TAORMINA – La lotta al terrore resta la priorità del G7

“Pur sostenendo i diritti umani dei migranti e rifugiati, riaffermiamo i diritti sovrani degli Stati di controllare i loro confini e fissare chiari limiti ai livelli netti di immigrazione, come elementi chiave della loro sicurezza nazionale e del loro benessere economico”. Lo si leggerebbe, secondo alcune fonti, in una bozza del documento finale del G7, tuttora sottoposta a un negoziato aperto. “La gestione e il controllo dei flussi di migranti richiede – pur tenendo conto della distinzione fra rifugiati ed emigrati economici – sia un approccio d’emergenza che uno di lungo termine”. E per quest’ultimo i leader del G7 “sono d’accordo nello stabilire partnership per aiutare i Paesi a creare nei loro confini le condizioni che risolvano le cause della migrazione”, direbbe ancora la bozza. Il nodo clima Prima della discussione sul documento finale le dichiarazioni erano improntate alla collaborazione, pur tenendo presenti le divergenze, anche importanti, di vedute. Sul clima e sul destino dell’accordo di Parigi, ad esempio, tra i leader del G7 non c’e’ ancora una posizione comune per il comunicato finale: lo riferiscono fonti dell’amministrazione canadese spiegando come questo tema resti ancora “irrisolto”. L’amministrazione Trump – rivelano comunque le stesse fonti – non avrebbe ancora preso una decisione sulla posizione da assumere sull’accordo di Parigi. Mentre i leader discutono, febbrile il lavoro degli sherpa nel tentativo di trovare un punto di incontro. Tra le ipotesi che circolano anche quella di inserire una dichiarazione nel comunicato finale in cui si dice che tutti i Paesi del G7 si impegnano per il rispetto degli obiettivi della lotta ai cambiamenti climatici “ad eccezione degli Stati Uniti”. Confermate inoltre le divisioni tra i sette anche sul fronte delle politiche commerciali. Intanto fonti dell’Eliseo dicono: sul clima “vorremmo un comunicato ambizioso, ma la linea della Francia è di non indebolire l’accordo di Parigi”, sottolineando che “c’è stata una discussione franca e diretta”, ma “non c’è ancora un accordo” tra i leader. “La posizione di Macron – aggiungono le stesse fonti – è quella di essere esigente e convincente con Trump, ma non al prezzo di un indebolimento dell’accordo di Parigi”. Gentiloni: sui migranti un buon compromesso Sui migranti “è stato raggiunto un buon compromesso: si riconosce l’approccio globale al problema, anche a lungo periodo con il coinvolgimento dei paesi di origine e la responsabilità condivisa”. E’ quanto spiegano fonti diplomatiche italiane che seguono il dossier. La discussione vera e propria al tavolo del G7 “ci sarà domani” ed è “ovvio si continui a lavorare sui due paragrafi” ad hoc del testo finale, ma “non ci sono problemi” con gli americani, che hanno chiesto maggiore attenzione alla sicurezza. “Resta sospesa la questione sull’accordo di Parigi sul clima rispetto al quale il presidente Trump ha in corso una riflessione interna di cui gli altri paesi hanno preso atto”, ha poi aggiunto il presidente del Consiglio italiano. Tutti contro il terrorismo I sette leader del G7 hanno firmato la dichiarazione contro il terrorismo. E’ stata poi il primo ministro britannico Theresa May a tenere in mano il testo della dichiarazione al momento della foto dei leader dopo la firma congiunta del documento. I Sette Grandi hanno poi salutato con baci e abbracci May che sta per ripartire per Londra, lasciando il vertice. “Noi leader del G7 esprimiamo la nostra più sentita vicinanza e le nostre sentire condoglianze per il brutale attacco e le vittime di Manchester che dimostra come dobbiamo rafforzare i nostri sforzi e trasformare i nostri impegni in azioni”, dice il documento. E prosegue: “Condanniamo in modo più deciso possibile il terrorismo e tutte le sue manifestazioni: la lotta al terrore rimane una delle maggiori priorità del G7. Siamo uniti nel rendere sicuri i nostri cittadini e preservare i loro valori e stili di vita”. Più unità e determinazione La dichiarazione contro il terrorismo porta “al rafforzamento della cooperazione tra le 7 maggiori economie del mondo occidentale su diverse questioni, dalla collaborazione informativa all’impegno dei leader per far promuovere dai grandi internet service dei provider un impegno nei confronti di quello che circola in rete che spesso amplifica gli atti di terrorismo”. Questo il commento del premier Gentiloni, che ha concluso: con la dichiarazione congiunta sul terrorismo “mostriamo la nostra unità e determinazione per continuare a combattere dopo quello che è successo a Manchester contro vittime innocenti”. Mattarella: grazie per paziente ricerca consenso. Sul terrorismo le risposte siano ambiziose “Nel rinnovarvi il benvenuto a Taormina, e in Italia, desidero esprimere il mio apprezzamento per l’impegno significativo di questo foro nell’affrontare le prove difficili che abbiamo di fronte a noi, attraverso un’opera di paziente e tenace aggregazione di consenso sui temi più complessi”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è rivolto ai leader del G7 nel brindisi prima della cena all’hotel Timeo a Taormina. Poi: “Siamo nel tempo dell’urgenza – di una estrema urgenza – per affrontare le prove e le minacce che abbiamo di fronte” per fornire “soluzioni concrete e sostenibili”, dice Mattarella, aggiungendo che “risposte ambiziose dobbiamo ai nostri cittadini di fronte al terrorismo che ancora una volta in questi giorni ha compiuto orribili stragi”.




MALI – Terroristi prendono d’assalto l’albergo dei militari Ue

A quattro mesi dall’attacco jihadista nel resort Radisson Blu di Bomako in Mali in cui morirono 22 persone, un altro commando di terroristi ha preso d’assalto un hotel non lontano, il Nord Sud della catena Azalai.
L’albergo è noto per ospitare stranieri ed è anche la sede della missione militare Ue. E nel mirino degli attentatori ci sarebbe stato proprio un gruppo di addestratori militari dell’Ue impegnati nelle forze militari del Mali. Alla missione di addestramento comandata dal generrale tedesco Werner Abll partecipano anche una ventina di militari italiani sin dal marzo del 2013.

Testimoni raccontano di aver udito delle sparatorie e un’esplosione: ci sarebbe almeno un morto. Si tratterebbe di uno degli assalitori, come riferisce una fonte diplomatica francese al sito de l’Express. “Un altro assalitore si è invece asserragliato nella struttura”, ha aggiunto la stessa fonte, precisando che “nel contingente francese non ci sarebbero vittime o feriti”. “Il quartier generale della EUTM- Mali è stato attaccato”, si legge sull’account Twitter ufficiale della missione, “Nessun membro è stato ferito nell’attacco. In questo momento viene messa in sicurezza l’area”.

“Gli aggressori hanno cercato di forzare l’entrata e le guardie appostate all’ingresso hanno aperto il fuoco. La sparatoria è proseguita per diversi minuti”, ha precisato un testimone vicino all’hotel, che si trova nel quartiere Aci 200 a pochi metri dall’ambasciata americana, raccontando dell’assalto durato circa un’ora e mezza. L’assalto è “terminato e la minaccia è stata neutralizzata”, hanno riferito militari italiani presenti nella città, contattati dalla Difesa. Tutto il personale militare presente e la stessa struttura non hanno subito danni, hanno riferito anche fonti diplomatiche francesi.

Al momento nessuna sigla ha rivendicato l’attacco, ma non si esclude che possa essere stato organizzato da alcuni gruppi terroristi legati ad al Qaeda ed attivi nell’area del Sahel. Il Mali da anni è infatti al centro di scorribande armate di terroristi che dettano legge seminando il terrore. Il 20 novembre scorso i jihadisti di Mourabitoun, un gruppo che era di al Qaida e avrebbe successivamente sposato la folle causa dell’Isis, lanciò nell’attacco contro l’hotel più blindato, il Radisson Blu, prendendo in ostaggio decine di persone. Solo grazie all’intervento delle forze speciali di diversi Paesi con militari sul posto, gli ostaggi furono liberati.




EUROPA – Un nuovo terrorista ricercato per gli attacchi di Parigi e Brussel. Trentuno le vittime, Undici i dispersi

1

C’è un nuovo ricercato, ritenuto coinvolto negli attacchi terroristici sia di Parigi che Bruxelles: si tratta di Naim Al Hamed, siriano originario di Hama, di 28 anni. Il nome compare su una lista di cinque principali sospettati introvabili stilata dalle intelligence occidentali, che si presume siano stati coinvolti negli attentati del 13 novembre a Parigi e in quelli del 22 marzo a Bruxelles. La notizia era stata pubblicata da alcuni media spagnoli ed è stata ripresa La Dernière Heure belga. L’uomo, di cui è stato reso noto un documento con foto, è descritto come «molto pericoloso e forse armato».

L’attentato di  Istanbul è stato organizzato dal gruppo Stato islamico. Lo ha dichiarato il ministro dell’interno turco, Efkan Ala, che ha detto che l’attentatore suicida era un miliziano affiliato ai jihadisti dell’Is. Nell’attacco sono morte quattro persone, tra cui due israeliani e un iraniano. Il ministro ha annunciato che sarà imposto il coprifuoco in diverse città turche.

Dopo aver esplicitamente parlato di armi atomiche, Vladimir Putin rincara. Parlando a un evento del ministero della Difesa, il leader russo ha ordinato all’esercito del suo Paese di “agire in maniera estremamente dura in Siria, distruggendo chi minaccia le forze di Mosca attive per combattere il Califfato”. E ancora: “Ogni obiettivo che minacci unità russe o nostre infrastrutture al suolo sarà distrutto immediatamente”. Ma non è tutto, perché il punto più delicato dell’intervento dello zar è quello che segue: “Un’attenzione particolare – ha rimarcato – sarà prestata al rafforzamento del potenziale bellico delle nostre forze strategiche nucleari”. E ancora: “Marina, aviazione ed esercito verranno dotati di nuove componenti della nostra forza nucleare”. Dunque le parole di Sergei Shoighu, ministro della Difesa di Mosca, che ha ricordato come “il 95% dei sistemi di lancio delle armi nucleari russe sono pronte al combattimento. Le forze armate – ha concluso – hanno ricevuto quest’anno 35 nuovi missili balistici nucleari”.

Nell’inchiesta in corso spuntano intanto nuovi inquietanti particolari sul piano dei fratelli El Bakraoui. Il quotidiano la la Dernière heure, citando fonti di polizia, rivela che i due volevano colpire le centrali nuclearei del Belgio. A far accelerare i due è stata la cattura di Salah Abdeslam e del suo complice Choukri a Molenbeek, circostanza che ha costretto i fratelli El Bakraoui ad abbandonare questo obiettivo e puntare tutto sulle strage in centro. “La situazione è precipitata e si sono sentiti sotto pressione – ha rivelato una fonte della polizia – hanno dovuto optare per l’obiettivo più facile”.

LE VITTIME

Patricia Rizzo, l’italiana tra i morti – Patricia Rizzo, la funzionaria italiana dell’Unione morta negli attentati di Bruxelles, è stata per cinque anni uno dei dirigenti più importanti dell’Efsa, l’Authority Alimentare Europea con sede a Parma. Dal 2003 al 2008, prima di trasferirsi in Belgio, aveva ricoperto il ruolo di assistente di direzione ed aveva abitato nella città emiliana dove molti ancora la ricordano. A confermare la notizia della morte è stato il cugino Massimo Leonora. “Purtroppo Patricia non è più tra noi. Mi manchi, ci manchi”, ha scritto su Facebook.

Tra le vittime una tedesca di origine italiana – Tra le vittime degli attacchi Jennifer Scintu, tedesca 29enne di origini italiane, che mercoledì al momento dell’esplosione era in aeroporto. La donna si trovava al check in di un volo per New York assieme al marito Lars Waetzmann, ora ricoverato in gravi condizioni in un ospedale dalla capitale belga. Jennifer, nata e cresciuta in Germania, aveva i nonni in Sardegna, ad Ales, e spesso tornava a trovarli con la madre Miriana. La morte della giovane è stata confermata dalla polizia di Aquisgrana, città dove la 29enne risiedeva.
Loubna, insegnante che lascia tre figli – Si è infranta la speranza dei parenti di Loubna Lafquiri. La donna, mamma di tre bambini e di professione insegnante, è morta alla stazione della metropolitana Maelbeek, colpita dai terroristi. L’annuncio, carica di rabbia e di dolore, è arrivato dalla famiglia: “Con il cuore spezzato annunciamo la morte di Loubna. Dopo un’attesa interminabile, è arrivata la terribile notizia. Lubna, una madre di 3 magnifici bambini, insegnante esemplare. Strappata alla sua famiglia da dei vigliacchi”.

Bart, 21enne pronto a volare dalla fidanzata negli Usa – Doveva prendere l’aereo per gli Stati Uniti. Un lungo volo per riabbracciare la sua fidanzata, che vive in Georgia. E’ stato investito dall’esplosione mentre era intento a effettuare il check in al banco dell’American Airlines. Bart Migom, 21 anni, è una delle vittime dell’attentato all’aeroporto di Zavenetem.

Donati gli organi di Leopold, studente modello – Una delle vittime è il giovane Leopold Hecht, 20 anni, morto in seguito alle ferite riportate nell’attentato alla metropolitana. La sua famiglia ha autorizzato l’espianto degli organi del ragazzo: “Siamo convinti avrebbe condiviso questa scelta – ha dichiarato commossa la madre -. Speriamo questa decisione possa salvare una vita o aiutare qualche persona in difficoltà”.

David, il britannico che viveva a Bruxelles – Anche David Dixon è morto in seguito all’attentato alla metrò. Il 53enne era originario di Hartlepool, città portuale britannica affacciata sul mare del Nord, ma viveva da tempo a Bruxelles. La notizia del decesso è stata confermata dalle autorità del Regno Unito. “Abbiamo ricevuto la notizia più terribile e devastante”, hanno commentato o i suoi familiari.

Elita, in viaggio per partecipare a un funerale – Drammatica anche la storia di Elita Weah, 41 anni, di nazionalità olandese. Si trovava all’aeroporto di Zaventem per partire alla volta degli Stati Uniti. Avrebbe voluto infatti partecipare al funerale di un familiare. Lascia una figlia di 13 anni.

Frank, un’ora dopo sarebbe stato già in volo – E’ deceduto mentre aspettava di partire il 24enne di origini cinesi Frank Deng. Il volo era in programma un’ora dopo l’esplosione.

Yves lascia due figli – Si sono infrante anche le speranze dei familiari di Yves Ciyombo Cibuabua. Padre di due bambini, è morto nell’esplosione alla fermata Maelbeek della metropolitana di Bruxelles.

I fratelli Sascha e Alexander – Doppia tragedia per la famiglia Pinczowski, di origine olandese. Nell’attentato all’aeroporto hanno infatti perso la vita i fratelli Sascha e Alexander, residenti a New York.

Olivier, morto mentre andava al lavoro – La follia dei terroristi è costata la vita anche al belga Olivier Delespesse, rimasto ucciso mentre si stava recando al lavoro in metropolitana. A confermarlo è stato il governo della Vallonia. Il funzionario del ministero dell’Istruzione, come Leopold, era sul treno sventrato a Maelbeek. “Olivier era una persona simpatica, gioiosa, amichevole, una persona eccezionale per i suoi amici e i suoi colleghi. La sua morte è profondamente scioccante e ingiusta”, scrivono i suoi colleghi.

Adelma, morta sotto gli occhi delle figlie – Il papà che decide di portate le bimbe a giocare pochi metri più in là. La deflagrazione. E mamma Adelma Marina Tapia Ruiz che perde la vita, sotto gli occhi dei suoi familiari rimasti quasi del tutto illesi nell’esplosione avvenuta all’aeroporto. Leggi l’articolo

Fabienne aveva appena concluso il turno – Fabienne Vansteenkiste è un’altra delle vittime dell’esplosione all’aeroporto. 51 anni, al momento della deflagrazione aveva da poco concluso il suo turno di lavoro e stava per tornare a casa. E’ morta mercoledì per le ferite riportate.

I DISPERSI
I nomi dei dispersi – Non si hanno notizie, invece, di Berit Viktorsson, Andrè Adam, la cui moglie è invece ricoverata in ospedale, Johanna Atlegrim, Aline Bastin, Sabrina Fazal, Antonio Monteagudo, Raghavendran Ganesan, Janina Panasewicz, Justin e Stephanie Shults.




BELGIO – Il premier Michel: “Oltre 100 perquisizioni negli ultimi mesi”. Hollande: “Chiederemo l’estradizione di Salah”

Arrestato dopo quattro mesi di fuga. Salah Abdeslam, l’uomo più ricercato d’Europa, è stato ferito a una gamba e preso dopo un’operazione anti-terrorismo nel quartiere di Molenbeek in Belgio. Dopo essere stato medicato sul posto, l’uomo è stato trasferito in ospedale. Catturati anche due suoi complici che si erano asserragliati dentro un appartamento a rue des Quatre Vent. L’ottavo uomo del commando che il 13 novembre scorso ha ucciso 180 persone durante una serie di attentati a Parigi era ricercato da mesi e più volte erano arrivate notizie di suoi avvistamenti. Uno dei primi a confermare la cattura è stato il segretario di Stato del Belgio per l’asilo e le politiche migratorie Theo Francken che nel tardo pomeriggio su Twitter ha scritto: “We hebben hem” (‘lo abbiamo’). Il presidente francese ha fatto sapere che “la Francia chiederà l’estradizione di Abdeslam” e ha aggiunto di essere “sicuro” del buon esito della richiesta mirata a processare in Francia Salah.
L’arresto è avvenuto nel corso di una maxi operazione – quattro perquisizioni simultanee – delle forze speciali di polizia nella zona. La Dernière Heure riferisce che ci sono stati spari, anche granate, e una vittima a terra. Il latitante è rimasto ferito a una gamba in uno scontro a fuoco con le forze speciali belghe e si sarebbe asserragliato in un appartamento con un altro uomo, anch’egli ferito e arrestato, secondo l’Express. L’edificio al numero 79 della rue des 4 Vents dove è stato arrestato Abdeslam è di proprietà del comune di Molenbeek-Saint-Jean, una delle 19 municipalità di Bruxelles.

I passanti nella strada hanno sentito le forze speciali al megafono urlare “uscite e arrendetevi“. L’operazione, riferisce Le Soir, sarebbe stata anticipata da domani a oggi dopo la fuga di notizie sul ritrovamento delle impronte di Salah nell’appartamento di Forest nel corso del blitz di martedì 16 marzo. La polizia ha invitato la popolazione a ritornare e rimanere a casa, e chiesto anche ai media di non diffondere le immagini dell’operazione in corso. Sulla via si trovano una scuola e un asilo. Il premier belga Charles Michel ha lasciato precipitosamente la sede del vertice Ue-Turchia sui migranti.

Il premier belga e il presidente della Repubblica francese hanno tenuto una conferenza stampa congiunta al termine delle operazioni. “Chiederemo l’estradizione di Salah”, ha detto François Hollande, “La lotta al terrorismo, a tutte le reti terroristiche, deve essere intensificata, non è il momento di incrociare le braccia”. E ha poi annunciando che sabato 19 marzo al mattino riunirà a Parigi il Consiglio di Difesa, con i ministri competenti per la sicurezza della Francia e i capi di servizi di informazione. “Dalle forze dell’ordine del Belgio è stato fatto un lavoro rimarchevole: potete essere fieri di quanto fatto non solo oggi ma anche in precedenza attraverso la raccolta di informazioni e, da ultimo, con l’operazione condotta a Forest”.

Anche il premier belga Charles Michel si è complimentato con le forze dell’ordine e ha commentato: “Negli ultimi mesi abbiamo effettuato oltre 100 perquisizioni” a Bruxelles “che hanno portato a oltre 60 arresti di sospetti. Le tre persone ricercate sono state arrestate” e al momento non c’è nessun altro da trovare a Molenbeek”. “Da parte degli arrestati”, ha aggiunto, “c’è stata resistenza armata”. Michel e Hollande hanno anche sentito al telefono il presidente Usa Barack Obama che ha espresso i suoi “complimenti e incoraggiamenti”.

Secondo quanto riferisce il sito del quotidiano Dernière Heure, le forze dell’ordine, dopo essere state oggetto del lancio di qualche bottiglia, sul finire del pomeriggio si sono trovare a fronteggiare la pressione di alcune decine di persone, soprattutto giovani, ammassate intorno al perimetro della zona di sicurezza. La polizia è riuscita a mantenere la calma, la situazione è rimasta sotto controllo e al momento non sono segnalati altri episodi di scontri.




TURCHIA – Arrestati 12 docenti universitari per propaganda terroristica

La polizia turca ha arrestato 12 docenti universitari con l’accusa di “propaganda terroristica” a favore del Pkk per aver firmato un appello che chiede una soluzione pacifica alla questione curda. Il mandato d’arresto riguarda anche altri 9 accademici, non ancora fermati. Lo riferisce l’agenzia statale Anadolu. Il provvedimento d’arresto è stato deciso dalla procura di Kocaeli, a sud di Istanbul, nei confronti di docenti della locale università. L’appello firmato dagli accademici arrestati era stato lanciato dal gruppo ‘Accademici per la pace’ con il titolo ‘Noi non saremo parte di questo crimine!’, in riferimento alle operazioni condotte da Ankara contro il Pkk nel sud-est a maggioranza curda, in cui dalla scorsa estate sono morte centinaia di persone, tra cui molti civili. Siglato finora da 6.492 persone, l’appello resta aperto alle sottoscrizioni fino a questa sera e ha raccolto il sostegno di docenti e ricercatori di decine di università anche straniere, tra cui Noam Chomsky. Ieri l’agenzia Anadolu aveva diffuso la notizia che tutti i firmatari erano finiti sotto inchiesta. Il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva attaccato duramente i firmatari, denunciando il loro come un atto di “tradimento” verso la Turchia, mentre il Consiglio per l’educazione superiore (Yok) ha annunciato azioni punitive.

Erdogan: “Solo perché hanno titoli come professore o dottore davanti ai loro nomi non significa che siano illuminati. Queste persone sono oscure, crudeli e vili. Chi sostiene i massacri del Pkk contribuisce ai suoi crimini. Ho invitato i giudici a fare subito tutto ciò che serve”. Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sugli accademici arrestati oggi per aver firmato l’appello per una soluzione pacifica al conflitto curdo.




TERRORISMO – Gli ultimi attentati in Egitto, Libia e Francia

EGITTO – Tre uomini armati hanno assaltato un resort a Hurghada, sulla costa egiziana del Mar Rosso. Lo scrive il sito del quotidiano egiziano Al Ahram. I tre sarebbero arrivati dal mare, hanno sparato all’ingresso di un hotel di lusso usato da turisti a Hurghada, il Bella Vista.

Il commando avrebbe cominciato a sparare all’entrata dell’hotel contro i presenti, per poter penetrare all’interno. Alcuni uomini della polizia presenti sul posto avrebbero ucciso uno, o forse più, uomini armati.

Un attentato simile a quello del giugno scorso a Sousse, in Tunisia, che aveva fatto 38 vittime.

LIBIA – Sarebbero decine le vittime dell’attentato messo a segno  contro un centro di addestramento della Guardia costiera a Zliten, a Ovest di Misurata, in Libia.

E’ quanto riporta il sito Libya Observer, secondo cui erano circa 400 le reclute presenti nel campo al momento dell’esplosione. “E’ un massacro”: così testimoni hanno descritto l’attacco suicida.

Nell’attacco sono morte almeno 40 persone, ha scritto Reuters citando il sindaco di Zliten. Altre fonti parlano di un numero di vittime molto maggiore. Alcuni siti libici riferiscono di oltre 100 vittime. Secondo l’agenzia di stampa libica Lana, vicina al governo di Tobruk, ci sarebbero almeno 15 morti e 30 feriti, mentre l’agenzia rivale del governo di Tripoli ha riferito di almeno 50 morti e 127 feriti.

Lo Stato islamico (Isis) ha rivendicato l’attacco kamikaze. Sull’agenzia Amaq, uno dei media ufficiali del califfato, si afferma che l’attentato è stato messo a segno “da uno degli eroi dello Stato islamico a Zliten”.

Il ministero della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza a Tripoli e Misurata per fronteggiare l’alto numero di morti e feriti. Immediata la condanna dell’inviato dell’Onu per la Libia, Martin Kobler.

L’attentato è avvenuto attorno alle 8 quando circa 400 reclute erano impegnate nelle esercitazioni nel campo di addestramento della Guardia costiera; l’esplosione è stata avvertita anche a Misurata, secondo quanto riportato dal Libya Observer, che si trova 60 chilometri a Est di Zliten.

FRANCIA – Ha scelto il giorno dell’anniversario della strage di Charlie Hebdo un ventenne di origini marocchine che oggi ha cercato di introdursi all’interno del commissariato di rue de la Goutte d’Or, nel 18esimo arrondissement, a Parigi. Un tentativo che è stato subito fermato. Erano le 11,30 quando ha urlato “Allah Akbar”, “Allah è grande”, nel tentativo di aggredire un agente. Voleva vendicare le vittime siriane, ma è stato ucciso dai proiettili della polizia. Aveva una cintura esplosiva finta, un’imitazione, un coltello, un pezzo di carta con disegnata la bandiera dell’Is e una rivendicazione manoscritta in arabo. Nel testo parlava della sua volontà di “vendicare i morti in Siria”, e giurava fedeltà all’autoproclamato califfo dell’Is.




Thailandia – Caccia all’uomo per la bomba a Bangkok. Dalla Cina l’invito a evitare la Thailandia

La polizia thailandese sta dando la caccia anche «a una donna con una maglietta nera» in relazione dell’attentato di Bangkok al tempio Erawan. «La esorto a farsi avanti per fornire informazioni» ha detto il generale Prawut Thavornsiri che ha anche reso noto che è stato escluso un coinvolgimento nell’attacco dei due uomini identificati come ricercati e che si sono presentati spontaneamente alla polizia.

I due sono risultati essere un turista e una guida turistica e sono stati rilasciati. E pare dunque chiaro che a tre giorni dall’attentato la polizia thailandese sembra brancolare nel buio. Secondo le autorità thailandesi almeno 10 persone potrebbero aver preso parte all’attentato ma pare improbabile che si tratti di terrorismo internazionale. Nello scoppio della bomba hanno perso la vita 20 persone e ne sono state ferite più di 120. Al centro della caccia all’uomo c’è sempre il misterioso giovane dalla maglietta gialla, il cui identikit lo indica come «straniero» nonostante un volto difficilmente attribuibile a una precisa etnia. La polizia ha ricostruito altri suoi movimenti, riuscendo a rintracciare il conducente di tuk tuk che l’ha portato al luogo della strage e il mototassista con cui invece si è allontanato dopo aver abbandonato lo zainetto con l’esplosivo nel complesso del santuario induista Erawan. Ma del ragazzo, apparentemente sotto i trent’anni, non c’è ancora traccia. Inoltre una troupe della Bbc ha ritrovato delle schegge della bomba a 50 metri dall’esplosione, assieme a biglie metalliche: segno che dei dettagli chiave potrebbero essere sfuggiti. E più tempo passa senza progressi di rilievo, più calano le probabilità di fare luce sul mistero.

In televisione il portavoce dell’esercito thailandese Winthai Suvaree ha detto di ritenere “improbabile” che l’attacco sia stato organizzato dal terrorismo internazionale, aggiungendo che i turisti cinesi “non erano un obiettivo diretto” degli attentatori.

In mattinata un portavoce del Ministero dell’interno ha spiegato che l’attentato  non è stato rivendicato ancora, tuttavia la polizia tende a escludere che possa trattarsi di terrorismo Internazionale o di matrice religiosa, concentrando invece le indagini sulle lotte politiche interne. Pare che sia stata individuata attraverso i video di una camera di sorveglianza una delle persone che materialmente hanno piazzato la bomba: maschio, giovane, con occhiali e una t-shirt gialla, secondo gli investigatori vicino al movimento delle Camicie Rosse fedele all’ex primo ministro Yingluck e al fratello Thaksim Shinawatra. Almeno secondo le dichiarazioni di Prayut Chan-O-Cha.

La polizia sta lavorando sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza nelle quali potrebbe essere stato identificato uno degli attentatori. L’unità di crisi della Farnesina, intanto, ha invitato i connazionali presenti a Bangkok a evitare la zona nel «distretto centrale di Chidlom, nei pressi dell’omonima stazione della metropolitana e del tempio di Erawan». Nel messaggio pubblicato sul sito Viaggiare Sicuri, inoltre, si da’ conto anche dell’esplosione presso il molo di Sathorn a Bangkok, non risultano al momento feriti».

Ieri le autorità thailandesi hanno diffuso un filmato delle telecamere di sicurezza, presenti di fronte al tempio Indù, che potrebbe aver immortalato uno dei possibili terroristi. Un uomo, con una maglietta gialla, zaino nero in spalla e cellulare in mano, mentre abbandona una borsa accanto ad una panchina e si allontana. «C’è un sospettato e lo stiamo cercando», ha affermato il portavoce della polizia, Prawut Thavornsiri. A proposito della granata lanciata da un ponte, le forze dell’ordine hanno chiarito che «se non fosse caduto in acqua, avrebbe certamente provocato feriti». Le indagini, quindi, vanno avanti. Il capo di Stato maggiore e vic ministro della Difesa, il generale Udomdej Sitabutr, ha escluso la pista dei ribelli islamici separatisti del sud, sostenendo che la dinamica dell’attentato «non corrisponde» a quelle abituali impiegate dai jihadisti. La pista più seguita porterebbe al terrorismo interno di matrice politica. Il capo della giunta militare al potere, il generale Prayuth Chan-ocha, ha puntato il dito verso il «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», noto come Camicie rosse, considerate vicine alla famiglia dell’ex premier Thaksin Shinawatra e alla sorella, Yingluck, deposta il 7 maggio 2014 da una decisione della Corte Costituzionale. Prayuth Chan-ocha, riferendosi ai responsabili dell’attentato, ha parlato di possibili legami con «un movimento anti-governativo che ha base nel nord-est della Thailandia». Il generale Prayuth, che è anche primo ministro, ha annunciato inoltre di aver effettuato un rimpasto di governo e di aver sottoposto all’anziano e malato re, Bhumibol Adulyadey, la lista per ottenere l’approvazione. Secondo il viceministro della Difesa, generale Udomdej Sirabut, l’attacco è stato invece «una vendetta per una recente operazione delle autorità». L’allusione è al rimpatrio coatto di un centinaio di musulmani uiguri in Cina. Molti membri della minoranza sono infatti fuggiti dalla Cina, a causa della repressione del governo di Pechino nei loro confronti. Intanto da Londra ieri è arrivata la conferma che tra le vittime dell’attentato a Bangkok c’è anche un cittadino britannico che viveva a Hong Kong.
La Thailandia ha visto  un’escalation di violenza che alza il livello di instabilità e incertezza nella crisi politica in corso da quattro mesi, in un clima sempre più di divisione e odio che rende sempre più difficile un negoziato tra i due blocchi di potere rivali. Il centro di Bangkok è stato scosso anche dall’esplosione di una granata di fronte al popolare centro commerciale Central World, a un centinaio di metri da uno degli accampamenti della protesta anti-governativa.

L’ordigno, scoppiato tra le bancarelle di souvenir dei manifestanti, ha causato la morte di un bambino di quattro anni (inizialmente indicato come dodicenne), della sorella di sei, e di una donna, oltre al ferimento di almeno altre 22 persone. Ieri sera, uomini armati a bordo di due pick-up hanno invece aperto il fuoco e lanciato ordigni in un mercato locale nella provincia orientale di Trat, dove una piccola folla era riunita per ascoltare il comizio di un leader locale affiliato alla protesta.
Una bambina di cinque anni seduta a un vicino ristorante di strada è stata colpita a morte, e un’altra è in coma; altre 34 persone sono rimaste ferite. I due attacchi portano a 19 morti e quasi 800 feriti il bilancio delle violenze da fine novembre. Ma se nei primi episodi di violenza le vittime erano spesso attivisti protagonisti di scontri, nelle ultime settimane gli attacchi hanno colpito moltissimi innocenti, in diversi casi neanche partecipanti alle manifestazioni.
Ora il coinvolgimento di bambini sembra aver scosso il Paese. La premier Yingluck Shinawatra ha condannato gli attentati definendoli «atti terroristici». Il problema è che ogni episodio di violenza finisce nel calderone delle strumentalizzazioni, alimentando le accuse reciproche. Per il movimento di protesta guidato dall’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, ogni morte è responsabilità di un governo malvagio, corrotto, populista e che ha perso ogni legittimità. I sostenitori di Yingluck, tra cui le «camicie rosse» del popoloso nord-est rurale che formano lo zoccolo duro dell’elettorato fedele all’ex premier Thaksin Shinawatra (fratello di Yingluck), intravedono invece giochi sporchi per creare instabilità e provocare un intervento delle forze armate, o comunque un colpo di mano dell’elite.

Estremisti di entrambe le fazioni dipingono sempre più i rivali come nemici subumani che meritano la morte. Oltre a confermare l’esasperazione delle fazioni rivali, secondo molti analisti l’accresciuta frequenza degli attacchi rappresenta un segnale che fa temere per una conclusione violenta della crisi. L’assenza di negoziati tra due posizioni incompatibili – con Yingluck che chiede il rispetto del suo mandato popolare e Suthep che vuole rimpiazzarla con un «Consiglio del popolo» nominato dall’alto – non lascia intravedere margini di manovra. La premier appare scivolare sempre più in una morsa, con la protesta di piazza da una parte e l’establishment tradizionale a lei ostile dall’altra. Se però dovesse cadere, a quel punto sarebbero i «rossi» a sentirsi legittimati a protestare, e il ciclo di violenze ricomincerebbe.

Intanto il Baht, la moneta thailandese, è ai minimi storici da sei anni e l’immagine turistica del Paese all’estero sta crollando velocemente. Non bastano la tradizionale ospitalità, il buon cibo, la bellezza di coste e templi a bilanciare la paura: già spuntano sul web le offerte speciali di agenzie e compagnie aeree. E se pubblicamente le autorità dichiarano che la situazione è sotto controllo, negli aeroporti periferici non ci è sembrato che le misure di sicurezza siano aumentate. I controlli, almeno per gli standard europei e americani, sono superficiali e veloci, il personale è sempre gentile ma non brilla per numero né per efficienza. Diversa la situazione a Bangok e Koh Samui, dove si è registrato qualche ritardo nelle procedure di imbarco.

La stampa in lingua inglese riporta le testimonianze raccapriccianti di chi ha assistito allo scoppio e continua ad aggiornare il conteggio di morti e feriti: per le fonti più attendibili, i primi sarebbero 22, i secondi oltre un centinaio, e in entrambi i casi non tutti sarebbero stati identificati. Diversi i turisti, anche se la maggior parte delle vittime sono thailandesi, come ha ammesso lo stesso portavoce in tv. E thailandesi, racconta un sito locale, sono anche i volontari che a centinaia  sono accorsi negli ospedali della capitale per dare una mano come potevano: chi donando sangue per le trasfusioni, chi mettendo a disposizione la propria auto o il tuk tuk per fare la spola tra il pronto soccorso e il luogo dell’attentato. Parecchi si sono offerti come interpreti, per aiutare i feriti e i loro parenti, soprattutto quelli cinesi e di Hong Kong.

Almeno due morti erano cittadini di Hong Kong, e proprio dall’ex protettorato cinese arriva il primo invito ufficiale a evitare la Thailandia. Più cauti gli altri Paesi, ma l’invito generico è a prestare attenzione, specie nelle mete turistiche e nei luoghi affollati; dalla Farnesina ancora nessuna notizia sull’eventuale coinvolgimento di italiani, che in questo periodo sono numerosi in Thailandia. “Faremo di tutto per riguadagnarci la fiducia di ognuno”, promette il portavoce del governo, annunciando un programma di sostegno alle vittime e ai loro familiari, mentre il Comitato nazionale per la Pace e l’Ordine invita la nazione a restare forte e unita e su Twitter si moltiplicano da tutto il mondo le preghiere per le vittime.




SIRIA – Raid aereo: gli Usa colpiscono dalla Turchia. Assemblea generale ONU in settembre

Cacciabombardieri Usa hanno compiuto per la prima volta un raid aereo “letale” sul Nord della Siria decollando da una base nel Sud della Turchia. Lo riferisce la Cnn citando due fonti diverse della Difesa statunitense. Poco prima, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu aveva affermato che Turchia e Stati Uniti “hanno fatto progressi” riguardo all’uso della base militare turca di Incirlik e che “gli aerei americani stanno cominciando ad arrivare. Presto – ha aggiunto – lanceremo una completa lotta contro Daesh”, l’acronimo arabo per Stato islamico.

Come in passato, la Casa Bianca ambisce alle dimissioni del presidente siriano Bashar Assad ed è favorevole al sostegno dei gruppi armati di opposizione. Tuttavia Mosca considera questo approccio disastroso, soprattutto in considerazione della mancanza di progressi nella lotta contro i terroristi di ISIS. La coalizione internazionale creata dagli USA con i suoi alleati nella regione finora non è riuscita a fermare lo slancio del gruppo fondamentalista. Contemporaneamente la Russia e gli altri Paesi che sostengono il regime di Damasco non sono pronti a collaborare con questa coalizione fino a quando la sua missione non godrà del sostegno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite attraverso l’approvazione di una risoluzione speciale.
Tale coalizione dovrebbe costituirsi “su una solida base giuridica internazionale”, — si afferma nel comunicato del ministero degli Esteri russo rilasciato dopo la visita di Sergey Lavrov in Qatar.
Per Mosca è essenziale che la coalizione riceva ufficialmente il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Secondo il “Kommersant”, il presidente russo ha intenzione di dedicare particolare attenzione a questo tema nel suo discorso di apertura della 70esima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU a New York alla fine di settembre.
In una conversazione con i giornalisti Sergey Lavrov ha criticato la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ed ha esternato le sue idee in merito al segretario di Stato USA John Kerry.
“Quando gli Stati Uniti un anno fa avevano annunciato la creazione di una coalizione per combattere ISIS in Iraq e in Siria, Washington si è assicurata l’accordo del governo iracheno, ma non ha chiesto nulla a Damasco. Abbiamo già sottolineato l’illegittimità e l’inefficacia di tale approccio,” — ha detto.
Secondo il capo della diplomazia russa, le azioni degli Stati Uniti si configurano come “un ostacolo alla formazione di un fronte comune contro ISIS” e la strategia di sostenere l’opposizione siriana con l’aviazione può “complicare ulteriormente la lotta contro il terrorismo.”
“L’addestramento sul territorio degli Stati vicini da parte degli istruttori americani sui combattenti della cosiddetta opposizione moderata è degenerato quando molti degli uomini addestrati sono finiti dalla parte degli estremisti”, — ha dichiarato il ministro russo.
Mosca ritiene che “gli attacchi aerei da soli non bastano”, “ed è necessario formare una coalizione di persone che la pensano allo stesso modo” e sul campo “si oppongono con le armi alla minaccia terroristica.”
“Sono interessati l’esercito siriano e iracheno e i curdi,” — ha detto Lavrov, aggiungendo che in questa iniziativa è stata promossa dal presidente della Federazione Russa.
Allo stesso tempo Lavrov ha ammesso che la posizione di Mosca non ha trovato la comprensione di Washington.
“Non penso di essere stato in grado di far scricchiolare la posizione degli Stati Uniti. Su questo tema le nostre posizioni divergono chiaramente,” — ha detto dopo l’incontro.

ROMA –  “Da diversi giorni il governo turco bombarda villaggi civili e postazioni militari del popolo curdo. In tutti questi mesi, Erdogan ha sostenuto e appoggiato l’ISIS. Dal confine turco sono passate autobombe dirette a Kobane, miliziani dello Stato Islamico sono stati curati negli ospedali turchi, mentre si continua a tenere chiusa la frontiera con la città curda liberata da YPG/YPJ. Anche nel recente attentato che ha causato la morte di decine di giovani socialisti e anarchici a Suruc, le responsabilità del governo dell’AKP stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza.

Il dittatore turco Erdogan ha annunciato di voler combattere l’ISIS solo perché si sente estremamente debole, sia all’interno, che all’esterno del Paese. Dopo le ultime elezioni non è in grado di ottenere la maggioranza necessaria a formare un governo, anche grazie alla straordinaria affermazione dell’HDP, partito capace di parlare ai curdi e a tutta la sinistra turca. Inoltre, è stato messo alle strette dall’accordo sul nucleare iraniano e, soprattutto, ha paura che l’esperienza di democrazia radicale del Rojava possa consolidarsi e diventare contagiosa.

Per queste ragioni, dietro la maschera della lotta all’ISIS, Erdogan ha lanciato una campagna contro la resistenza curda e contro le opposizioni interne. Su circa 800 arresti, meno del 10% riguardano presunti membri dello Stato Islamico: tutti gli altri sono militanti curdi o membri delle opposizioni.

Questa operazione è condotta con la complicità degli USA e dei Paesi dell’Unione Europea, mentre i media internazionali, che fino a pochi giorni fa esaltavano le gesta delle eroiche guerrigliere curde capaci di fermare l’avanzata dell’ISIS, adesso descrivono le stesse persone e le stesse organizzazioni come “terroriste”.

Dopo mesi di solidarietà attiva nei confronti della popolazione curda e delle sue unità di autodifesa, oggi vogliamo rompere il muro di silenzio e menzogne creato intorno all’aggressione militare che stanno subendo. Vogliamo denunciare il terrorismo di Erdogan e dello Stato turco. Vogliamo affermare che in Turchia e nel Kurdistan HDP, PYD, PKK, insieme ai movimenti sociali esplosi negli ultimi anni, sono gli unici garanti della democrazia e dei valori umani.
Per la fine dei bombardamenti e la pace in Kurdistan e in tutta l’area medio-orientale.

Per il rilascio immediato di tutti gli oppositori al regime autoritario turco.

Per l’eliminazione del PKK, unico fronte all’avanzata dell’ISIS e unico garante possibile per un processo di pace nell’area, dalle liste del terrorismo internazionale.

Per il riconoscimento del confederalismo democratico del Rojava, per una possibilità di pace e libertà per i popoli del Medio Oriente”.
Roma per il Kurdistan

(Attivisti solidali con il popolo curdo e la sinistra curda e turca si sono incatenati all’ambasciata della Turchia per denunciare la guerra del governo di Erdogan contro il confederalismo democratico del Rojava, il Pkk e i movimenti sociali turchi).

ERDOGAN – “Pur di bloccare le ambizioni dei curdi di creare un proprio territorio autonomo nel Nord della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ora è determinato addirittura ad allearsi con la filiale siriana di Al Qaida”. Così Mustafa Bali, portavoce delle Unità a Difesa del popolo curdo (Ypg), il quale condanna i piani di Ankara di creare una “zona di sicurezza” nel Nord della Siria. E teme che gli Usa possano appoggiarli.

Continuano, incessanti, i bombardamenti dell’aviazione turca contro le postazioni del Pkk sulle montagne del nord dell’Iraq e del sud –est della Turchia, e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Non si hanno finora notizie precise sul bilancio ma da numerose delle zone bombardate giungono allarmanti dati sul numero delle vittime. L’agenzia di stampa ufficiale turca, Anadolu, evidentemente imbeccata dal regime, parla di circa 260 membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan uccisi e di centinaia di feriti in una settimana di attacchi aerei sulle postazioni della guerriglia. Il bollettino fornito dalla Anadolu afferma che anche Nurettin Demirtas, fratello del leader del Partito Democratico dei Popoli Sehattin, sarebbe rimasto ferito durante i raid, centinaia, che avrebbero colpito e distrutto 65 tra depositi di armi e rifugi della resistenza curda.

Cifre che, come scrivevamo già, sono probabilmente gonfiate per dare la sensazione all’opinione pubblica islamista e reazionaria turca che la nuova strategia bellicista intrapresa pochi giorni fa dall’asse Davutoglu-Erdogan stia dando i suoi frutti e che le perdite inflitte ai ‘terroristi’ – per ora solo quelli curdi, perché di attacchi contro lo Stato Islamico non si è sentito più parlare – siano molto ingenti. Il Pkk finora ha dato notizia solo di cinque morti tra i combattenti ma ha ammesso che da giorni ha perso il contatto con alcune delle aree bombardate.
Naturalmente i bollettini ufficiali turchi non fanno alcuna menzione delle numerose vittime civili causate dalle bombe sganciate dagli F-16 e dagli F-4 di Ankara sui villaggi. Notizie di vittime civili e di distruzioni arrivano da numerose zone, ma il bilancio più alto sembra arrivare finora dal villaggio di Zergelê, sui monti di Qandil, nel kurdistan iracheno, dove i caccia turchi avrebbero ucciso almeno 9 civili, compresi donne e bambini. I bombardamenti, raccontano i testimoni, sono iniziati durante la notte, intorno alle 4: quattro missili hanno preso di mira le case nel villaggio distruggendone molte e facendo strage degli abitanti. Oltre ai morti ci sarebbero anche 15 feriti, di cui alcuni in gravissime condizioni, molti dei quali non sono stati condotti in ospedale a causa della continuazione dei raid che rendono insicuri gli spostamenti. “Stavamo dormendo quando i caccia turchi hanno colpito il nostro villaggio”, ha raccontato uno dei civili feriti.
Di fronte alla violazione della propria sovranità e alla strage di oggi documentata dalle immagini scattate da un reporter dell’agenzia Rojnews – che ne annuncia sicuramente altre nei prossimi giorni – la leadership della regione autonoma dell’Iraq del Nord ha incredibilmente chiesto ai guerriglieri del Partito Curdo dei Lavoratori di lasciare le proprie postazioni nella regione “per non esporre ulteriormente i civili ai raid aerei turchi”, di cui però non ha per ora chiesto la cessazione ad Ankara.
“Il Pkk deve tenere il campo di battaglia lontano dalla regione del Kurdistan perché i civili non diventino vittime di questa guerra”, ha affermato il presidente della regione autonoma, Massud Barzani in un comunicato diffuso dal suo ufficio.
“Non crediamo che ci possa essere una soluzione militare – si è limitato a dire il ministro degli Esteri del governo di Erbil, Falah Mustafa Bakir – Speriamo che le parti tornino al negoziato perché stabilità e sicurezza è quello di cui abbiamo bisogno ai nostri confini”.
In un suo comunicato-appello urgente, invece, il Congresso Nazionale Curdo (Knk) – che riunisce partiti e movimenti di liberazione curdi di diversi paesi – parla apertamente di terrorismo di stato turco e di aperta collaborazione di Ankara con lo Stato Islamico che pure afferma di voler combattere.
A vedere le strazianti immagini provenienti da Qandil la sensazione che i jihadisti abbiano finalmente a disposizione una loro aviazione – gli F-16 di Ankara – è davvero forte.

Per Bali, che ha parlato con askanews da Kobane, città curda siriana liberata a gennaio scorso dopo un lungo assedio dei jihadisti dell’Isis, le operazioni militari appena lanciate dall’esercito turco contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis) oltre il confine con la Siria sono “una farsa turca” con altri obbiettivi rispetto a quando dichiarato: in primis “colpire i curdi”. Il vero obiettivo sarebbe bloccare la creazione di un territorio autonomo dei curdi siriani, separando due zone da loro controllate.

La zona indicata per la creazione della cosiddetto “zona cuscinetto” voluta da Ankara è lunga circa 50 chilometri, parte da Kobane a Est e arriva ad Afrin a Ovest; entrambe città curdo siriane. “Si tratta di una zona mista controllata dall’Isis e abitata da curdi, arabi e turcomanni”, afferma Bali, secondo cui parò l’esercito turco ha “bombardato solamente villaggi curdi”.

“Dopo aver capito che l’Isis non è un partner vincente – prosegue il portavoce di Ypg, che accusa senza mezzi termini Ankara di connivenza con l’Isis – Erdogan punta ora sulla carta dei qaedisti, definendoli ‘opposizione moderata’” al regime di Bashar al Assad.

Un quadro che non corrisponde a realtà, secondo l’esponente curdo. “Intanto non esiste un’opposizione moderata, basti pensare che gli Usa dopo tre anni non sono riusciti a reclutare più di 60 combattenti da addestrare contro Damasco”, argomenta Bali, spiegando che “oggi la cosiddetta opposizione moderata è composta da soli gruppi terroristi di stampo islamista come il Fronte al Nusra, Jeish al Fatah, Beit al Islam e Ahrar al Sham”. Insomma gruppi islamisti “che in comune con Erdogan hanno l’avversione per i curdi”.

Quindi “non capiamo la politica di Washington”, che pare tacitamente assecondare il piano di Ankara per la creazione della zona di sicurezza, afferma il portavoce, sottolineando che “sarà difficile che gli americani possano accettare un’alleanza con terroristi islamici camuffati da opposizione siriana”.

Tuttavia, “le forze curde non cambiano strategia: noi combattiamo i terroristi a prescindere dal nome che portano, che sia Isis o al Qaida. In fondo il Fronte al Nusra ha cominciato a sgozzare la genet prima di quelli del Califfato nero”.

Di recente la Turchia è stato colpita, per la prima volta, da attacchi da parte di milizie jihadiste legate all’Isis. Un attentato ha fatto 32 morti nella città di confine di Suruc la scorsa settimana. Per Ankara, i militanti del PKK sono terroristi, così come lo sono gli uomini del Califfo .

Con una conferenza stampa congiunta del YPG (Peoples’ Protection Units) e della sua componente femminile, il YPJ, le forze curde che combattono contro lo Stato Islamico hanno annunciato la liberazione della città di Hasaka dopo una battaglia che durava da oltre un mese.

Secondo quanto si è appreso durante l’operazione sono stati uccisi almeno 386 terroristi appartenenti al Daesh tra i quali molti comandanti di alto grado. E’ l’ennesima vittoria delle forze combattenti curde nel difficile teatro della guerra in Siria, una vittoria che arriva nonostante gli attacchi dell’aviazione turca contro i combattenti curdi.

Durante la conferenza stampa ha parlato Azima Deniz, una comandante delle forze femminili curde (YPJ) la quale nel ricordare il fondamentale apporto delle combattenti donne curde ha sottolineato come nella battaglia siano stati uccisi il “sovrano” di Hasaka nominato dai vertici dello Stato Islamico, il sindaco della città e diversi suoi assistenti.

I combattenti curdi hanno sequestrato anche una grande quantità di armi e munizioni che andranno a rinforzare le milizie curde dato che le potenze occidentali non le riforniscono adeguatamente di armi a causa della opposizione delle Turchia. La conquista della città di Hasaka porta le forze curde ancora più vicino a Raqqa, capitale del Daesh.

Intanto  la Turchia ha ammesso che durante i raid dell’aviazione turca contro obbiettivi curdi hanno perso la vita diversi civili. Il Ministero degli Esteri turco ha emesso un comunicato dove si dice “rattristato” per l’uccisione di civili e che “la Turchia farà di tutto per evitare l’uccisione di civili” confermando tuttavia che i raid contro le forze curde, in particolare contro il PKK (ma non solo), continueranno fino a quando la Turchia lo riterrà opportuno.




UNGHERIA – Posizioni xenofobe del premier Orban, barriera al confine con la Serbia

Dopo che l’immagine di uomini, donne a bambini stipati in treni diretti verso campi profughi ha fatto il giro del mondo, sollevando l’indignazione della società civile, l’Ungheria torna a far parlare di sé per le proprie posizioni razziste e xenofobe.

Secondo il premier Viktor Orban, infatti, l’immigrazione illegale è una “minaccia per l’Europa”, in quanto mette a rischio “l’identità culturale europea”. Ciononostante, s’è lamentato il presidente, l’Ue non fa nulla per difendersi dalle “masse di clandestini” che contribuiscono “a far prosperare terrorismo, disoccupazione e criminalità”.

Proprio a fronte di simili convinzioni, il governo ha già deciso di realizzare una barriera sul confine con la Serbia: “Questa gente doveva essere fermata e registrata già in Grecia, perché sono entrati in Ue da lì”, ha tuonato il vicepremier Janos Lazar. “A quel che mi risulta, nei Balcani non c’è attualmente alcuna guerra. Hanno pagato dei trafficanti, in Serbia, e vengono trasportati a bordo di autobus fino al confine ungherese. Costruiamo una barriera proprio per farla finita con tutto questo”.

Intanto, il passaggio illegale in Ungheria sarà qualificato come reato invece che come semplice contravvenzione, come accadeva fino ad oggi.

Sono attorno a 1400-1500 gli immigrati sbarcati in Sicilia negli ultimi giorni. Gran parte e’ approdata nel porto di Palermo a bordo di un rimorchiatore norvegese inserito nel dispositivo Triton: ben 785, africani e siriani, molte donne e molti minori, per lo piu’ non accompagnati. Dei nuovi arrivati, un centinaio restera’ nell’Isola; per gli altri e’ stato disposto il trasferimento nelle altre regioni del Paese. A Pozzallo sono arrivati invece in 468, a bordo di una nave militare irlandese. Tra loro sette donne in gravidanza. E poi 102 arrivati a Trapani; tra loro 24 donne (di cui tre in gravidanza), 12 minori non accompagnati, e due neonati. Cinque migranti sono stati trasferiti all’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani per accertamenti sanitari. Nel frattempo sembra aggravarsi il bilancio del naufragio al largo della Libia. Alle circa quaranta vittime di cui hanno parlato i superstiti, se ne aggiungerebbero altre cinque, in base alle testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie presenti sul posto. Sarebbero dunque 45 le vittime, secondo le loro ricostruzioni. Tra le ipotesi della tragedia, anche quella di un possibile incidente in mare nelle concitate fasi dei soccorsi: il panico e la foga per mettersi in salvo avrebbe provocato il dramma.

Dei 785 giunti a Palermo sulla nave norvegese Siem Pilot, 133 sono donne, due delle quali in stato di gravidanza e 27 bambini. La maggior parte proviene dall’Eritrea (766) gli altri da Siria, Bangladesh, Etiopia e Sudan. In particolare, tra i profughi in condizioni fisiche piu’ delicate, sono scesi un non vedente e un uomo e una donna in iperglicemia acuta che hanno avuto bisogno dell’intervento immediato dei sanitari dell’Asp. Gli altri migranti, alcuni con problemi dermatologici, sono complessivamente tutti in buone condizioni di salute. La gran parte dei migranti saranno trasferiti nei centri di prima accoglienza delle varie regioni italiane. Circa una settantina , per pochi giorni, verranno accolti dal centro San Carlo e Santa Rosalia della Caritas.

Al porto, sotto il sole cocente, ad attivarsi anche 28 volontari della Caritas con due operatori. Si tratta di persone, giovani e non, che hanno risposto all’appello lanciato nei giorni scorsi dalla Caritas che invitava i cittadini a farsi avanti per partecipare attivamente alla distribuzione di cibo, acqua e scarpe ai profughi durante lo sbarco. Sono stati preparati all’alba e distribuiti al Porto dalla Caritas ben 2800 sacchetti con il pasto che i migranti porteranno con loro nel viaggio per le diverse destinazioni e oltre cento paia di scarpe. “Continuiamo a verificare con piacere – afferma Anna Cullotta, coordinatrice dei volontari della Caritas – che, nonostante il sole cocente, tanti giovani e meno giovani si stanno spendendo, in pieno spirito di gratuita’ con grande energia, nei confronti dei primi bisogni dei migranti. L’invito che continuiamo a rivolgere alla cittadinanza e’ quello di partecipare attivamente al porto, non soltanto per rispondere al bisogno che abbiamo ma anche per potere fare un’esperienza umana molto forte”. Tra i migranti giunti a Pozzallo, invece, 41 sono donne e 42 i bimbi. Nove donne in gravidanza sono state trasferite per controlli, negli ospedali di Ragusa, Vittoria e Modica. Un uomo e’ stato ricoverato a Ragusa. I migranti provengono da Bangladesh, Nigeria, Etiopia, Siria, Senegal, Costa D’Avorio, Guinea, Marocco e Somalia.




TURCHIA – La Polizia dà la caccia a Algoz, kamikaze dell’Isis esploso a Suruc

La polizia turca è impegnata in una caccia all’uomo per arrestare Yunus Alagoz, fratello di Abdurrahman, il ventenne kamikaze dell’Isis che si è fatto esplodere a Suruc, al confine con la Siria, uccidendo 31 volontari con aiuti diretti alla città curdo-siriana di Kobane. Secondo gli inquirenti, l’uomo starebbe progettando un nuovo attentato. La polizia ha anche individuato una sala da tè gestita da Yunus Alagoz nella sua città sudorientale di Adiyaman che sarebbe un probabile centro di reclutamento jihadista.

Le indagini condotte finora hanno ricostruito gli spostamenti dei due fratelli turchi jihadisti, che a gennaio sarebbero entrati illegalmente in Siria e addestrati dall’Isis fino al ritorno in Turchia a maggio. La scomparsa dell’attentatore di Suruc era stata denunciata dalla famiglia alla polizia il 22 novembre scorso. Da allora era stato inserito nella lista delle “persone scomparse con legami con il terrorismo”. La madre ha raccontato di averlo rivisto per l’ultima volta una decina di giorni prima dell’attentato, ma di non aver poi più avuto sue notizie. L’ultimo testimone ad averlo visto, l’autista del minibus che lo ha condotto a Suruc, ha detto agli investigatori che viaggiava accompagnato da una donna. Nel frattempo si stringe il cerchio intorno al fratello del kamikaze, che nel 2013 sarebbe andato per alcuni mesi in Arabia Saudita. Tornato ad Adiyaman l’anno scorso, ha aperto una sala da tè che secondo gli inquirenti si è trasformata in un centro di radicalismo islamico e reclutamento jihadista. Otto mesi fa, dopo i sanguinosi scontri di inizio ottobre nel sud-est turco per il mancato supporto di Ankara alla battaglia dei curdi a Kobane contro l’Isis, il locale è stato chiuso, ufficialmente per mancanza di una licenza.

Isis: Pkk rivendica omicidio di un jihadista a Istanbul – Il Pkk curdo ha rivendicato l’omicidio di un sospetto affiliato dell’Isis, ucciso a Istanbul martedì sera. Si tratta di Mursel Gul, commerciante di sapone, cui hanno sparato quattro colpi di pistola dopo averlo attirato in una trappola con un falso ordine nel quartiere popolare di Sultangazi. Come nel caso dei due poliziotti trovati morti ieri nella loro abitazione nella città turca di Ceylanpinar, al confine con la Siria, si tratta di una rappresaglia per la strage jihadista di Suruc, in cui lunedì sono stati uccisi 31 volontari che portavano aiuti diretti alla città curdo-siriana di Kobane. Nella rivendicazione l’Ydg-h, gruppo armato giovanile del Pkk, spiega di aver seguito Gul per tre mesi prima di ucciderlo. L’uomo avrebbe combattuto con l’Isis nel nord della Siria contro le milizie curde dell’Ypg per poi tornare in Turchia sette mesi fa per ricevere cure mediche. Nel comunicato l’Ydg-h minaccia anche di uccidere altre persone legate all’Isis in Turchia. Secondo gli inquirenti potrebbe essere stato commesso dal Pkk anche l’omicidio avvenuto ieri nella provincia meridionale di Adana del 33enne Ethem Turkben, anche lui ritenuto un simpatizzante jihadista.

Lo Stato Islamico avrebbe distrutto anche lo Stadio Olimpico della città irachena di Ramadi, facendo esplodere tre tonnellate e mezzo di esplosivo. Secondo la fonte i miliziani hanno preparato per giorni le cariche esplosive fatte esplodere successivamente tramite un telecomando. Lo stadio, non ancora completo, avrebbe potuto ospitare 30mila persone.
Gli esplosivi fanno parte della strategia di ritirata dello Stato Islamico, che avrebbe collocato ordigni in tutta la città per ostacolare l’esercito iracheno, che negli ultimi giorni sta intensificando i suoi sforzi per riprendere il controllo dell’area.
Lo stadio avrebbe dovuto essere uno dei simboli della rinascita irachena, costruito alla fine della guerra, prima dell’avvento dell’Isis. Di fatto parte di un progetto da 100 milioni di dollari che prevedeva anche la creazione di un villaggio olimpico, parcheggi, biblioteche, centri di trasmissione televisiva e un albergo con 80 camere.