ITALIA – La Liberazione taciuta

Negli anni del secondo conflitto mondiale le italiane hanno messo in gioco le loro vite e capovolto un sistema di valori: chiamate a far fronte alle assenze maschili nelle attività quotidiane private e pubbliche, sono uscite di casa spalancando le porte al futuro.

Occupate nei campi e nelle fabbriche, impegnate nel reperimento di generi alimentari, operose nelle azioni di soccorso e cura, non hanno esitato a impugnare le armi.

Protagoniste della Resistenza, e non solo comparse, non portavano divise, né enfatizzavano le loro azioni, ma sostenevano combattenti, feriti, prigionieri, in una sorta di “maternage di massa”. Nelle loro mani era il mercato nero e buona parte della gestione economica e materiale della vita partigiana: procuravano il denaro e distribuivano armi, vestiti, cibo o medicine.

Cresceva nel contempo la loro politicizzazione personale e collettiva, espressa attraverso agitazioni in fabbrica, adesione a gruppi organizzati e partiti, diffusione clandestina e infine produzione autonoma di stampa (nel luglio del’44, Napoli liberata pubblica il primo numero legale di Noi donne).

Le partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della donna: 4.653 furono arrestate e torturate, 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Nel dopoguerra, l’impostazione maschilista della società, sostanzialmente immutata rispetto al modello precedente, non ha dato loro il giusto riconoscimento.

Nel tentativo di richiudere le porte aperte e soffocare il cambiamento, gli uomini hanno voluto intendere la partecipazione femminile alla Resistenza come manifestazione di senso materno e di pacifismo innato: nell’immaginario collettivo, anche la staffetta andava ricondotta al ruolo di infermiera. Escluse dalle sfilate della vittoria, invitate a rimuovere e a tacere, molte piccole e grandi protagoniste della storia smisero di raccontare.

Alla loro memoria dedichiamo il fotoreportage del 25 aprile.

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Milano

PIAZZALE DONNE PARTIGIANE

Foto di Nadia Boaretto

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Roma

VIA IRIS VERSARI (1922–1944)

Foto di Sara Caponera

Staffetta della formazione partigiana di Tredozio, fece parte della banda di Silvio Corbari al quale era legata sentimentalmente. Diverse e clamorose furono le azioni condotte assieme ai compagni. Ferita durante uno scontro coi tedeschi, decise di uccidersi piuttosto che cadere in mani nemiche. E’ stata insignita della Medaglia d’Oro al V.M.

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Garlasco

VIA GISELLA FLOREANINI (1906-1993)

Foto di Roberta Martinotti

Legata già dagli anni ’30 ai gruppi di Giustizia e Libertà e al PCI divenne, grazie alle sue doti organizzative, un punto di riferimento per la Val d’Ossola. Nel febbraio 1945 fu nominata Presidente del CLN provinciale e trattò la resa dei nazifascisti nei giorni dell’insurrezione. Dopo la guerra fu parlamentare, dirigente dell’UDI e dell’Anpi e membro della Federazione Internazionale della Donna.

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Aosta

VIALE AURORA VUILLERMINAZ (1922-1944)

Foto di Marinella Govenale

Aurora Vuillerminaz dal luglio 1944 si dedicò interamente alla lotta partigiana entrando nella banda A. Verraz, operante nella valle di Cogne. Assunse l’incarico di staffetta creando collegamenti tra la Val d’Aosta e la vicina Svizzera. Al ritorno da una missione fu arrestata e, non avendo rivelato alcuna informazione, affrontò con coraggio la fucilazione.

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Trento

VIA CLORINDA MENGUZZATO “VEGLIA” (1927 – 1945)

foto di Livia Stefan

Infermiera e staffetta partigiana militò, con il nome di battaglia Garibaldina prima e Veglia poi, nel battaglione Gherlenda operante nel Trentino; fu catturata dai nazisti, violentata, fatta azzannare da cani feroci e fucilata. E’ stata insignita della Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria.

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Olbia

VIA JOYCE LUSSU (1912-1988)

Foto di Enrico Grixoni

La famiglia fuggì all’estero nel 1924 a causa delle violenze squadriste subite. Nel 1932 il fratello fu arrestato: Joyce iniziò a diffondere stampa antifascista e accettò diverse missioni clandestine. Una di queste la portò a conoscere il marito Emilio. Nel dopoguerra si legò alla militanza di base in Sardegna, promosse l’UDI, militò nel PSI e tradusse poesie terzomondiste.

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Ragusa

ROTONDA MARIA OCCHIPINTI (1921-1996)

Foto di Rosa Perupato

A Ragusa, nel gennaio del 1945, Maria, 23 anni e incinta di cinque mesi, si stende davanti un camion militare carico di giovani rastrellati da un quartiere popolare, con l’intento di agevolarne la fuga e la diserzione. Viene condannata al confino e al carcere. Finita la guerra viaggerà all’estero stabilendosi infine a Roma, avvicinandosi prima al PCI e poi agli anarchici.

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Genova

VIA TEA BENEDETTI (1930-2000)

Foto di Rossella Sommariva

Proveniente da una famiglia operaia di Rivarolo, divenne staffetta partigiana molto giovane. Dopo la guerra fu sindacalista, assessora in Comune, presidente della Croce Verde di Sestri, inoltre fece parte del Consiglio Comunale di Genova per 21 anni (dal 1976 al 1997), distinguendosi per il suo spirito di servizio.

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Trieste

VIA RITA ROSANI (1920- 1944)

Foto di Lucio Perini

“Vuiatri gavi voia schersàr!”. Con queste parole, dopo averle vanamente proposto di tentare la fuga coperta da una loro sortita diversiva, i combattenti della formazione “Aquila”, sorpresi da un rastrellamento nel loro rifugio in Val Policella, videro uscire a combattere la loro compagna Rita Rosani, ventiquattrenne ebrea triestina. Fu subito catturata e uccisa da un sottotenente repubblichino.

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Napoli

VIA VERA LOMBARDI (1904-1995)

Foto di Rita Ambrosino

Nata nel 1904 in una famiglia di tradizioni socialiste, Vera partecipò agli incontri clandestini di antifascisti, durante i quali scambiava libri e materiali clandestini. Dopo la guerra rimase protagonista della vita culturale e politica napoletana: è stata per anni presidente dell’Istituto campano per la Resistenza che, dopo la sua morte, le è stato intitolato.

 




ITALIA – Scene di vita triestina

di Claudia Antolini

Trieste conta 17 strade dedicate a sante e madonne, 2 a benefattrici locali e 7 che ricordano la sua storia. Le targhe femminili sono 39 su un totale di circa 1300, meno del 3%, a fronte di più di 700 dediche a uomini. Poche le donne moderne, d’arte e di penna, presenti nelle targhe cittadine.

Gli odonimi della toponomastica sacra vanno ascritti al periodo preunitario italiano. Per lo più si tratta delle numerose denominazioni della Madonna, di nomi di sante e martiri che, a lungo, sono state le uniche presenze toponomastiche femminili. In molti casi le denominazioni nascevano in maniera spontanea dalla popolazione.

Laiche o religiose, le benefattrici hanno dedicato la loro vita ad aiutare i bisognosi, l’infanzia abbandonata, i poveri e i malati; spesso hanno fondato opere assistenziali che ancora oggi funzionano; hanno offerto il loro amore e, se benestanti, anche i loro averi, a testimoniare che la solidarietà umana non manca mai, anche nei periodi più bui. Le opere di carità e beneficenza hanno costituito, per molte donne, le uniche forme di autonomia riconosciute e accettate dalla famiglia e dalla società. Le strade di Trieste ricordano Sara Davis e Cecilia de Rittmeyer, donne abbienti che decisero di impiegare le loro sostanze e i loro sforzi a migliorare le condizioni di vita dei meno fortunati.

Quando la toponomastica femminile trae spunto dalla storia, sceglie spesso mogli o madri di personaggi famosi, donne che, pur avendo avuto in vita compiti e ruoli significativi, hanno dovuto cedere il passo, nella commemorazione, ai loro uomini. A Trieste è presente via Cornelia Romana, madre di Caio e Tiberio Gracco.

Altre figure sono celebrate perché la storia le ha perseguitate e rese martiri, quasi fosse implicito per il genere femminile che, per meritare un odonimo, è necessario essere vittime: ricadono in questo caso Elisa Baciocchi e Mafalda di Savoia, e Norma Cossetto.

La città non ha comunque dimenticato il coraggio delle donne che abbracciarono la causa della Resistenza. Conoscevano la crudeltà dei tedeschi, intuivano che la ferocia maschile dei soldati si sarebbe scatenata contro di loro più che contro un semplice militare nemico, eppure non si fermarono. A lungo la storiografia ufficiale le ha ignorate, sottovalutando il loro ruolo. Rita Rosani, Laura Petracco (ricordata con il fratello), Alma Vivoda (a Muggia) e Ondina Peteani hanno sacrificato la vita per l’onore e la libertà di tutta la nazione italiana; per loro l’intitolazione di strade e giardini e la medaglia d’oro al Valor Militare (tranne che per Ondina Peteani, deceduta nel 2003.

Negli ultimi anni, amministrazioni più sensibili al recupero della memoria femminile iniziano a compensare il gap di genere intitolando a figure moderne, di cultura e d’azione, aree verdi della città.

Fotografie di Lucio Perini

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Risale al 4 giugno 2014 l’intitolazione del giardino comunale di via Mascagni (Valmaura) a Fedora Barbieri (Trieste 1920 – Firenze 2003), la mezzosoprano triestina, ma di fama internazionale, che portò il calore della sua voce nei più grandi teatri lirici europei e americani.

Triestina di nascita, debutta a Firenze a soli vent’anni. Nel 1942 canta alla Scala per la Nona Sinfonia di Beethoven. Negli anni Cinquanta è spesso a fianco della Callas e fino agli anni Settanta resta all’apice del successo, grazie al temperamento drammatico e al profondo calore della sua voce.

02.Trieste_giardino.Leonor.fini_LucioPerini

A Leonor Fini (Buenos Aires 1907 – Parigi 1996), pittrice, è dedicato il giardino che si trova in via Boccaccio, a Roiano. L’intitolazione risale all’11 dicembre 2014. A Trieste l’artista trascorre i primi vent’anni scoprendo, da autodidatta, la vocazione per la pittura. Fondamentale l’amicizia con artisti e letterati locali Leonor, eclettica e anticonformista, ebbe una carriera lunga, ricca di eventi, tra Milano, Roma e Parigi, e relazioni importanti.

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Ave Ninchi (Ancona 1915 – Trieste 1997), dal 22 dicembre 2013, è ricordata nel piazzale antistante la sede dell’Arac, all’interno del giardino di via Giulia. Nata nelle Marche ma cresciuta a Trieste, Ave fu attrice di teatro e di cinema e conduttrice televisiva molto amata. Nel 1939 esordì a teatro, interpretando una lunga serie di figure popolari che la resero celebre. Sei anni più tardi ebbe inizio la sua brillante carriera nel cinema, che la portò ad affiancare Totò, Anna Magnani e Alberto Sordi.

04.TRIESTE.madieri.LUCIOPERINI

Marisa Madieri (Fiume 1938 – Trieste 1996) ha uno spazio verde che la ricorda in via Benussi, nel quartiere di Valmaura, dallo scorso 8 maggio.

Aveva appena undici anni quando la sua famiglia abbandonò Fiume e si stabilì a Trieste. Nel suo primo romanzo, Verde Acqua, pubblicato nel 1987, narra dell’esodo dall’Istria e dipinge la città natale sullo sfondo delle sue memorie infantili e adolescenziali. Ad oggi è considerata una delle maggiori voci narranti dell’esodo istriano, e le sue opere sono state tradotte in varie lingue.

05.Trieste_giardino chiara longo 2

A Borgo San Sergio, dal 22 novembre 2014 si può riposare nel giardino Chiara Longo (Trieste 1951 – 1995), grande atleta triestina: nell’arco di 5 anni riuscì a conseguire le vette più alte della pallacanestro.

Ottima giocatrice di squadra vantò ben 58 presenze in nazionale, l’ultima delle quali a Rio de Janeiro, contro il Messico.

06.Trieste.giardinoondinapeteani_Perini

È del 27 gennaio 2015 la dedica di un giardino a Valmaura ad Ondina Peteani (Trieste 1925 – 2003), eroina della Resistenza e prima staffetta partigiana d’Italia. Entra diciottenne nei battaglioni del Carso, fugge da due arresti ma nel marzo del ’44, viene deportata, dapprima ad Auschwitz, poi a Ravensbrück e infine in una fabbrica nei pressi di Berlino, dove mette in atto un programma di sabotaggio alla produzione. Nell’aprile del ’45, durante una marcia di trasferimento, riesce a scappare e a raggiungere Trieste, percorrendo in 3 mesi più di 1300 km. Nel dopoguerra diventa ostetrica e continua la sua attività politica nel Pci, nei sindacati, nell’Anpi, nell’Aned e nei movimenti femminili.

07.Trieste.giardino wulz.Perini

Nei pressi dell’Università di Trieste, in via Catullo, troviamo il Giardino Wanda e Marion Wulz, (Trieste 1903 – 1984 e Trieste 1905 – 1993), dedicato alle due fotografe triestine, figlie d’arte. Iniziano la loro carriera con il padre, nello studio fotografico fondato dal nonno, del quale diventeranno titolari nel 1928. Portano avanti la tradizione del ritratto, le vedute della città e i servizi commissionati da opifici e cantieri. Wanda si fa riconoscere per la sua personale interpretazione della realtà: vicina al futurismo, viene notata da Marinetti, in una mostra tenutasi a Trieste nel ’32. “Io+gatto”, la sua immagine più famosa. Nel 1981 cedono il loro archivio allo studio dei Fratelli Alinari di Firenze.

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Santa Maria Maggiore si riferisce a uno dei più importanti edifici sacri della città, dedicato al culto dell’Immacolata Concezione.

Strade intitolate a sante e madonne si riferiscono in gran parte a santuari o località particolarmente significative per il culto, ma anche a piccole costruzioni sacre, a immagini devozionali davanti alle quali ci si fermava per un breve riposo e una preghiera.

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Su di un colmello alla periferia di Trieste, ora compreso nella città, si trova Servola, una volta villaggio di pescatori ora quartiere che mantiene orgogliosamente le sue specificità. A Zora Perello, antifascista servolana morta ventiduenne nel campo di concentramento di Ravensbrück è dedicata la lapide posta sulla sua Casa del Popolo. Nella foto, quasi una sintesi storica di questo angolo di Europa: San Antonio, il leone di Venezia, la stella rossa della repubblica Yugoslava e dei partigiani titini.

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A 50 metri un’altra epigrafe, anche questa bilingue, fissa un momento particolarmente duro e difficile della storia di questa città. Malgrado la sconfitta nazifascista, il territorio di Trieste e dintorni vive un clima di guerra civile. La Civil Police, forza dell’ordine temporanea istituita dagli angloamericani, è composta in larga parte da ex membri del Partito Nazionale Fascista e della Guardia Civica, da disertori della zona B (territorio amministrato dagli jugoslavi) -e da domobranci, i miliziani sloveni anticomunisti. Innumerevoli saranno le manifestazioni di piazza e le proteste represse nel sangue da queste “forze dell’ordine”. Il 10 marzo 1946, nel rione di Servola, la Civil Police spara sulla folla che aveva issato alcune bandiere per una manifestazione filojugoslava provocando una ventina di feriti e la morte di Giovanna Genzo, madre di tre bambini, e Giorgio Bonifacio.




ITALIA – Foibe: per cinquant’anni il silenzio della storiografia

È in queste voragini dell’Istria, cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo, che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.

La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del terrore titino che riuscì a uscire da una foiba. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico, è la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.

Nel febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia  accoglienza. Non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è la ragione per cui il PCI non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il PCI a lasciar cadere l’argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci, la stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati “cittadini di serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d’altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l’occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco.

Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta, “perché – ricorda ancora Sabbatucci – è stata ignorata per molto tempo”. Il 10 febbraio del 2005 il Parlamento italiano ha dedicato la giornata del ricordo ai morti nelle foibe. E’ iniziata solo da un decennio l’elaborazione di una delle pagine più angoscianti della nostra storia.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Montecitorio durante la giornata del ricordo degli italiani gettati nelle cavità carsiche:

“Il Parlamento con decisione largamente condivisa ha contribuito a sanare una ferita profonda nella memoria e nella coscienza nazionale”. Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato le vittime delle foibe e l’esodo degli italiani giuliano -dalmati nel corso del Giorno del Ricordo, celebrato a Montecitorio. “Per troppo tempo – ha aggiunto il Presidente – le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia”.

Alla celebrazione è intervenuta anche il presidente della Camera Laura Boldrini, che ha parlato di “un debito” italiano verso le vittime e “di una violenza brutale” rispetto alla quale “dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato o teso a oscurare la verità”. Il Giorno del Ricordo è stato istituito nel 2004 per ricordare le oltre diecimila vittime gettate nelle cavità carsiche ai confini orientali del nostro Paese tra il 1943 e il 1945 per ordine del dittatore jugoslavo Tito intenzionato a ‘slavizzare’ territori che erano stati a lungo italiani, come l’Istria e Fiume. Nel suo intervento, Boldrini ha lamentato che questo oblio sia stato dovuto “per calcoli diplomatici o convenienze internazionali”. Quella tragedia, ha detto fra l’altro la presidente della Camera, “è un monito per il passato e per il futuro: contro l’intolleranza, le dittature, le guerre e ogni tendenza a nascondere la verità”. Durante la celebrazione, che si è svolta nella sala della Regina della Camera dei deputati, Mattarella ha consegnato i premi alle scuole vincitrici del concorso nazionale ‘La Grande Guerra e le terre irredente dell’Adriatico orientale nella memoria degli italiani’, promosso dal Miur.