USA – E’ polemica sulle trivelle in mare

Mentre il governo italiano toglie la data di scadenza alle concessioni entro le 12 miglia, gli USA riducono il campo d’azione delle trivelle in mare.

Anche negli Stati Uniti infuria la polemica politica sulle trivelle e le estrazioni di idrocarburi in mare. Mentre l’Italia non cancella il regalo del governo Renzi alle concessioni petrolifere entro le 12 miglia, l’amministrazione Obama ha varato  le nuove regole per le perforazioni al largo delle coste USA. La motivazione è semplice: evitare un nuovo disastro ambientale come quello causato dall’esplosione, nel 2010, della piattaforma Deepwater Horizon della BP.
Le nuove norme, secondo l’industria petrolifera, avranno impatti per 31,8 miliardi di dollari sul settore, mettendo in pericolo 50 mila posti di lavoro. Il Dipartimento degli Interni, che ha deciso di rendere obbligatori gli standard, stima i costi di adeguamento degli impianti in meno di 1 miliardo e ha insistito sul fatto che la produzione di petrolio nel Golfo del Messico «è una componente fondamentale del portafoglio energetico della nostra nazione». In realtà, rappresenta il 16% della produzione totale di petrolio degli Stati Uniti e il 5% della loro produzione di gas naturale domestico.

I regolamenti varati dall’amministrazione USA, sostanzialmente, aumentano il monitoraggio dei pozzi e il controllo e manutenzione delle piattaforme. In particolare, i nuovi e più stringenti standard vengono applicati al blowout preventer, dispositivo utilizzato durante la perforazione di un pozzo che ha il compito di metterlo in sicurezza nel caso i fluidi dovessero accidentalmente migrare all’esterno.
L’industria ha avvertito che quasi i due terzi dei pozzi perforati nel Golfo del Messico dal 2010 non soddisfano i nuovi standard. Ma dovranno adeguarsi: nessuno ha voglia di vedere un altro cataclisma nelle acque dell’Atlantico. Secondo una nuova analisi dell’impatto di quel disastro, prodotta dalla ONG Oceana, fino a 800 mila uccelli marini e un gran numero di delfini e balene sarebbero morti a causa della fuoriuscita del petrolio. Molti altri hanno sofferto di problemi riproduttivi per anni, e una superficie corallina delle dimensioni di Manhattan è stata danneggiata.
Oceana dichiara che «l’apertura di nuove aree di perforazione in mare aperto comporta rischi inaccettabili. Non dovremmo espandere la perforazione nelle acque statunitensi o utilizzare tecnologie devastanti come l’airgun, che può compromettere la vita marina».




ITALIA – I NoTriv scrivono il vademecum per il referendum del 17 aprile

Il prossimo 17 aprile si terrà un referendum popolare. Si tratta di un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto e che la maggioranza dei votanti si esprima con un “Sì”. Hanno diritto di votare al referendum tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età. Votando “Sì” i cittadini avranno la possibilità di cancellare la norma sottoposta a referendum. Dove si voterà? Si voterà in tutta Italia e non solo nelle Regioni che hanno promosso il referendum. Al referendum potranno votare anche gli italiani residenti all’estero. Quando si voterà? Sarà possibile votare per il referendum soltanto nella giornata di domenica 17 aprile. Cosa si chiede esattamente con il referendum del 17 aprile 2016? Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane. Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare “Sì” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni. Qual è il testo del quesito? Il testo del quesito è il seguente: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per 2 la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?». È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei “Sì” il risultato venga poi “tradito”? A seguito di un eventuale esito positivo del referendum, il Parlamento o il Governo non potrebbero modificare il risultato ottenuto. La cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum è chiaro e mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque. È vero che se vincesse il “Sì” si perderebbero moltissimi posti di lavoro? Un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, ogni attività petrolifera in corso. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati alle urne il prossimo 17 aprile, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre. L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe opportuno, al contrario, investire nella ricerca degli idrocarburi e incrementare l’estrazione di gas e petrolio? L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale. Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano: portarlo via o magari rivendercelo.  Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty. Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro. Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia? Secondo le ultime stime del Ministero dello Sviluppo Economico effettuate sulle riserve certe e a fronte dei consumi annui nel nostro Paese, anche qualora le estrazioni petrolifere e di gas fossero collegate al fabbisogno energetico nazionale, le risorse rinvenute sarebbero comunque esigue e del tutto insufficienti. Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 8 settimane. La ricchezza dell’Italia è, in verità, un’altra: per esempio il turismo, che contribuisce ogni anno circa al 10% del PIL nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro; la pesca, che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce circa il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000 persone; il patrimonio culturale, che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1 milione e 400.000 persone, con un fatturato annuo di circa 40 miliardi di euro; il comparto agroalimentare, che vale l’8,7% del PIL, dà lavoro a 3 milioni e 300.000 persone con un fatturato annuo di 119 miliardi di euro e che nel solo 2014 ha conosciuto l’esportazione di prodotti per un fatturato di circa 34,4 miliardi di euro; e soprattutto la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di piccole e medie “industrie” (e, cioè, il 99,8% del totale delle industrie italiane), e che costituisce il vero motore dell’intero sistema economico nazionale: tali imprese assorbono l’81,7% del totale dei lavoratori del nostro Paese, generano il 58,5% del valore delle esportazioni e contribuiscono al 70,8% del PIL. Il solo comparto manifatturiero, che conta circa 530.000 aziende, occupa circa 4,8 milioni di addetti, fattura 230 miliardi di euro l’anno, equivalente al 13% del PIL nazionale, e contribuisce al totale delle esportazioni del Made in Italy nella misura del 53,6%. Però gli italiani utilizzano sempre di più la macchina per spostarsi. Non è un controsenso? Ciò che si estrae in Italia non è necessariamente destinato alla produzione del carburante per le autovetture ed ancor meno per quelle in circolazione nel nostro Paese. Ad ogni modo, gli italiani si trovano spesso costretti ad utilizzare l’auto di proprietà. A fronte di un sistema di trasporti pubblici gravemente lacunoso non hanno praticamente scelta. In alcuni Paesi del Nord Europa l’utilizzo dell’auto privata è spesso avvertito come un “peso” e ritenuto economicamente non vantaggioso. Le cose andrebbero diversamente se si perseguisse una seria politica dei trasporti pubblici. Secondo l’Unione europea, rispetto agli altri Stati membri, l’Italia è al riguardo agli ultimi posti.

Cosa ci si attende? Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia a disposizione dei cittadini italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 185 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo. È necessario, nel frattempo, affrontare il problema della transizione energetica, puntando anche sul risparmio e sull’efficienza energetica e investendo da subito nel settore delle energie rinnovabili, che potrà generare progressivamente migliaia di nuovi posti di lavoro. Il tempo delle fonti fossili è scaduto: è ora di aprire ad un modello economico alternativo. Perché questo referendum? Per tutelare i mari italiani, anzitutto. Il mare ricopre il 71% della superficie del Pianeta e svolge un ruolo fondamentale per la vita dell’uomo sulla terra. Con la sua enorme moltitudine di esseri viventi vegetali e animali – dal fitoplancton alle grandi balene – produce, se in buona salute, il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe fino ad 1/3 delle emissioni di anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche. La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare: la ricerca del gas e del petrolio attraverso la tecnica dell’airgun incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica può elevare il livello di stress dei mammiferi marini, può modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario. Ricerca e trivellazioni offshore costituiscono un rischio anche per la pesca. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo. Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.




Salviamo il mare nostrum e anche quello degli altri: i No Triv a Bari

E’ trascorso quasi un anno da quando sette capodogli si sono arenati  sulla spiaggia di Vasto, nella riserva di Punta Penna. Tre non ce l’hanno fatta mentre gli altri quattro sono riusciti via via a riguadagnare il largo con l’aiuto di diversi volontari, in azione con il sostegno del personale della Capitaneria di Porto e della protezione civile di Vasto.

I cetacei erano stati seguiti per qualche giorno nell’Adriatico dopo essere stati avvistati per la prima volta in Croazia.

E’ stato uno  dei disastri ambientali più pesanti della regione.  Non è difficile capire come siano giunti i capodogli fino a Vasto   scegliendo di andare a morire in una delle più belle spiagge d’Italia all’interno della riserva di Punta Aderci.

Dopo che i primi due capodogli sono stati aiutati a tornare in mare, al terzo che ha riguadagnato l’acqua alta è scattato un lungo applauso di centinaia di persone che hanno affollando la spiaggia. Sulla collina che domina la spiaggia all’interno della riserva di Punta Aderci in migliaia hanno “fatto il tifo” per i volontari che dalle 8 della mattina sono stati impegnati per consentire ai cetacei di riprendere il largo.

Tutti e sette erano di sesso maschile e facevano parte di un branco che era stato avvistato qualche giorno prima a largo dell’isola Vis, in Croazia. A dare manforte agli uomini della Capitaneria di Porto, della Protezione Civile di Vasto e di tanti volontari, sono giunti da Riccione anche i soci della Fondazione “Cetacea”.

Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti informato dello spiaggiamento dei sette capodogli è stato in costante contatto con il Reparto Marino Ambientale della Guardia Costiera, che ha coordinando le operazioni per cercare di salvare i cetacei.  E’ intervenuta anche l’Unità Speciale dell’Università di Padova diretta dal professor Mazzariol, che opera in convenzione con il Ministero dell’Ambiente proprio per i casi di spiaggiamento dei cetacei. Erano state inoltre allertate la “Banca Tessuti per Mammiferi”, diretta dal professor Cozzi dell’Università di Padova, la direzione generale per la sanità animale del Ministero della Salute e gli “Istituti Zooprofilattici Sperimentali”, coordinati dalla dottoressa Casalone.
Esperto, attività estrattive tra possibili cause.

“È un vero e proprio grido d’allarme, gravissimo in un bacino chiuso e di piccole dimensioni, che dovrebbe indurci a rivedere profondamente il nostro atteggiamento nei confronti del mare Adriatico”. Questo fu il primo commento del Wwf, secondo il delegato regionale per l’Abruzzo Luciano Di Tizio, dopo lo spiaggiamento di sette capodogli a Punta Aderci, a Vasto. “Il nostro pensiero, anche se è chiaramente da confermare, – sottolinea Fabrizia Arduini, referente energia per il Wwf Abruzzo – va all’intensa attività di ricerca geosismica attraverso l’air-gun da parte delle compagnie petrolifere, attualmente utilizzato soprattutto sulle coste dell’altra sponda dell’Adriatico.

L’air-gun è una pratica che per l’intensità di suono prodotto nel sottofondo marino diviene micidiale per i cetacei e non solo, come dimostra una ampia letteratura a riguardo”. Il Wwf spiega che “anche i sonar militari, in particolare quelli a bassa frequenza, hanno conseguenze devastanti per il mare e sono causa diretta di spiaggiamenti di massa e di emorragie per la risalita eccessivamente rapida degli animali spaventati da suoni mai sentiti in mare”. Le ricerche petrolifere, al di là del micidiale air-gun provocano danni anche con altre attività nel sito della not attivista ambientalista Maria Rita D’Orsogna, ad esempio, si legge che nel 2008 circa 100 balene si spiaggiarono e morirono lungo le coste del Madagascar in conseguenza, come venne acclarato da uno studio indipendente, di stimolazioni acustiche connesse appunto alla ricerca di giacimenti nel fondo marino. Basta progetti inerenti gli idrocarburi in mare Adriatico, basta fiumi che riversano quotidianamente veleni: facciamo appello alle forze politiche e a tutte le Regioni che si affacciano su questo mare perché si attivino immediatamente per avviare la tutela, concretamente e non a chiacchiere, di un fragilissimo ecosistema, fonte di vita di moltissime specie viventi compresa la nostra.

Nonostante le tante proteste, il governo Renzi, subito dopo le scorse elezioni regionali, ha deciso di dare il via libera alle ricerche di idrocarburi anche in Puglia. Dei 16 permessi di ricerca e prospezione rilasciati, ben 11 riguardano proprio le nostre coste.

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Le multinazionali del petrolio potranno così devastare i nostri mari, prima attraverso l’invasiva tecnica di ricerca denominata air-gun, successivamente attraverso l’estrazione del petrolio.

È inutile sottolineare il tremendo impatto che tale scellerata scelta avrà sulla bellezza dei nostri territori, sulla salute delle popolazioni, sull’economia e sul turismo locali.

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Qualche giorno fa un gruppo di attivisti di Greenpeace ha protestato pacificamente davanti alla piattaforma petrolifera offshore Sarago Mare A, posizionata a soli tre chilometri dalla costa di Civitanova Marche. Gli attivisti hanno steso a pelo d’acqua, proprio sotto la struttura gestita dalla Edison un grande striscione galleggiante con la scritta “STOP TRIVELLE”. Poi si sono finti turisti di un possibile futuro prossimo, in cui le vacanze balneari potrebbero svolgersi all’ombra delle piattaforme petrolifere. La protesta di Greenpeace fa parte della campagna TrivAdvisor (trivadvisor.greenpeace.it): in poche settimane, più di 43 mila persone hanno già firmato la petizione di Greenpeace per chiedere una radicale revisione della strategia energetica basata sull’estrazione di petrolio e gas dai fondali marini. Accordo all’unanimità tra le sei regioni Adriatiche di centro e meridione riunite a Termoli per ribadire il ‘no’ alle trivellazioni in mare. Dopo un’ora e mezzo di confronto governatori e assessori presenti (Abruzzo, Molise, Puglia, Marche, Basilicata e Calabria) hanno confermato la “contrarietà unanime” alle trivellazioni. Il 29 luglio ci sarà un primo incontro con il governo a Palazzo Chigi. Il Coordinamento delle regioni coinvolte si riunirà dopo il 18 settembre a Bari.

Il 28 luglio in piazza Eroi del mare, a Bari (Puglia), si terrà un’assemblea pubblica No triv per un confronto sulla situazione attuale e sulle proposte da mettere in campo per reagire al piano che vogliono propinarci come piano di sviluppo economico. Le trivellazioni rientrano, invece, in un preciso piano di devastazione del nostro territorio. Il profitto di pochi, come sempre, a danno di molti.




ITALIA – Il no dei centri sociali a Ombrina, “per un Abruzzo verde e senza trivelle”

“Dopo il parere positivo della commissione ministeriale Via, pensiamo sia necessario attivare tutti i cittadini e tutte le cittadine, le reti sociali e associative, il mondo imprenditoriale agricolo e turistico, gli enti locali, per costruire una mobilitazione efficace che sia in grado di fermare il progetto Ombrina Mare. Inutile ripetere, ancora una volta, quanto devastante sia per il nostro territorio, in termini ambientali ed economici, la petrolizzazione del nostro mare.

E’ arrivato il momento di esprimere in modo netto e risolutivo la nostra contrarietà a qualsiasi idea di sviluppo della nostra regione legata allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. La terra e il mare sono patrimonio di tutti i cittadini e le cittadine abruzzesi e in quanto tali dovrebbero essere vincolati ad una idea di sviluppo economico sostenibile che valorizzi la nostra cultura attraverso il turismo e l’agricoltura. Non abbiamo bisogno di cedere le nostre bellezze naturali a qualsivoglia colosso finanziario ma, al contrario, vogliamo ribadire con forza la necessità di salvaguardare il territorio da tali minacce promuovendolo e incentivando lo sviluppo della nostra economia e la distribuzione democratica della sua ricchezza.

Nessun distretto minerario regionale può oggi risollevare le sorti della nostra regione. Nelle scorse settimane abbiamo visto quanto il dramma dei cambiamenti climatici stia mettendo a rischio la vita delle comunità locali e le vie di comunicazione necessarie per la nostra economia. Le grandi infrastrutture energetiche, che stanno modificando il paesaggio e la geografia del nostro fragile territorio e mettendo a rischio la salute e le attività economiche di migliaia di persone, disegnano un triste futuro. I giovani della nostra regione sono costretti ogni anno ad emigrare, i nostri paesi si svuotano, le campagne sono lasciate all’ abbandono e all’incuria. I mestieri che hanno sempre caratterizzato la nostra economia rischiano di scomparire insieme alla nostra cultura e identità. Non è con queste opere, i cui benefici verranno raccolti da pochi manager, che possiamo pensare al rilancio del nostro territorio. La difesa dell’ambiente, la valorizzazione turistica e culturale del territorio, le imprese legate ad un’economia verde, la filiera dell’agroalimentare possono essere volani su cui costruire posti di lavoro, sui cui permettere al nostro territorio di rilanciarsi e di concentrare competenze ed entusiasmo.

In poche parole lo sviluppo ecologicamente sostenibile del nostro territorio può permettere a migliaia di giovani di restare o tornare in Abruzzo. Non possiamo permettere che questa opportunità ci venga tolta da multinazionali che trivellano oggi il nostro mare per poi andarsene quando non sarà più economicamente vantaggioso. Se perdiamo questa battaglia al nostro territorio saranno definitivamente sbarrate le porte del rilancio economico. Per sempre.

Quello di cui abbiamo realmente bisogno sono le risorse per mettere in sicurezza il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, fuori dai vincoli di bilancio dell’Europa e dal patto di stabilità degli enti locali. Non abbiamo sicuramente l’ambizione di diventare una colonia economica nelle mani di gente senza scrupoli e senza rispetto per la nostra terra e il nostro mare. I cittadini abruzzesi hanno già scelto molti anni fa. Non vogliamo Ombrina, ma il Parco della costa Teatina. Questo basta per esprimere sinteticamente l’idea dei cittadini abruzzesi su quale debba essere il modello di sviluppo regionale da adottare.

Invitiamo tutti e tutte a confrontarci in un’assemblea pubblica il 29 marzo alle ore 17,30 a Zona22”.