincia veneziana.

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 Costretta a vivere in tenda da giugno dopo essere stata sfrattata, è morta la donna la cui storia disperata era stata raccontata dal Carlino domenica scorsa. Il dramma di Luana Brugè, 45 anni, di Porto Recanati, si è tragicamente concluso lunedì notte nell’abitazione della madre a Loreto, dove la donna si è spenta dopo un malore. Probabilmente sfiancata dalle precarie condizioni in cui si trovava, disidratata, dopo essersi accampata per giorni vicino al fiume Potenza, la 45enne era stata accompagnata a Loreto dal compagno.

 La donna, dopo aver perso l’abitazione perché non riusciva più a pagare l’affitto e senza un lavoro che potesse garantirle un guadagno anche minimo, aveva trovato riparo nella tenda acquistata per una manciata di euro al supermercato, nonostante il caldo torrido di questo periodo. Ma per lei era l’unica soluzione. Aveva detto di aver cercato un’occupazione come donna delle pulizie, ma senza risultati. E anche il compagno, che lavorava come operaio, è disoccupato. Quindi, prima di decidere di rifugiarsi nella tenda, alla coppia non era rimasto altro da fare che affidare la bimba alla nonna. “Almeno mia figlia vive decorosamente – aveva spiegato la 45enne –. Non posso portarla in questo tugurio. Noi ci arrangiamo come possibile ma lei non deve sapere nulla. Appena ho un passaggio vado a trovarla da mia madre. Qui non voglio che venga”.

Brugè aveva abitato, fino ai primi di giugno, in via San Giovanni Bosco, nel centro di Porto Recanati. “Mio marito ha perso il lavoro da mesi e non ha trovato più nulla – aveva proseguito nel racconto delle sue difficili condizioni di vita –. Io non trovo un posto da oltre un anno. Nemmeno come donna delle pulizie. Ho provato anche negli chalet per la stagione estiva, ma già avevano il personale al completo. Ho girato dappertutto e chiesto anche aiuto al Comune, ma senza ottenere qualcosa di concreto. Non mi ha ascoltato nessuno. Il proprietario di casa, che mi aveva garantito di riuscire a farmi rimanere in casa fino a fine mese, mi ha detto che dovevo andarmene”.

La 45enne si era già sentita male sabato scorso, a causa del gran caldo. La donna era stata soccorsa dalla Croce Azzurra che l’aveva trovata in un forte stato di disidratazione. Quella mattina erano intervenuti anche i vigili urbani e gli assistenti sociali che si erano resi disponibili ad aiutare la coppia. Purtroppo non è stato possibile. La 45enne è morta prima per un collasso cardio-circolatorio. Nessun commento da parte della famiglia della donna che si è chiusa nel proprio dolore, per proteggere la nipotina.

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Sono sempre di più le famiglie che non riescono a pagare l’affitto e il dato emerge dall’analisi pubblicata dall’Agenzia di statistica del ministero dell’Interno sull’andamento degli sfratti in Italia nel 2014. Numeri che fanno paura e raccontano una vera e propria emergenza sociale, che di anno in anno si va aggravando.

Nei primi sei mesi del 2014 i nuovi sfratti emessi sono stati 39.427 (di cui 35.257 per morosità), le richieste di esecuzione con ufficiale giudiziario 74.718, gli sfratti eseguiti con la forza pubblica hanno raggiunto la cifra di 18.465. Nei primi sei mesi del 2013 (anno in cui si è raggiunto il picco negativo di 73.385 sfratti) gli sfratti emessi erano stati 38.869, 75.348 le richieste di esecuzione, 16.520 gli sfratti eseguiti con la forza pubblica.
A conti fatti il numero degli sfratti continua costantemente a crescere dal 2008, anno di inizio della crisi economica. Inoltre ad aumentare sempre di più sono gli sfratti per “morosità”, che hanno raggiunto la percentuale del 90%: la maggior parte delle famiglie che perdono casa non possono permettersi di pagarla, spesso perché ha perso il lavoro.
Dal 2014 sembra proprio che l’emergenza abitativa non riguardi più soltanto le grandi metropoli del nostro Paese, come spiega Walter De Cesaris, segretario nazionale dell’Unione Inquilini: “Il numero degli sfratti per morosità emessi nelle province ha raggiunto quelli emessi nei capoluoghi e sempre più si sfratta con la forza pubblica. Questo mostra il fallimento delle politiche del governo a partire dalle mirabolanti promesse avanzate nel cosiddetto ‘Piano casa’ del Ministro Lupi. Serve una vera politica sociale della casa che oggi non c’è“.
Ma non solo: pure i fatti di cronaca ci portano a pensare che la questione casa sia ormai una vera e propria emergenza.

Anche una giovane madre di Bologna si è impiccata lasciando orfani i suoi due figli, proprio a pochi giorni dall’arrivo dell’ufficiale giudiziario. Inoltre il 28 giugno è scaduta la proroga di quattro mesi per finita locazione per le categorie protette: “Il nostro non è più un grido d’allarme ma una dichiarazione di guerra” tuonano i movimenti per il diritto alla casa, in protesta davanti al tribunale civile di Roma che promettono una calda estate di mobilitazioni.

E come se non bastasse, nel pieno della crisi,  il Governo Renzi ha pensato bene di opporsi all’impignorabilità della prima casa, bocciando – nel dettaglio – la mozione presentata dal Movimento 5 Stelle che prevedeva “la sospensione per 36 mesi della procedura espropriativa immobiliare” qualora “l’immobile non sia sottoposto a sequestro e a confisca in attuazione della legislazione contro la criminalità organizzata” e l’assunzione di “iniziative per prevedere, al contempo, l’istituzione di un fondo, con dotazione annua di almeno dieci milioni di euro, per la remunerazione degli interessi ai creditori“.

I testi approvati – si legge su http://www.mafia-capitale.it/ – sono molto blandi e impegnano il governo solo a “a valutare l’opportunità di adottare iniziative di rango normativo volte ad individuare misure di natura economica per la gestione dei mutui ipotecari per la prima casa in sofferenza, con particolare riferimento ai nuclei familiari, soprattutto quelli numerosi, che si trovano in situazione di temporanea insolvenza“.

Si è preferito dare dieci milioni di euro al porto di Molfetta per fare un favore al senatore Azzollini su cui pende una richiesta di arresto. Rinunciando a un F35 si potrebbero salvare 144mila famiglie.

Solo grazie al sito web del Pentagono veniamo a sapere che la Difesa italiana ha firmato a inizio giugno un nuovo contratto con Lockheed Martin ordinando altri quattro F35 e portando così a 14 il totale dei velivoli acquistati finora dal nostro Paese. Il contratto, da circa 35 milioni di euro, è relativo all’ordine di un nuovo lotto di F35 (il decimo) comprendente quattro aerei: due convenzionali e due in ‘versione portaerei’ a decollo corto e atterraggio verticale. La cifra, una sorta di piccola caparra di prenotazione, riguarda solo i componenti a lunga consegna (Long Lead Items), mentre il grosso del pagamento – 150 milioni di euro ad aereo – verrà versato a rate alla conferma d’acquisto (2016) e poi alla consegna. E’ stato firmato anche un altro contratto datato 30 giugno, da circa mezzo milione di dollari: ennesimo pagamento per lo sviluppo del software di bordo che prosegue, con enormi difficoltà e ritardi, dal 2002.

Significa che a questo governo non importa nulla delle famiglie italiane.

In Italia non c’è solidarietà verso chi è in difficoltà, il voto contrario di tutta la maggioranza permette da oggi di perdere la prima casa anche per un piccolo debito, diciamo grazie a Renzi, è lui che porta via il bene primario degli italiani. Siamo un paese dove il Governo porta sempre più alla disperazione e alla povertà le famiglie.

Talvolta è davvero triste scoprire l’esistenza degli emarginati e degli ultimi, che in un silenzio di omissione e noncuranza, vivono abbandonati miseramente dal mondo.

Sono uomini e donne che privati dei diritti essenziali di sopravvivenza trascorrono un’esistenza  peggiore di chi sbarca quotidianamente sulle nostre coste. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.




ITALIA – Riaperte le indagini sulla morte di Marco Pantani: un ennesimo caso di “malagiustizia”

Il 14 febbraio 2004 il corpo senza vita di Marco Pantani fu rinvenuto nel residence “le Rose” collocato nei pressi di Rimini. Aveva solo 34 anni e soffriva di una grave depressione causata da un’accusa infamante che gli aveva rovinato per sempre la  carriera. Il 5 giugno del 1999, prima di percorrere un’ennesima tappa del giro d’Italia in cui risultava essere in vantaggio rispetto agli altri corridori, nella sua camera d’albergo si presentarono alcuni ispettori dell’Unione Ciclistica Internazionale, in quella circostanza risultò dalle analisi del sangue a lui effettuate che aveva un ematocrito irregolare, ossia un livello troppo alto dei globuli rossi. Pantani negò di aver fatto uso di sostanze dopanti, né mai risultò positivo a un test antidoping, ma quel test rovinò per sempre la sua credibilità.
Durante la sua carriera ciclistica aveva collezionato 42 vittorie e nel 1998 aveva trionfato sia nel Tour de France che nel Giro d’Italia. L’esito delle indagini sulla sua morte si conclusero adducendo che si fosse trattato di suicidio, ma la sua famiglia non ha mai creduto che il “Pirata” si fosse volontariamente tolto la vita e nel 2014 grazie alla caparbietà del suo legale, l’avvocato Antonio De Rensis è riuscita a far riaprire le indagini. I punti da chiarire sono molti, vi è la certezza che l’inchiesta non fu svolta in maniera ineccepibile. Sul luogo del delitto non furono prese tutte le precauzioni utili per non alterare la scena, il corpo del ciclista inoltre presentava molte ferite, ma per i poliziotti si trattò di un’emorragia. Il medico legale apparve sul posto solo il giorno dopo. L’ora della morte fu calcolata tra le 11:30 e le 12:30, stranamente poco prima Pantani chiese alla portineria di chiamare i carabinieri. Non ci è dato sapere quale sarà l’esito finale di questa dolorosa vicenda, resta però l’amarezza di aver assistito a un ennesimo caso di “malagiustizia”.




ITALIA – E’ ancora mistero per il caso Tenco, in corso le indagini

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“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
Erano le 02:15 del 27 gennaio 1967 , quando la vita di uno dei più controversi cantautori italiani fu stroncata da un colpo di pistola alla tempia, dando inizio ad uno dei più intricati misteri dello Stato Italiano. Si trattò di suicidio o di omicidio? La delusione per la “bocciatura” della canzone cantata da Luigi Tenco sul palcoscenico dell’Ariston fu talmente cocente? Ma, andiamo con ordine , la sera dell’esibizione,Tenco era nervoso, temeva che la sua canzone non sarebbe stata compresa, durante le prove la sua interpretazione era stata pessima e il presentatore di quella edizione, ossia Mike Bongiorno, tentò di incoraggiarlo, ma lui gli sussurrò nell’orecchio che sarebbe stata l’ultima canzone che avrebbe cantato. La sua performance non convinse affatto i giurati ottenendo solo 38 voti su 900. La commissione, inoltre preferì ripescare la canzone la rivoluzione, di Gianni Pettenati e Gene Pitney. Quando gli comunicarono che la sua canzone “ Ciao amore ciao” era stata esclusa dalla finale lui a primo acchito non sembrava affatto arrabbiato, subito dopo si recò al casinò ed evitaò in malo modo di firmare autografi per le sue fans, poi andò via a bordo dell’auto della sua compagna Dalida sfrecciando e guidando in maniera sconsiderata. Dopo qualche ora accadde l’irreparabile. Il corpo fu trovato da Dalida, gli investigatori formularono subito l’ipotesi che si fosse trattato di suicidio. Erano i primi anni che la polizia scientifica aveva iniziato ad operare e le indagini furono svolte malissimo. Mancano le foto della scena del crimine, le tre persone che videro il cadavere diedero versioni differenti su come fosse posizionato, stessa cosa per la collocazione della pistola, inoltre il bossolo se fosse stato esploso da una distanza ravvicinata avrebbe deturpato il volto di Luigi Tenco. In seguito furono congetturati diversi mandanti del possibile omicidio, ma quello più credibile fu attribuibile alla loggia P2. Stranamente il primo investigatore che giunse sul luogo fu Arrigo Molinari vice dirigente del commissariato di Sanremo, il cui nome fu per alcuni anni incluso nelle liste della P2. Un altro lato oscuro da chiarire riguarda la sua compagna Dalida, una dipendente dell’hotel Savoy affermò che la nota cantante egiziana era in stanza con Tenco quando si suicidò. Poco prima avevano discusso forse a causa della gelosia che Dalida provava nei confronti di Valeria, l’unica donna che probabilmente Tenco ha amato, tanto da chiederle, pochi giorni prima di “spararsi un colpo alla tempia”, di sposarlo.
Cosa sia realmente accaduto in quella stanza non ci è dato saperlo, ma lascerà per sempre nell’animo delle persone a lui vicine e ai suoi fans un alone di incredulità e mistero.

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USA – Una macchia di sangue sull’arcobaleno della comunità LGBT. Leelah: “Le questioni di genere devono essere insegnate a scuola, prima è e meglio è”

Leelah era una ragazza speciale di diciassette anni dell’Ohio che come tutti i suoi coetanei alle prese con i problemi adolescenziali sognava e sperava di poter vivere la sua vita in maniera dignitosa senza dover mai sentirsi sbagliata. Era speciale, perché aveva avuto il coraggio di guardarsi dentro e di capire che il suo corpo maschile ingabbiava la sua vera natura, delicata e sensibile, per cui aveva deciso di intraprendere un percorso che avrebbe plasmato il suo corpo dandole l’aspetto che lei desiderava. La metamorfosi di genere è un percorso lento e difficile, che richiede una grande forza d’animo e il sostegno delle persone care, ma se dovesse mancare una di queste componenti, tutto potrebbe risultare agli occhi di chi si appresta ad iniziare questo cammino, impossibile. Se, poi le persone vicine in questione sono i propri genitori, che al contrario di comprendere ed amare il proprio figlio al di sopra delle loro originarie aspettative, si mostrassero ostili, il soggetto in questione potrebbe scivolare in uno stato depressivo che potrebbe condurlo a compiere gesti estremi. Leelah lo ha fatto, ha deciso di porre fine alla sua esistenza, prima però ha scritto sul suo blog un messaggio straziante che dovrebbe far riflettere tutti i perbenisti, in quanto nessuno può giudicare o denigrare una persona per via del suo orientamento sessuale. In basso è riportato il suo ultimo post, vi invito a leggerlo fino in fondo, perché il suo sacrificio, non resti solo una macchia di sangue sulla bandiera arcobaleno simbolo della comunità LGBT, ma sia motivo di riflessione per questa società bigotta che vivendo in funzione degli stereotipi, si ostina a calpestare la libertà di scelta di chi vive in maniera diversa dalla propria.

“Se state leggendo questo messaggio, vuol dire che mi sono suicidata e quindi non sono riuscita a cancellare questo post programmato.
Per favore, non siate tristi, è meglio così. La vita che avrei vissuto non sarebbe stata degna di essere vissuta… perché sono transessuale. Potrei entrare nei dettagli per spiegare perché lo penso, ma questa lettera sarà già abbastanza lunga così. Per farla semplice, mi sento una ragazza intrappolata nel corpo di un ragazzo da quando avevo quattro anni. Per molto tempo non ho saputo dell’esistenza di una parola per definire questa sensazione, né che fosse possibile per un ragazzo diventare una ragazza, così non l’ho detto a nessuno e ho semplicemente continuato a fare cose convenzionalmente da maschi per cercare di adattarmi.
Quando avevo 14 anni ho imparato cosa volesse dire la parola “transessuale” e ho pianto di gioia. Dopo dieci anni di confusione avevo finalmente capito chi ero. L’ho detto subito a mia mamma e lei ha reagito molto negativamente, dicendomi che era una fase, che non sarei mai stato davvero una ragazza, che Dio non fa errori e che ero io a essere sbagliata. Se state leggendo questa lettera: cari genitori, non dite così ai vostri figli. Anche se siete cristiani o siete contro i transessuali, non dite mai questa cosa a nessuno: specialmente ai vostri figli. Non otterrete niente a parte far sì che odino se stessi. È esattamente quello che è successo a me.

Mia mamma ha iniziato a portarmi da terapisti ma solo da terapisti cristiani, tutti con molti pregiudizi, quindi non ho mai avuto le cure di cui avrei avuto bisogno per la mia depressione. Ho solo ottenuto che altri cristiani mi dicessero che sono egoista e sbagliata e che avrei dovuto cercare l’aiuto di Dio.
Quando avevo 16 anni mi sono resa conto che i miei genitori non mi avrebbero mai aiutata, e che avrei dovuto aspettare di compiere 18 anni per iniziare qualsiasi terapia e intervento di transizione, cosa che mi ha davvero spezzato il cuore. Più aspetti, più la transizione è difficile. Mi sono sentita senza speranze, sicura che avrei passato il resto della mia vita con le sembianze di un uomo. Quando ho compiuto 16 anni e ho capito che i miei genitori non avrebbero dato il loro consenso per farmi iniziare la transizione, ho pianto finché non mi sono addormentata.
Ho sviluppato nel tempo una specie di atteggiamento “vaffanculo” verso i miei genitori e ho fatto coming out come gay a scuola, pensando che forse sarebbe stato più facile così un giorno dire che in realtà sono transessuale. Per quanto la reazione dei miei amici sia stata buona, i miei genitori si sono arrabbiati. Hanno pensato che volessi compromettere la loro immagine e che li stessi mettendo in imbarazzo. Volevano che fossi il classico piccolo perfetto ragazzo cristiano e ovviamente non era quello che volevo io.
Quindi mi hanno tirato via dalla scuola pubblica, mi hanno sequestrato il computer e lo smartphone e mi hanno impedito di frequentare qualsiasi social network, isolandomi così completamente dai miei amici. Questa è stata probabilmente la parte della mia vita in cui sono stata più depressa, e sono ancora stupita di non essermi uccisa già allora. Sono stata completamente sola per cinque mesi. Nessun amico, nessun sostegno, nessun amore. Solo la delusione dei miei genitori e la crudeltà della solitudine.

Alla fine dell’anno scolastico i miei genitori finalmente mi hanno restituito il mio smartphone e mi hanno permesso di tornare sui social network. Ero felicissima, finalmente potevo riavere indietro i miei amici. Ma solo all’inizio. Alla fine mi sono resa conto che anche a loro non importava molto di me, e mi sono sentita persino più sola di quanto fossi prima. Piacevo agli unici amici che pensavo di avere per il solo motivo che mi vedevano per cinque giorni ogni settimana.
Dopo un’estate praticamente senza amici unita al peso di dover pensare al college, di risparmiare per quando avrei lasciato casa, di tenere alti i miei voti, di andare in chiesa ogni settimana e sentirmi di merda perché in chiesa tutti sono contrari a quello che sono, ho deciso che ne ho abbastanza. Non completerò mai nessuna transizione, nemmeno quando andrò via di casa. Non sarò mai felice con me stessa, col modo in cui appaio e con la voce che ho. Non avrò mai abbastanza amici da esserne soddisfatta. Non troverò mai un uomo che mi ami. Non sarò mai felice. Potrò vivere il resto della mia vita come un uomo solo che desidera essere una donna oppure come una donna ancora più sola che odia se stessa. Non c’è modo di averla vinta. Non c’è via d’uscita. Sono già abbastanza triste, non ho bisogno di una vita ancora peggiore di così. La gente dice che “le cose cambiano” ma nel mio caso non è vero. Le cose peggiorano. Le cose peggiorano ogni giorno.

Questo è il succo, questo è il motivo per cui mi sento di uccidermi. Mi dispiace se per voi non sarà abbastanza una buona ragione, lo è per me. Per quel che riguarda le mie volontà, voglio che il 100 per cento delle cose che possiedo sia venduto e che il denaro (più i soldi che ho da parte in banca) siano donati a un movimento per il sostegno e per i diritti delle persone transessuali, non importa quale. L’unico momento in cui riposerò in pace arriverà quando le persone transessuali non saranno più trattate come sono stata trattata io: quando saranno trattate da esseri umani, con sentimenti validi, sinceri e legittimi, e con dei diritti umani. La mia morte deve significare qualcosa. La mia morte dev’essere contata tra quelle dei transessuali che si sono suicidati quest’anno. Voglio che qualcuno guardi a quel numero e dica “questa cosa è assurda”, e si occupi di sistemarla. Sistemate la società. Per favore.
Addio”.

(Leelah) Josh Alcorn

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