La famiglia del III millennio, tre millenni di famiglie

Il 1 e il 2 marzo il laboratorio di grammatica e sessismo ha dato vita ad un seminario formativo interdisciplinare dal titolo: La famiglia nel III millennio, tre millenni di famiglie. Si tratta della seconda edizione di un seminario che si era svolto, sempre presso l’Università di Roma Tor Vergata, un anno fa. L’evento è stato ideato e pensato in primis per le scuole, docenti e insegnanti, ma intendeva costituire un momento di riflessione rivolto alla società tutta.

L’approccio è stato, come il laboratorio cerca sempre di fare, un approccio interdisciplinare. La scelta del tema, quello della famiglia e delle famiglie, un’ottima occasione per discutere, sulla base di dati e di esperienze empiriche, di un “contenitore” che condiziona la società e la vita delle singole persone.

L’apertura dell’evento è stata affidata a P.G. Medaglia per i saluti istituzionali. Medaglia è docente presso la facoltà di ingegneria e delegato del Rettore per l’inclusione degli studenti con disabilità e DSA (UniRoma2). Partendo proprio dal concetto di inclusione, ha voluto sottolineare l’importanza della famiglia come istituzione prima in cui si realizzano e prendono forma valori quali l’accoglienza, la pazienza, l’ascolto, la cura e la custodia.

 

In seguito, il direttore del dipartimento di Lettere e filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, E. Paoli, attraverso studi sull’antichità e sull’esegesi, ha posto la propria attenzione sull’evoluzione alla quale è andata incontro la sacra famiglia, da intendersi come modello dapprima impossibile, poi eversivo, e infine esemplare. Il modello originario presentato è stato quello di una famiglia cristiana “zoppa”, ovvero priva della figura paterna. Non era un caso che la castità fosse l’eccellenza, alla quale ogni buon cristiano e ogni buona cristiana doveva ambire. Col passare dei secoli o, per meglio dire, dei millenni il modello familiare ha però subito notevoli mutamenti. Nel ‘600, e ancor più nell’800 Giuseppe è divenuto una figura centrale e, con lui, ogni padre. Si è così giunti al modello di famiglia esemplare, costituito da padre, madre e figlio, ancora attuale pilatro della società cristiana.

  1. Meli, ricercatrice dell’Istat, ha invece apportato il suo contributo a partire da ricerche quantitative che ridisegnano e riscrivono la realtà familiare italiana, attraverso dati, percentuali e grafici. Dai dati presentati al seminario si evince che, nel nostro paese, ci si sposa sempre più tardi e si divorzia con maggiore frequenza. Inoltre, in aumento sarebbe anche la percentuale di secondi matrimoni. Le nascite sono invece in diminuzione, anche in relazione a un cambiamento del ruolo della donna, infatti ¼ di donne fertili sceglie volontariamente di non procreare. Le famiglie vanno incontro a una progressiva semplificazione e cristallizzazione, poiché costituite da pochi/poche figli/e che abbandonano il nucleo originario sempre più tardi. L’intervento si è poi concluso evidenziando non poche criticità riguardo i limiti dei parametri utilizzati, i quali non sempre riescono a individuare e a prendere in considerazione/analisi ogni tipo di nucleo familiare.

 

Di taglio sociologico il contributo di A. Volterrani, docente di Sociologia presso L’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Partendo da dati anagrafici, e in particolare dallo studio dello stato di famiglia, lo studioso ha evidenziato l’esistenza di almeno diciassette tipi di famiglie diverse. Pertanto, la nostra penisola risulta essere ben lontana dal modello stereotipato di “famiglia tradizionale”, che ricopre solo il 50% dell’attuale panorama familiare italiano. Insomma, tante famiglie, costitutivamente diverse, eppure simili in quanto egualmente fonte di opportunità e problemi.

 

La famiglia è fortemente rappresentata anche nei media, e nei social, così come nella pubblicità, analizzata in modo interculturale da due classi del liceo paritario San Paolo di Roma che, come momento di sintesi e a parziale conclusione di un progetto di alternanza scuola lavoro incentrato sulla comunicazione consapevole, hanno elaborato un filmato che metteva in evidenza come la famiglia, le famiglie, sono state rappresentate, ieri e oggi, dal marchio Coca Cola, a seconda del paese in cui è stato proiettato lo spot pubblicitario.

Lo stesso argomento, seppur con tagli diversi, è stato preso in esame anche da S. Melchiorre (ricercatrice presso L’università degli Studi della Tuscia), L. Bagini (docente presso l’Università degli Studi di Poitiers) ed L. Selvarolo (laureata in comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata). La prima ha introdotto la propria analisi partendo dall’identità individuale, ormai fluida nell’epoca dei media, per poi passare a un’analisi dell’identità familiare. Identità che si costruiscono e riscostruiscono senza sosta e che vengono inevitabilmente condizionate e guidate dai (social)media. Biagini e Selvarolo hanno invece offerto il loro contributo analizzando il mondo pubblicitario di ieri e di oggi, fornendoci così una panoramica chiara e continuativa della rappresentazione familiare all’interno del mondo pubblicitario. Bagini si è concentrata sui caroselli, ovvero le originarie rappresentazioni di quelli che oggi definiamo spot, Selvarolo invece ha focalizzato la propria ricerca attorno ai recenti spot pubblicitari di tre grandi marchi, ovvero Findus, Barilla e Kinder.

In entrambi i casi le conclusioni alle quali sono giunte sono pressoché simili. La famiglia proposta è quella “tradizionale”, e le figure rappresentate (di padre, madre e figli/e) sono fortemente stereotipate.

La famiglia è stata considerata anche dal punto di vista medico, della cura, con il racconto di M. Macchiaiolo, specializzata in malattie rare e croniche. In contesti così delicati, le famiglie svolgono un ruolo centrale, poiché accompagnano il/la figlio/a malato/a nel loro cammino, di guarigione o di cura, ma, a loro volta, devono essere supportate e sostenute. Accettare che il proprio figlio, o la propria figlia, sia affetto/a da una malattia rara significa accettare la morte della rappresentazione mentale di un figlio, o di una figlia, idealizzato/a per mesi, se non per anni, e iniziare a ricostruire un nuovo percorso di vita, in cui il/la medico/a diventa il primo punto di riferimento, clinico, morale e psicologico.

Quest’ultimo ambito è stato analizzato in particolar modo dalla psicologa Anna Maria Di Santo. Con i cambiamenti avvenuti nella società contemporanea, i figli e le figlie appartengono non più ad una famiglia, ma sempre più a gruppi familiari a plurale. Famiglie ricomposte, famiglie allargate, famiglie allungate, che rideterminano i ruoli e le relazioni fra le persone coinvolte. In ogni caso, si fa sempre riferimento a un luogo in cui si deve instaurare un clima di serenità, capace di garantire un equilibrato sviluppo psico-fisico dei bambini e delle bambine che ne fanno parte.

Famiglie, però, sono anche quelle che adottano a livello internazionale. Questo argomento è stato trattato dalla psicologa M. Azzacconi, la quale ha messo il rilievo, da una parte, le difficoltà delle famiglie, nel riuscire a ottenere un/una figlio/a in adozione, e dall’altra, i vantaggi e le difficoltà dell’inserimento nella nuova vita da parte di minori adottati/e.

Il seminario ha dato spazio anche ad altri ambiti. Uno fra i tanti è stato quello antropologico, rappresentato dal P. Vereni. Quest’ultimo ha demolito il concetto di famiglia naturale, sotto un duplice aspetto. In un primo momento ha dimostrato che ogni costituzione familiare si basa sull’unione tra due individui che non possiedono legami naturali, ovvero di sangue. A sancirne l’unione è soltanto un contratto, prodotto artificiale ben lontano dal concetto di natura. In un secondo tempo si è poi concentrato sul concetto di famiglia socialmente valido e naturalmente condiviso. Creando quindi dei parallelismi tra la cultura italiana e quelle appartenenti ad altri popoli, ha dimostrato quanto ogni concetto di normalità familiare, di spontanea accettazione, sia legato alla propria visione del mondo, alla propria cultura, e nulla abbia a che fare davvero con la natura umana.

Lo stesso concetto di famiglia e famiglia, congiunto ai due ambiti del naturale e dell’artificiale (quindi del contratto di matrimonio), è stato analizzato anche dalla linguista S. Cavagnoli, docente presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. L’analisi compiuta dalla studiosa verteva sul diritto di famiglia e, in particola modo, sulla lingua che il diritto di famiglia utilizza per rappresentare l’attuale panorama italiano.

Il seminario ha inoltre ospitato anche R. Oliva De Concilis, dell’associazione “Rete per la parità” e B. Belotti, dell’associazione di “Toponomastica femminile”.

La prima, compiendo degli studi che ruotano attorno all’anagrafe, ha dimostrato quanto, negli anni scorsi, le donne abbiano dovuto lottare per eliminare la procedura del cognome coatto (ovviamente in riferimento al cognome del marito). Oggi tanti passi avanti sono stati compiuti, soprattutto in relazione ai/alle figli/e vittime di femminicidio. Per loro è stata messa in atto una procedura semplificata, in relazione all’abbandono del cognome paterno e all’acquisizione di quello materno. Nonostante ciò, tanto c’è ancora da fare all’interno di un mondo, quello dei cognomi, ancora capace di svelarci innumerevoli relazioni di potere familiare.

  1. Belotti ha utilizzato lo stesso punto di partenza, quello dei cognomi, unendo però quest’ambito a quello della toponomastica. Le analisi e gli studi compiuti da Belotti dimostrano che, nei secoli, smisurate donne, madri, mogli, figlie e sorelle, non sono state tenute in considerazione nell’intitolazione delle strade delle nostre città. Strade che ci raccontano il nostro passato, un passato dal quale le donne sono state cancellate, non soltanto perché a loro è stato riservato poco spazio nella toponomastica rispetto a quello maschile, ma anche perché, se presenti, le donne sono state completamente oscurate da cognomi maschili, capaci di inglobarle in sé fino a farle cadere nell’oblio.

La rappresentazione della famiglia è stata completata dalla presentazione di analisi di libri di testo per la scuola primaria e per l’apprendimento della lingua italiana per non italofoni, e dal racconto di una scrittrice insegnante, che si è confrontata con il tema della famiglia a scuola.

I libri di testo, destinati alla scuola primaria, sono stati presi in esame da A. Cassarino, laureata magistrale presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata. La ricerca diacronica ha dimostrato che, ieri come oggi, il libro di testo contribuisce alla costruzione dell’immaginario comune attraverso la rappresentazione di un unico modello familiare, quello nucleare, in cui i ruoli ricoperti risultano ancora fortemente stereotipati.

  1. Nardi e C. Coccia, in qualità rispettivamente di responsabile del CLICI (Centro di Lingua e Cultura Italiana) e di dottoranda presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, hanno invece analizzato i testi destinati a individui di cultura non italiana, sottolineando la centralità della famiglia, calata nei diversi contesti culturali, come punto di partenza e come indispensabile veicolo per un’efficiente pratica dell’insegnamento/apprendimento.
  2. Dai Prà, insegnante e scrittrice, ha infine voluto evidenziare il profondo legame che unisce scuola e famiglie. A volte però, l’incuranza e la scarsa informazione possono risultare fuorvianti per uno sviluppo ottimale degli/delle studenti/studentesse in piena fase di formazione. Dai Prà ha pertanto messo in luce la pericolosa diffusione nelle scuole dell’infondata teoria gender, priva di qualsiasi fondamento scientifico eppure fortemente viva all’interno del mondo scolastico.

Il seminario, organizzato con un interesse linguistico di fondo dalle docenti F. Dragotto e S. Cavagnoli (linguiste presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata), si è chiuso con una riflessione di F. Dragotto sulla definizione di famiglia dal punto di vista della sua etimologia, che emerge anche dalle pieghe delle diverse proposte di lettura offerte da questo incontro interdisciplinare che, tra chi presente, ha fatto registrare una insolita partecipazione alla discussione. Indicativa di quanto ci sia ancora da dire su questo tema di cui si parla con scarsa consapevolezza




ITALIA – Giorgiana Masi,vittima della violenza del regime.Roma, ponte Garibaldi, 12/5/1977

Di Andrea Zennaro

Non sorride ma il suo sguardo punta lontano, verso un futuro che non vedrà. Pur non essendo particolarmente bella, i suoi capelli lisci scuri le danno grazia. Con questa espressione si presenta la fanciulla, nell’unica fotografia nota con cui conosciamo il suo volto.

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È il pomeriggio del 12 maggio1977 quando una ragazza di diciannove anni cade a terra nei pressi di ponte Garibaldi a Roma. Tutti i soccorsi sono inutili. In un primo momento le cause del suo rapido decesso restano incerte, solo più tardi verrà notato il foro di un proiettile entrato nella sua schiena e fuoriuscito dall’addome. Nel frattempo i giovani intorno a lei continuano a correre senza meta, inseguiti, manganelli alla mano, dallo Stato, che colpisce anche dall’alto con una fitta pioggia di candelotti lacrimogeni. Giorgina Masi, meglio nota come Giorgiana, era uscita di casa quella mattina dicendo di star andando a una festa, anche se gli eventi di quella giornata erano alquanto prevedibili.

In piazza Navona si parla di femminismo e autodeterminazione, di aborto e divorzio, di parità sociale e libertà di scelta. L’iniziativa è stata indetta dal Partito Radicale per sfidare l’ordinanza imposta alla città dal sindaco Giulio Carlo Argan che vieta qualsiasi manifestazione pubblica in seguito agli scontri avvenuti il 12 marzo tra la polizia e il movimento, in particolare l’area dell’Autonomia, davanti alla sede centrale della Democrazia Cristiana.

Lo stesso Ministro dell’Interno Francesco Cossiga definisce il divieto illegale ed extra legem in quanto estrapolato non da una legge della Repubblica Italiana ma dal codice penale fascista, non riconosciuto dalla Costituzione del 1948. Quel 12 maggio un cartello, ironico ma neanche tanto, chiede ai militari schierati intorno alla piazza di non sparare sul pianista: tale è infatti l’aria che si respira nelle iniziative politiche da quando lo Stato ha inaugurato quella che è nota come “strategia della tensione”.

Commentare l’uccisione di una manifestante con le solite frasi – che in questi casi non mancano mai – del tipo “se l’è cercata” o “poteva starsene a casa o prestare più attenzione” non solo sarebbe semplicistico ed estremamente riduttivo, ma mancherebbe di rispetto a tutte le persone uccise da un regime contro il quale lottavano. Allo stesso modo non basta limitarsi a constatare quanto criminale sia stato l’operato delle cosiddette forze dell’ordine durante quella giornata: è necessario attribuire le responsabilità in modo corretto e soprattutto approfondire il contesto storico in cui l’assassinio è maturato.

Nessuna persona in buona fede ha mai sostenuto che si sia trattato di un incidente.

Negli anni ’70 la società italiana è in fermento. I sindacati riconoscono e tutelano soltanto chi ha un contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le nuove forme di lavoro sempre più frequenti. Le precarie e i precari, i disoccupati e le disoccupate, di conseguenza, non credono più nelle istituzioni in cui invece avevano creduto le generazioni precedenti.

L’estensione della scuola dell’obbligo e l’apertura dell’università a chiunque, indipendentemente dalla scuola superiore frequentata, fanno sì che l’università, prima riservata a un’élite, diventi di massa, esasperando l’agitazione studentesca: gli atenei non raccolgono più i figli della ricca e media borghesia ma l’intera società giovanile con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, diventando così il luogo di concentramento di disagi ben più grandi. Inoltre, le facoltà si ritrovano a essere, di fatto, anche sede di preparazione al lavoro salariato e precario, sfruttato ed estraneo alla rappresentanza sindacale. E per le istituzioni chi non è rappresentato costituisce un problema non politico o sociale ma solo di ordine pubblico. Diversamente dal Sessantotto, non sono intellettuali e studenti privilegiati a criticare la società, ad assaltare i centri della cultura, ma la parte più disagiata e meno riconosciuta della società, tagliata fuori dalla società stessa: la fantasia del decennio precedente lascia spazio a frustrazione e rabbia.

L’altro fattore di novità consiste nel fatto che le prime agitazioni studentesche scoppiano al Sud. Quando la riforma Malfatti diminuisce la possibilità di ripetere gli appelli d’esame e pone forti restrizioni al diritto degli studenti di scegliere liberamente quali corsi inserire nel piano di studi, le università già in fermento esplodono. La circolare Malfatti non è stata la causa determinante delle lotte ma solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scintilla su una polveriera già da tempo pronta ad incendiarsi.

Giorgiana vede un’Italia in fermento in cui i diritti individuali aumentano.

Nel 1974 un referendum sancisce il diritto al divorzio, nonostante la forte contrarietà della Chiesa e della DC. Pochi anni dopo venne il diritto all’aborto: la maternità deve essere una scelta consapevole e non un obbligo. Per il movimento femminista e per le donne in generale è una vittoria mai vista, inimmaginabile fino a poco prima.

È bene ricordare che il movimento del ‘77 è ostile non solo al governo democristiano ma anche e soprattutto al principale “partito non di maggioranza” (sarebbe fuori luogo definirlo partito di opposizione). Nel 1972 alla segreteria del PCI viene eletto Enrico Berlinguer, con cui il Partito cambia totalmente volto. In uno dei suoi primi discorsi da segretario, Berlinguer dichiara che la spinta propulsiva data dalla Rivoluzione del lontano ottobre 1917 è ormai finita e che c’è bisogno dunque di un’energia nuova. Il PCI, filosovietico ma non antagonista al sistema liberale, apre le trattative con il governo: il comunismo è messo in soffitta sostituito da una blanda socialdemocrazia. La CGIL, sindacato fedele al PCI, preme per calmare le spinte rivoluzionarie ancora presenti nelle fabbriche e nelle università, smettendo di fatto di guidarne le lotte.

In generale si potrebbe dire che la forma Partito, nata in Italia all’inizio degli anni ’20, egemone durante la Resistenza e ancora funzionante negli anni ’50, dopo il Sessantotto abbia smesso di funzionare e negli anni ’70 si sia ritrovata a essere come una scarpa troppo stretta rispetto ai piedi cresciuti di una società che si evolve rapidamente.

Abbandonati gli ideali rivoluzionari che avevano prima dato vita al PCI subito dopo il biennio rosso e poi animato gran parte della Resistenza contro il Nazifascismo, non riuscendo a ottenere alcuna maggioranza parlamentare per via elettorale pur crescendo nei sondaggi, il partito di Berlinguer cambia strategia cercando di avvicinarsi a posizioni di governo tramite accordi interpartitici. Il cosiddetto compromesso storico, noto anche come “governo della non-sfiducia” o “delle astensioni”, consiste in un governo “monocolore” (cioè monopartito) della DC reso possibile grazie all’astensione del PCI alla Camera, che non vota contro la fiducia al governo Andreotti per garantirsi un maggior peso istituzionale.

È chiaro che nel 1977 il PCI sia ormai un partito filogovernativo e quasi conservatore, ma in quanto forza egemone della sinistra, non può tollerare di essere deriso e non rispettato proprio da sinistra. Il PCI, scavalcato da questo nuovo movimento incontrollabile che non riesce a imbrigliare, non manca mai occasione di ripetere che chi occupa le università (e l’Autonomia in particolare) è estraneo alla legalità e quindi alla democrazia e che i raduni di giovani militanti sono solo covi di violenza, delinquenza comune e addirittura squadrismo quasi fascista.

La sfiducia di studenti e futuri precari versi il partito e il sindacato in cui le persone più anziane avevano creduto finisce per dar vita a un conflitto senza precedenti in cui la generazione protagonista della Resistenza si sente tradita da quella successiva che a sua volta si vede tagliata fuori da istituzioni obsolete.

Non c’è da stupirsi, quindi, che il Partito accusi pesantemente chi non crede nella legalità dello Stato repubblicano, né tanto meno che ragazzi e ragazze abbandonino le sezioni di partito per cercare rifugio altrove.

Del resto, gli artefici della guerriglia partigiana, cresciuti sotto il regime ed educati dalla scuola gentiliana a non disdegnare le figure autoritarie, vedevano molto più di buon occhio il rigore del Partito che la stravagante libertà del movimento. E il principale cavallo di battaglia della retorica vicina al PCI è sempre stato il mito dell’epopea partigiana. Quando a Bologna i carabinieri uccidono Francesco Lorusso, venticinquenne militante di Lotta Continua, il PCI indice un presidio sotto il monumento ai caduti della Resistenza per celebrare non un ragazzo ucciso, ma la legalità dello Stato; quando gli studenti occupano l’università di Roma, è proprio il segretario della CGIL, legata al PCI, a dar vita alla provocazione che conduce allo sgombero dell’università, ammettendo egli stesso che il fine di tale operazione è quello di riportare l’ordine e mettere fine alle agitazioni per “ripristinare la vita democratica e legalitaria all’interno dell’Ateneo”; quando gli studenti reagiscono alla provocazione e lo cacciano, i mezzi d’informazione legati al Partito sottolineano con insistenza che Luciano Lama è stato partigiano; quando viene uccisa Giorgiana Masi, il PCI si limita a tacere, continuando a votare la “non-sfiducia” al governo. L’apice di questo scontro avviene a Bologna in quanto storico baluardo del PCI e al tempo stesso città universitaria, quindi teatro della più grande incompatibilità sociale e generazionale.

Dopo aver lasciato a terra una ragazza, i manifestanti continuano la fuga disperata e le truppe proseguono il loro feroce inseguimento. Smarrito nella confusione e accecato dai gas lacrimogeni, un fotografo trentacinquenne vaga per il centro di Roma con la sua Leica sempre al collo. È uno dei pochi che ha mostrato ciò che nessuno ha voluto vedere, regalando alla Storia testimonianze fondamentali e di rara bellezza.

La sera stessa il Ministro dell’Interno dichiara di non aver mandato nessun agente in borghese nel corteo. Dichiara inoltre che non sono state usate armi da fuoco per l’attività di ordine pubblico. Dunque Giorgiana Masi risulta uccisa da una pallottola vagante sparata dai manifestanti in direzione delle forze dell’ordine. E questi, sicuramente autonomi ed evidentemente distratti, non hanno notato che in mezzo tra loro e il bersaglio vi erano altri manifestanti in corsa, tra cui la ragazza colpita.

È la versione ufficiale del Ministero.

Servirebbe poi un esperto di fisica fantascientifica per spiegare come mai una pallottola sparata da davanti l’abbia colpita alla schiena.

Un’immagine mai pubblicata dai quotidiani mostra un uomo in borghese con una pistola in mano mentre riceve istruzioni da un superiore e alle spalle ha un gruppo di uomini armati e in divisa difficilmente riconducibili all’Autonomia.

(foto 2)

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Così un fotografo ha palesemente smentito un ministro. La sua stessa Leica ha testimoniato la frettolosa violenza degli uomini in divisa: è un’immagine molto potente che richiama il mondo classico: gli uomini armati sullo sfondo fanno capire di cosa si parla, mentre lo sguardo disperato e intenso delle ragazze in primo piano mostra la tragicità della scena.

(foto 3)

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Accostare la bellezza e la pena, la grazia e la brutalità, è uno strumento efficace e fastidioso, di certo non gradito dal signor Ministro.

Un’altra immagine dello stesso autore mostra la determinazione delle donne che sotto una pioggia battente porgono l’ultimo saluto alla loro sorella “uccisa dalla violenza del regime”, come recita la targa in memoria di Giorgiana Masi presso ponte Garibaldi.

(foto 4)

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Le foto di Tano D’Amico sono importanti per rileggere gli ultimi decenni in quanto mostrano la bellezza, la grazia, la poesia dei volti e delle istanze di chi non dovrebbe averne, di chi l’Unità avrebbe preferito descrivere come teppista scalmanato attraverso immagini brutte e prive di significato. Quelle immagini sono sempre state tenute nascoste perché non si pensasse che le invadenti femministe avessero qualche ragione, che i cattivissimi autonomi si scontrassero con un Partito in cui era vietato avere dubbi, che gli stravaganti indiani metropolitani non facessero poi così schifo. Sono foto, quelle di Tano D’Amico, che non hanno bisogno di didascalie, che colpiscono e restano nell’eternità, diversamente da quelle dei giornali, che vivono un giorno solo per poi scomparire nel nulla senza lasciare segni nella memoria, fagocitate dall’oblio collettivo.

Nel 2001 un enorme movimento internazionale viene schiacciato dalla repressione.

A Genova i carabinieri uccidono un ragazzo di ventitré anni: prima uno sparo in faccia, poi una jeep dell’arma lo schiaccia due volte ancora vivo, e infine il colpo di grazia è un sasso che gli spacca la fronte per mano di un uomo in divisa. Ci vuole una buona dose di coraggio e immaginazione per sostenere che si sia trattato di un incidente. Il commento del Premier è “poteva restarsene a casa”; invece i galantuomini delle istituzioni osano molto di più, e non sorprende che a farlo per primo sia il vicepremier fascista, presente nella caserma in cui venivano torturati i manifestanti fermati: è legittima difesa spaccare la fronte a un ragazzo agonizzante a terra ed è legittima difesa schiacciarlo due volte con un defender, sparare in faccia con armi fuori ordinanza, figuriamoci, è degno di una medaglia, parole sue.

Nel 2001 Francesco Cossiga è senatore a vita ed è proprio lui a intervenire non interpellato quando una parte delle opposizioni presenta una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno dopo i tragici fatti di Genova; la cosa particolare è che Cossiga in aula non difende né il Ministro dell’Interno né il Premier né il Vicepremier ma se stesso: con un intervento furioso trova inammissibile la mozione di sfiducia in questione e rivendica la brutalità con la quale ordinò di agire nel 1977. A decenni di distanza, l’assassinio di Giorgiana Masi è motivo di vanto per il suo principale responsabile.

Oggi, a quarant’anni dal suo assassinio, una piccola strada intitolata a Giorgiana Masi è presente a Bassano in Teverina (VT) e in villa Pamphili a Roma (foto 5), dove la ragazza è ricordata insieme a varie antifasciste e donne eroiche della Repubblica Romana.

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Checché ne dica l’ex Presidente della Repubblica, ministro degli Interni ai tempi della sua e di altre uccisioni di Stato, la targa su ponte Garibaldi riconosce Giorgina Masi come “vittima della violenza del regime” (foto 6).

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Epistolario finlandese: i bandi fantasma del Ministero degli Esteri

Per molti giovani italiani l’Odissea inizia prima di mettersi in viaggio.  Ritrovarsi a vagare nei meandri della Pubblica amministrazione per accedere a un bando europeo per la mobilità non è un’impresa eccezionale e non bisogna nemmeno chiamarsi Ulisse per trascorrere un anno in balia degli uffici, alla ricerca di informazioni criptate come nella migliore caccia al tesoro.  Mi è capitato di provare il desiderio di conoscere le gloriose istituzioni scolastiche e universitarie finlandesi e di volerlo fare attraverso il Ministero degli Esteri, che sul proprio sito pubblica una serie di bandi per accedere a borse di studio. Sono  iniziate così le mie traversie.

“Nell’ambito del programma delle borse di studio del CIMO, Centro finlandese di mobilità internazionale (nda), sono cambiate le modalità secondo cui il pool delle borse di studio del Governo finlandese assegna le borse. A partire dall’anno accademico 2014-2015, i Paesi dell’Ue e See, Spazio economico europeo, i quali finora hanno fatto parte di questo programma, ne rimarranno fuori. Tuttavia, i cittadini dei predetti Paesi, quindi anche i cittadini italiani, avranno ancora la possibilità di ottenere borse di studio per studi post laurea in Finlandia attraverso il programma  CIMO fellowships. Occorre tenere presente, comunque, che le borse di studio del programma CIMO Fellowships potranno essere richieste soltanto da un rappresentante di un’università finlandese per conto di un candidato per la borsa di studio. Il candidato straniero non può presentare la domanda direttamente al CIMO.

I candidati non devono avere già trascorso più di un anno in una istituzione accademica finlandese nel periodo immediatamente precedente a quello di fruizione della borsa.

La documentazione richiesta dovrà essere inviata in duplice copia al CIMO, Po box 343, 00531 Helsinki”.

Gent.ma studentessa,

Non so se ha già risolto ma per vedere se tale bando a cui intende partecipare possa essere di una mia competenza o di un’altra struttura , si prega di inviare il bando.

Comunque in Ateneo esiste un ufficio Provvidenze agli Studenti che potrebbe essere l’ufficio giusto.

Cordialità

Lucia Cioce

Dott. Lucia Cioce
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
DARDRE
Responsabile Area Relazioni Internazionali
Tel. +39 080 5714834
Fax +39 080 5714463
E-mail lucia.cioce@uniba.it

Questo fitto scambio epistolare, accompagnato da telefonate, con le istituzioni italiane (Ambasciate e Università) e con quelle finlandesi ne è la prova. Lo consegno ai miei lettori e alla rete con un forte sentimento di disapprovazione e per una denuncia indignata. Anche se la corrispondenza si interrompe bruscamente, le lettere si commentano da sole. Vorrei che nessuno subisca ancora.

Dear Angela Alessandra,

thank you for your inquiry!
I wasn't sure after reading your message, but hopefully you're aware that
in order to apply for the scholarship, you should first establish contact with a
hosting Finnish university and apply for PhD/Doctoral studies – please refer to
www.studyinfinland.fi/doctoral for information and advice on this! So the Finnish
university is "the applicant", not yourself. But aynway, I advice you to
contact the CIMO Fellowship coordinator Ms Tarja Mäkelä
(tarja.makela@cimo.fi) or Ms Päivi Jokinen (paivi.jokinen@cimo.fi) as they
are able to answer programme-related questions better than we are here at Study in
Finland.

If necessary, you can easily find the above programme coordinators' telephone
numbers in our online directory at
http://puhelinluettelo.cimo.fi/puhlu/en/web/index.php

Kind regards,

Ms Maija Kettunen
Coordinator
CIMO | Information Services
www.studyinfinland.fi
www.facebook.com/studyinfinland

Dear Mrs. Tarja Makela,
I am Angela Alessandra Milella, applying for CIMO Fellowship Programme in
Finland. I have fulfilled my application form in all the required fields,
but my University, namely Università degli Studi di Bari, considers my
application unacceptable and therefore they do not want to approve it for
the following reasons:
1) Why does CIMO require the signature of the Università di Bari? What
does CIMO need this signature for?
2) What is the role of the Università di Bari and the related activities
the institution is going to take for CIMO?
3) What is the process for delivery? Do I need to send the application to
Finland myself without the approval of the Università di Bari and then
CIMO will send it back to Bari for the signature, or is the Università di
Bari in charge of sending the whole approved application to Finland?

Do I need a referee or a supervisor from my University, my Professor Furio
Semerari, to approve my application or act as support in the application
process?
Do you have a referee or an Office at CIMO or at the University in charge
of dealing with the subject? I contacted the Finnish Embassy in Rome for
further information and I was told that the application access must be
requested also from a Professor of the Università di Bari: is this
true?
I kindly ask you to clearify this, otherwise all my work on the project
will be lost and I will not be able to submit my application.

Kind regards,
Angela Alessandra Milella

I am on vacation and will read again my emails on 1 June. In urgent matters, please
contact Marjaana Kopperi (marjaana.kopperi@cimo.fi)
best regards,
Tarja Mäkelä

Dear Sirs,
I am Angela Alessandra Milella, applying for CIMO Fellowship Programme in
Finland. I have fulfilled my application form in all the required fields,
but my University, namely Università degli Studi di Bari, considers my
application unacceptable and therefore they do not want to approve it for
the following reasons;
1) Why does CIMO require the signature of the Università di Bari? What
does CIMO need this signature for?
2) What is the role of the Università di Bari and the related activities
the institution is going to take for CIMO?
3) What is the process for delivery? Do I need to send the application to
Finland myself without the approval of the Università di Bari and then
CIMO will send it back to Bari for the signature, or is the Università di
Bari in charge of sending the whole approved application to Finland?

Do I need a referee or a supervisor from my University, my Professor Furio
Semerari, to approve my application or act as support in the application
process?
Do you have a referee or an Office at CIMO or at the University in charge
of dealing with the subject? I contacted the Finnish Embassy in Rome for
further information and I was told that the application access must be
requested also from a Professor of the Università di Bari; is this true?
I kindly ask you to clearify this, otherwise all my work on the project
will be lost and I will not be able to submit my application.
Kind regards,
Angela Alessandra Milella

Dear Angela,

thank you for your message. CIMO does not require the signature of the University of
Bari. Please not, however, that you cannot apply the CIMO Fellowship grant yourself.
It is always the representative of a Finnish university who applies a scholarship
for a candidate university wants to host. Please not also, that this program is
meant for doctoral level studies in Finland.

You can find more information on the CIMO Fellowship program and the detailed
instructions on our web site:
http://www.studyinfinland.fi/tuition_and_scholarships/cimo_scholarships/cimo_fellowships

with best regards

Marjaana Kopperi
Yksikön päällikkö/Head of Unit
Kansainvälisen liikkuvuuden ja yhteistyön keskus CIMO / Centre for International
Mobility CIMO PL / P.O.Box 343 (Hakaniemenranta 6),
FIN-00531 Helsinki, Finland
Puh. / Tel. +358 (0)295 338 553
Fax +358 9 753 1122
marjaana.kopperi@cimo.fi
www.cimo.fi

Dear Sirs of the Vaasa University,

I am Angela Alessandra Milella, I’m an Italian journalist and a
professor in Literature at high school. I’m doing a research in Media
Ethics with Professor Furio Semerari of the University of Bari (Italy):
the objective is to scan paths and gender presence into the new mass media
system, to define the quantity and evaluate the quality of the
multiplicity and pluralism in information. Since 2012 I’ve been working
on an essay on Media ethics, as reported in the attached file as
requested.
I’m applying to the CIMO Fellowship at the University of Vaasa because I
read Media Teoria and Media Ethics represents a crucial element in your
University programme thanks to Professor Tarmo Malmberg: I would like to
collaborate with him for the attached project, as the CIMO Fellowship
requires a representative of a Finnish University to approve the project
and apply for the Scholarship. One last thing: how is the procedure from
now? Do you need further documents?

This work is not only relevant for Italy but for both countries, because
it is a scientific study of the media system aimed at observing, analyzing
and possibly improving the system itself through a partnership between a
variety of domestic communication and media institutions and associations.
The results of my research will be collected and published in a book
available for anyone who will decide to take on from where I left.
I am employee of the Ministero Istruzione Università e Ricerca (MIUR) so
I can use my salary as high school professor as a contribution to the CIMO
Scholarship for the whole research period.
This project is a good test for the future. Once back in Italy, this
opportunity will allow me to pursue my professional goals as a journalist.
I feel I can contribute to the improvement of the media system in Italy.
You will find all the required documents for the CIMO Fellowship in the
attached files: Application Form, CV, Motivational Letter and Project
Presentation, as specified in the CIMO webpage:

http://www.studyinfinland.fi/tuition_and_scholarships/cimo_scholarships/cimo_fellowships

For further questions please do not hesitate to contact me.
Thank you for this opportunity.
Kind Regards,

Angela Alessandra Milella

Dear Ms Milella,

thanks for your contact. I’m sorry to say but I now longer work at
Vaasa University. I hope the the Office of International Affairs will
help you.

Cordiali saluti

Dear Professor Tarmo Malmberg,
with reference to your kind reply, I would like to ask you further
information.
The CIMO Fellowship project allows me to choose the University where to
activate the Fellowship: would it be possible for me to work with you on
my project in your current University? If possible, I would apply to your
new work place in order to get a CIMO Scholarship, because I’m really
interested in your studies and I would like to work with you due to my
background on the subject.
I, therefore, kindly ask you your University details in order to get in
touch with the International Office and enquire about my Application.

Looking forward to your answer,

Best regards.

Angela Alessandra Milella

Dear Ms Milella,

unfortunately I’m on retirement and have no offiial position in any
university, though I still hold a readership at Tampere University.
The most prestigious journaism school in Finland is in Tampere, so I
advise you to contact the Head of the School of Media, Communication
and Theatre who is Dr. Heikki Hellman (heikki.hellman@uta.fi). I hope
you’ll get along with your inquiry.

Distinti saluti

Tarmo Malmberg

Thank you very much Mr. Malmberg,
I will get in touch with Professor Hellman as soon as possible.

Best regards,
Angela Alessandra Milella

Ok. It’s the holiday season in Finland, so he might be on vocation now
but, please, try to reach him.

TM

Dear Professor Heikki Hellman and Sirs of the CMT at Tampere University,

I am Angela Alessandra Milella, I’m an Italian journalist and a
professor in Literature at high school. I’m doing a research in Media
Ethics with Professor Furio Semerari of the University of Bari (Italy):
the objective is to scan paths and gender presence into the new mass media
system, to define the quantity and evaluate the quality of the
multiplicity and pluralism in information. Since 2012 I’ve been working
on an essay on Media ethics, as reported in the attached file as
requested. I’m applying to the CIMO Fellowship at the University of
Tampere, School of Media, Communication and Theatre, because I previously
contacted Prof. Tarmo Malmberg, who suggested me to get in touch with your
school and Head of Studies Prof. Hellman, in order to develop a research
in journalism and communication, a crucial element in your University
programme.
I would like to collaborate with you for the attached project, as the
CIMO Fellowship requires a representative of a Finnish University to
approve the project and apply for the Scholarship. One last thing: how is
the procedure from now? Do you need further documents?
This work is not only relevant for Italy but for both countries, because
it is a scientific study of the media system aimed at observing, analyzing
and possibly improving the system itself through a partnership between a
variety of domestic communication and media institutions and associations.
The results of my research will be collected and published in a book
available for anyone who will decide to take on from where I left.
I am employee of the Ministero Istruzione Università e Ricerca (MIUR) so
I can use my salary as high school professor as a contribution to the CIMO
Scholarship for the whole research period.
This project is a good test for the future. Once back in Italy, this
opportunity will allow me to pursue my professional goals as a journalist.
I feel I can contribute to the improvement of the media system in Italy.
You will find all the required documents for the CIMO Fellowship in the
attached files: Application Form, CV, Motivational Letter and Project
Presentation, as specified in the CIMO webpage:

http://www.studyinfinland.fi/tuition_and_scholarships/cimo_scholarships/cimo_fellowships

For further questions please do not hesitate to contact me.
Thank you for this opportunity.
Looking forward to hearing from you.

Kind Regards,
Angela Alessandra Milella

Dear Angela,

I’m deeply sorry I have disappointed you with your planned project. The fault lays
completely with me. I simply forgot to reply in time. I retraced your message while
emptying my files.

As far as I can see, your application would have served our interests too – although
there’s always the practical difficulty of providing an office here at the
university. I truly regret that we missed this chance.

May I ask what happened to your application? Did you manage to cooperate with
another university here in Finland?

With apologies,

Heikki
Heikki Hellman
Dean, Docent
CMT (School of Communication, Media and Theatre)
Kalevantie 4, FI-33014 University of Tampere, Finland
Tel. +358 40 5713184
heikki.hellman@staff.uta.fi

http://www.uta.fi/cmt/yhteystiedot/henkilokunta/heikkihellman/index.html
http://www.uta.fi/cmt/en/contact/staff/heikkihellman/index.html

New article:
Maarit Jaakkola, Heikki Hellman, Kari Koljonen and Jari Väliverronen: “Liquid
Modern Journalism with a Difference: The changing professional ethos of cultural
journalism”. Journalism Practice, Online first 17.7.2015.
DOI:10.1080/17512786.2015.1051361.
http://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17512786.2015.1051361#abstract

New chapter:
Heikki Hellman and Hannu Nieminen: ”Mediayhtiönä yhteiskunnassa”. In:
Mediajohtaminen: Näkökulmia uudistuvaan media-alaan / ed. by Nando Malmelin and
Mikko Villi. Helsinki: Gaudeamus, 2015, 33–58.

Dear Sir,
It would be a great pleasure for me to cooperate with Uta University on my
project.
The scholarship is still valid for the time being therefore it is my
intention to apply for the project with your support.
Should you need further details. Please contact me at this address.
Looking forward to our collaboration.
Best regards,
Angela Milella




Meritocrazia addio: l’Italia dei pentiti

La meritocrazia è morta molto prima di Lee Kuan Yen, fondatore di Singapore (paese che ha il Merito tra i principi fondamentali della propria Costituzione), deceduto il 23 marzo 2015.

Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati.

Leggevo nelle colonne dell’Espresso che un dottore di ricerca italiano, dopo essersi fatto raccomandare ed essere stato rottamato dal Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano, ha spiegato nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. “Qualcuno, è evidenziato nel titolo dell’articolo, non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato”.

Dopo aver contribuito, per dieci anni, con i suoi amici, adesso acerrimi nemici suoi e del suo libercolo, alla corruzione del nostro Paese, Matteo Fini, classe 1978, ha scoperto che l’Italia non è un Paese per giovani docenti universitari.

Una volpe!

“Tante illusioni svanite via via nel nulla”, lamenta.  Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo”. Eppure per la sua carriera fallita non è riuscito a calcolare rischi e probabilità.

La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto…

“Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo.

E tenta di far soldi con gli strumenti dei padroni/padrini: ne fa la sostanza del suo libro “la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente”.

Comincia a scriverlo, riporta il settimanale, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all’editore con cui aveva già fatto un libro (“Non è un paese per bamboccioni”), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce.

Ma buoni o cattivi, non è la fine constatiamo Noi, citando Vasco Rossi. L’autore, bocciato per cattiva condotta dagli amici/nemici, racconta sull’ “Espresso” la propria storia, che di seguito riportiamo dall’Espresso  del 16 marzo 2015.

L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini.

“Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”.

Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”.

In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c’erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa… Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo.

In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso.

Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te… E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l’abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c’è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa “cultore”, e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne “gli atti del convegno”, che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”… Come se ce se ne vergognasse”.

Noi, gli diciamo: “Te ne accorgi solo adesso? Quando ti ha fatto comodo non hai visto, non hai sentito e non hai parlato. Hai sperato che andasse bene anche a te. Adesso pagane le conseguenze”.