Un’estate nera

Si respira un’aria particolare quest’anno, il solstizio estivo non è stato dei migliori. Gli italiani hanno preso un abbaglio che li ha privati della vista per diverso tempo. La realtà è piombata come un sasso sulle loro teste dopo averli fatti attendere un mesetto per avere un nuovo governo.

E che governo!

Un presidente del Consiglio che conosce cinque lingue, ma non parla; un ministro dell’Interno che chiude i porti, nega diritti, abbandona in mare centinaia di essere umani, invece di imporsi sulla scena internazionale col dialogo costruttivo e propositvo, da grande statista.

Da due mesi siedono sugli scranni a far niente.

Hanno soltanto lasciato che alcuni provvedimenti presi d’urgenza, come quello di spostare al 23 luglio la data del concorso per 2.425 dirigenti scolastici, tanto per citarne uno,  si attuassero, incuranti degli impegni lavorativi del personale scolastico e del diritto alle ferie e al riposo degli impiegati della pubblica amministrazione, incuranti delle conseguenze delle proprie omissioni, perché, per far danni, non sempre è necessario agire.

Dibattito? Nuove proposte? Attività legislativa? Tutto fermo.

Un governo giallo-verde, dunque. Al verde come le tasche degli italiani, che un’estate così strana non pensavano di vederla nemmeno col cannocchiale.

E invece giallo-verde e… Blu! Dall’altra parte dell’oceano Trump separa coattamente 3.000 bambini messicani dai genitori.

In Turchia Erdogan censura e imprigiona  giornalisti negando libertà di parola ed espressione.

In Ungheria fanno cernite razziste e costruiscono barricate.

E non sappiamo quando, quest’estate nera e bollente come la pece  smetterà di distruggere vite umane.

Non sappiamo se questa nera estate, sorta al motto: “Gli italiani prima di tutto”, lascerà sopravvivere qualcuno nella scarsa considerazione che si ha del prossimo, da quello simile e più vicino a quello più lontano e diverso, nella incuria che si ha dell’altro con le sue esigenze, con le sue necessità, con la sua diversità, della sua dignità.

Perché a fare i buffoni, a strillare siam bravi tutti, ma le buone azioni non le abbiamo ancora viste.

Adesso, teniamoci stretto uno dei pochi diritti che ci restano, quello di godere di due settimane consecutive di vacanza, con la speranza che la nostra vita cambi presto colore.

Buone vacanze e arrivederci a settembre.

 

 

 

 




USA – E’ polemica sulle trivelle in mare

Mentre il governo italiano toglie la data di scadenza alle concessioni entro le 12 miglia, gli USA riducono il campo d’azione delle trivelle in mare.

Anche negli Stati Uniti infuria la polemica politica sulle trivelle e le estrazioni di idrocarburi in mare. Mentre l’Italia non cancella il regalo del governo Renzi alle concessioni petrolifere entro le 12 miglia, l’amministrazione Obama ha varato  le nuove regole per le perforazioni al largo delle coste USA. La motivazione è semplice: evitare un nuovo disastro ambientale come quello causato dall’esplosione, nel 2010, della piattaforma Deepwater Horizon della BP.
Le nuove norme, secondo l’industria petrolifera, avranno impatti per 31,8 miliardi di dollari sul settore, mettendo in pericolo 50 mila posti di lavoro. Il Dipartimento degli Interni, che ha deciso di rendere obbligatori gli standard, stima i costi di adeguamento degli impianti in meno di 1 miliardo e ha insistito sul fatto che la produzione di petrolio nel Golfo del Messico «è una componente fondamentale del portafoglio energetico della nostra nazione». In realtà, rappresenta il 16% della produzione totale di petrolio degli Stati Uniti e il 5% della loro produzione di gas naturale domestico.

I regolamenti varati dall’amministrazione USA, sostanzialmente, aumentano il monitoraggio dei pozzi e il controllo e manutenzione delle piattaforme. In particolare, i nuovi e più stringenti standard vengono applicati al blowout preventer, dispositivo utilizzato durante la perforazione di un pozzo che ha il compito di metterlo in sicurezza nel caso i fluidi dovessero accidentalmente migrare all’esterno.
L’industria ha avvertito che quasi i due terzi dei pozzi perforati nel Golfo del Messico dal 2010 non soddisfano i nuovi standard. Ma dovranno adeguarsi: nessuno ha voglia di vedere un altro cataclisma nelle acque dell’Atlantico. Secondo una nuova analisi dell’impatto di quel disastro, prodotta dalla ONG Oceana, fino a 800 mila uccelli marini e un gran numero di delfini e balene sarebbero morti a causa della fuoriuscita del petrolio. Molti altri hanno sofferto di problemi riproduttivi per anni, e una superficie corallina delle dimensioni di Manhattan è stata danneggiata.
Oceana dichiara che «l’apertura di nuove aree di perforazione in mare aperto comporta rischi inaccettabili. Non dovremmo espandere la perforazione nelle acque statunitensi o utilizzare tecnologie devastanti come l’airgun, che può compromettere la vita marina».




LIBIA – Renzi: “Non è il tempo delle forzature, ma del buon senso e dell’equilibrio”

Dopo il rientro in Italia delle salme di Salvatore Failla e Fausto Piano, non si placano le polemiche circa un probabile intervento delle forze armate italiane in Libia, se da un lato il segretario della difesa americano Ash Carter afferma: «L’Italia, essendo così vicina, ha offerto di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo con forza», dall’altra parte il presidente del consiglio Matteo Renzi dichiara cautamente che l’Italia potrebbe dare un apporto in Libia solo : “sulla base della richiesta di un governo legittimato” della Libia, e “comunque avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari e istituzionali necessari”, inoltre, aggiunge “non è il tempo delle forzature, ma del buon senso e dell’equilibrio: queste le nostre parole d’ordine, ben diverse da chi immagina di intervenire in modo superficiale e poco assennato”. Se le parole di Renzi rispecchiato in toto il suo pensiero, potremmo esser certi che l’ipotesi di un’ intervento militare in Libia, risulterebbe assai remota, in quanto non vi è alcun governo libico legittimato, ma tribù in lotta tra di loro e la presenza dello Stato Islamico sempre più influente. L’unico pensiero che accomuna tutte le tribù è quello di rifiutare categoricamente ogni intervento “straniero”. Gli americani continuano a fare pressioni sul mondo intero affinché nello stato africano venga ristabilito il loro concetto di democrazia, senza pensare al sacrificio di vite umane e che probabilmente si stava meglio quando alla guida dello stato libico vi era Gheddafi.




Dieci motivi per dire stop al TTIP

Incrementare il commercio e gli investimenti tra Ue e Usa eliminando sia gli ostacoli che riguardano le tariffe di protezione tra i due contraenti sia le barriere non tariffarie, cioè legate a servizi e merci diversamente considerate tra le due sponde dell’Oceano. E’ questo l’obiettivo del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). La preoccupazione diffusa è che l’eliminazione soprattutto delle ultime possa mettere in pericolo il livello di tutela della Ue in materia di salute pubblica, sicurezza alimentare, informazione dei consumatori, salute animale e ambiente. Esistono infatti differenze profonde tra i sistemi di regolamentazione che si vorrebbero uniformare per facilitare gli scambi tra Ue e Usa, derivati da culture giuridiche e politiche diverse.

Secondo la Commissione Ambiente, Sanità e Sicurezza alimentare del Parlamento europeo (Envi), per conseguire una maggiore compatibilità normativa senza danneggiare gli standard europei, presenti e futuri, in materia di salute e ambiente, il TTIP dovrebbe contenere una chiara distinzione tra i settori in cui gli obiettivi e i livelli di tutela europei e statunitensi sono  simili e quelli in cui sono divergenti, adottando nel primo caso approcci comuni o un riconoscimento reciproco, mentre nei settori divergenti la cooperazione tra Usa e Ue dovrebbe focalizzarsi sullo scambio di informazioni o ricercando un’armonizzazione verso l’alto.

Ma non si sta negoziando su questa strada.

Il settore agroalimentare è compreso nel capitolo delle materie fitosanitarie, per le quali non si prevede una regolamentazione specifica, mediata tra le due parti. Si intende quindi procedere con il riconoscimento automatico dell’equivalenza, accettando le regolamentazioni di entrambe le parti senza giungere a una sintesi o a una scrittura congiunta delle regole. Le controversie che ne potrebbero derivare, sarebbero affidate poi ai temibili collegi arbitrali privati.

Sul tavolo delle trattative, i punti critici del TTIP riguardano: il Principio di precauzione (per mettere in commercio un prodotto, in Europa è richiesta un’accertata assenza di rischio, mentre negli Usa è sufficiente l’assenza dell’evidenza di un rischio. Da noi, l’esistenza di incertezze scientifiche giustifica l’adozione di misure basate sul principio di precauzione, che consente l’opzione più protettiva per il consumatore. Negli Usa, il prodotto viene autorizzato, salvo adottare misure restrittive se si evidenziano rischi. A rischio è la sicurezza alimentare dove le regole sono meno stringenti); i controlli; l’uso dei pesticidi; gli Ogm (gli Usa contestano la normativa europea che, oltre ai possibili divieti nazionali, consente alla Commissione Ue di non autorizzare gli ogm anche se hanno ottenuto parere favorevole da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Secondo gli Usa, un ogm con parere scientifico favorevole deve avere automatica autorizzazione alla commercializzazione. Da noi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti alimentari per contenuto ogm superiore allo 0.9% sul peso totale, negli Stati Uniti l’etichettatura è volontaria); l’uso degli ormoni (nel 2012, l’Ue ha risolto un contenzioso ventennale con Usa e Canada, avendo la Ue vietato dal 1988 il commercio di carni di animali trattati con gli ormoni. L’accordo prevedeva che Usa e Canada potessero esportare nella Ue 48.200 tonnellate di carni bovine da animali hormone-free, nel rispetto della legislazione comunitaria) e degli antibiotici (si stima che il 70% degli antibiotici distribuiti negli Stati Uniti sia usato negli allevamenti; il 10% per curare animali malati, il restante 20% impiegato nell’uomo), del cloro; la pratica della clonazione; i marchi Igp e Dop; l’istituzione di un sistema di arbitrato sovranazionale (Investor-State Dispute Settlement) che, aggirando i sistemi giudiziari nazionali, sarebbe incaricato di risolvere le controversie tra aziende e governi accusati di non rispettare le clausole del Trattato. Il timore è che si cerchi di far prevalere gli interessi economici e commerciali su quelli di tutela della salute, in particolare nel settore agroalimentare. Secondo la Commissione Ambiente, Sanità e Sicurezza alimentare del Parlamento europeo (Envi), “tale meccanismo può in sostanza mettere a repentaglio i diritti sovrani dell’Ue, degli Stati membri e delle Autorità locali, di adottare regolamenti in materia di salute pubblica, sicurezza alimentare e ambiente”.

La prospettiva di accordo è quella di un mutuo riconoscimento di alcuni prodotti: da una parte, i prodotti statunitensi  dovrebbero indicare in etichetta la loro origine senza alludere alle indicazioni geografiche europee, dall’altra l’Europa dovrebbe consentire l’esportazione sul suo territorio di questi prodotti, oggi vietati. Questa soluzione aprirebbe un maggior mercato negli Usa per Igp e Dop europee grazie all’abbattimento delle barriere tariffarie. Il contraccolpo negativo si avrebbe sul mercato europeo dove i consumatori troverebbero ad esempio prosciutti, formaggi e salumi con lo stesso nome di quelli italiani, ma a minor prezzo.

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SIRIA – Raid aereo: gli Usa colpiscono dalla Turchia. Assemblea generale ONU in settembre

Cacciabombardieri Usa hanno compiuto per la prima volta un raid aereo “letale” sul Nord della Siria decollando da una base nel Sud della Turchia. Lo riferisce la Cnn citando due fonti diverse della Difesa statunitense. Poco prima, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu aveva affermato che Turchia e Stati Uniti “hanno fatto progressi” riguardo all’uso della base militare turca di Incirlik e che “gli aerei americani stanno cominciando ad arrivare. Presto – ha aggiunto – lanceremo una completa lotta contro Daesh”, l’acronimo arabo per Stato islamico.

Come in passato, la Casa Bianca ambisce alle dimissioni del presidente siriano Bashar Assad ed è favorevole al sostegno dei gruppi armati di opposizione. Tuttavia Mosca considera questo approccio disastroso, soprattutto in considerazione della mancanza di progressi nella lotta contro i terroristi di ISIS. La coalizione internazionale creata dagli USA con i suoi alleati nella regione finora non è riuscita a fermare lo slancio del gruppo fondamentalista. Contemporaneamente la Russia e gli altri Paesi che sostengono il regime di Damasco non sono pronti a collaborare con questa coalizione fino a quando la sua missione non godrà del sostegno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite attraverso l’approvazione di una risoluzione speciale.
Tale coalizione dovrebbe costituirsi “su una solida base giuridica internazionale”, — si afferma nel comunicato del ministero degli Esteri russo rilasciato dopo la visita di Sergey Lavrov in Qatar.
Per Mosca è essenziale che la coalizione riceva ufficialmente il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Secondo il “Kommersant”, il presidente russo ha intenzione di dedicare particolare attenzione a questo tema nel suo discorso di apertura della 70esima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU a New York alla fine di settembre.
In una conversazione con i giornalisti Sergey Lavrov ha criticato la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ed ha esternato le sue idee in merito al segretario di Stato USA John Kerry.
“Quando gli Stati Uniti un anno fa avevano annunciato la creazione di una coalizione per combattere ISIS in Iraq e in Siria, Washington si è assicurata l’accordo del governo iracheno, ma non ha chiesto nulla a Damasco. Abbiamo già sottolineato l’illegittimità e l’inefficacia di tale approccio,” — ha detto.
Secondo il capo della diplomazia russa, le azioni degli Stati Uniti si configurano come “un ostacolo alla formazione di un fronte comune contro ISIS” e la strategia di sostenere l’opposizione siriana con l’aviazione può “complicare ulteriormente la lotta contro il terrorismo.”
“L’addestramento sul territorio degli Stati vicini da parte degli istruttori americani sui combattenti della cosiddetta opposizione moderata è degenerato quando molti degli uomini addestrati sono finiti dalla parte degli estremisti”, — ha dichiarato il ministro russo.
Mosca ritiene che “gli attacchi aerei da soli non bastano”, “ed è necessario formare una coalizione di persone che la pensano allo stesso modo” e sul campo “si oppongono con le armi alla minaccia terroristica.”
“Sono interessati l’esercito siriano e iracheno e i curdi,” — ha detto Lavrov, aggiungendo che in questa iniziativa è stata promossa dal presidente della Federazione Russa.
Allo stesso tempo Lavrov ha ammesso che la posizione di Mosca non ha trovato la comprensione di Washington.
“Non penso di essere stato in grado di far scricchiolare la posizione degli Stati Uniti. Su questo tema le nostre posizioni divergono chiaramente,” — ha detto dopo l’incontro.

ROMA –  “Da diversi giorni il governo turco bombarda villaggi civili e postazioni militari del popolo curdo. In tutti questi mesi, Erdogan ha sostenuto e appoggiato l’ISIS. Dal confine turco sono passate autobombe dirette a Kobane, miliziani dello Stato Islamico sono stati curati negli ospedali turchi, mentre si continua a tenere chiusa la frontiera con la città curda liberata da YPG/YPJ. Anche nel recente attentato che ha causato la morte di decine di giovani socialisti e anarchici a Suruc, le responsabilità del governo dell’AKP stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza.

Il dittatore turco Erdogan ha annunciato di voler combattere l’ISIS solo perché si sente estremamente debole, sia all’interno, che all’esterno del Paese. Dopo le ultime elezioni non è in grado di ottenere la maggioranza necessaria a formare un governo, anche grazie alla straordinaria affermazione dell’HDP, partito capace di parlare ai curdi e a tutta la sinistra turca. Inoltre, è stato messo alle strette dall’accordo sul nucleare iraniano e, soprattutto, ha paura che l’esperienza di democrazia radicale del Rojava possa consolidarsi e diventare contagiosa.

Per queste ragioni, dietro la maschera della lotta all’ISIS, Erdogan ha lanciato una campagna contro la resistenza curda e contro le opposizioni interne. Su circa 800 arresti, meno del 10% riguardano presunti membri dello Stato Islamico: tutti gli altri sono militanti curdi o membri delle opposizioni.

Questa operazione è condotta con la complicità degli USA e dei Paesi dell’Unione Europea, mentre i media internazionali, che fino a pochi giorni fa esaltavano le gesta delle eroiche guerrigliere curde capaci di fermare l’avanzata dell’ISIS, adesso descrivono le stesse persone e le stesse organizzazioni come “terroriste”.

Dopo mesi di solidarietà attiva nei confronti della popolazione curda e delle sue unità di autodifesa, oggi vogliamo rompere il muro di silenzio e menzogne creato intorno all’aggressione militare che stanno subendo. Vogliamo denunciare il terrorismo di Erdogan e dello Stato turco. Vogliamo affermare che in Turchia e nel Kurdistan HDP, PYD, PKK, insieme ai movimenti sociali esplosi negli ultimi anni, sono gli unici garanti della democrazia e dei valori umani.
Per la fine dei bombardamenti e la pace in Kurdistan e in tutta l’area medio-orientale.

Per il rilascio immediato di tutti gli oppositori al regime autoritario turco.

Per l’eliminazione del PKK, unico fronte all’avanzata dell’ISIS e unico garante possibile per un processo di pace nell’area, dalle liste del terrorismo internazionale.

Per il riconoscimento del confederalismo democratico del Rojava, per una possibilità di pace e libertà per i popoli del Medio Oriente”.
Roma per il Kurdistan

(Attivisti solidali con il popolo curdo e la sinistra curda e turca si sono incatenati all’ambasciata della Turchia per denunciare la guerra del governo di Erdogan contro il confederalismo democratico del Rojava, il Pkk e i movimenti sociali turchi).

ERDOGAN – “Pur di bloccare le ambizioni dei curdi di creare un proprio territorio autonomo nel Nord della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ora è determinato addirittura ad allearsi con la filiale siriana di Al Qaida”. Così Mustafa Bali, portavoce delle Unità a Difesa del popolo curdo (Ypg), il quale condanna i piani di Ankara di creare una “zona di sicurezza” nel Nord della Siria. E teme che gli Usa possano appoggiarli.

Continuano, incessanti, i bombardamenti dell’aviazione turca contro le postazioni del Pkk sulle montagne del nord dell’Iraq e del sud –est della Turchia, e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Non si hanno finora notizie precise sul bilancio ma da numerose delle zone bombardate giungono allarmanti dati sul numero delle vittime. L’agenzia di stampa ufficiale turca, Anadolu, evidentemente imbeccata dal regime, parla di circa 260 membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan uccisi e di centinaia di feriti in una settimana di attacchi aerei sulle postazioni della guerriglia. Il bollettino fornito dalla Anadolu afferma che anche Nurettin Demirtas, fratello del leader del Partito Democratico dei Popoli Sehattin, sarebbe rimasto ferito durante i raid, centinaia, che avrebbero colpito e distrutto 65 tra depositi di armi e rifugi della resistenza curda.

Cifre che, come scrivevamo già, sono probabilmente gonfiate per dare la sensazione all’opinione pubblica islamista e reazionaria turca che la nuova strategia bellicista intrapresa pochi giorni fa dall’asse Davutoglu-Erdogan stia dando i suoi frutti e che le perdite inflitte ai ‘terroristi’ – per ora solo quelli curdi, perché di attacchi contro lo Stato Islamico non si è sentito più parlare – siano molto ingenti. Il Pkk finora ha dato notizia solo di cinque morti tra i combattenti ma ha ammesso che da giorni ha perso il contatto con alcune delle aree bombardate.
Naturalmente i bollettini ufficiali turchi non fanno alcuna menzione delle numerose vittime civili causate dalle bombe sganciate dagli F-16 e dagli F-4 di Ankara sui villaggi. Notizie di vittime civili e di distruzioni arrivano da numerose zone, ma il bilancio più alto sembra arrivare finora dal villaggio di Zergelê, sui monti di Qandil, nel kurdistan iracheno, dove i caccia turchi avrebbero ucciso almeno 9 civili, compresi donne e bambini. I bombardamenti, raccontano i testimoni, sono iniziati durante la notte, intorno alle 4: quattro missili hanno preso di mira le case nel villaggio distruggendone molte e facendo strage degli abitanti. Oltre ai morti ci sarebbero anche 15 feriti, di cui alcuni in gravissime condizioni, molti dei quali non sono stati condotti in ospedale a causa della continuazione dei raid che rendono insicuri gli spostamenti. “Stavamo dormendo quando i caccia turchi hanno colpito il nostro villaggio”, ha raccontato uno dei civili feriti.
Di fronte alla violazione della propria sovranità e alla strage di oggi documentata dalle immagini scattate da un reporter dell’agenzia Rojnews – che ne annuncia sicuramente altre nei prossimi giorni – la leadership della regione autonoma dell’Iraq del Nord ha incredibilmente chiesto ai guerriglieri del Partito Curdo dei Lavoratori di lasciare le proprie postazioni nella regione “per non esporre ulteriormente i civili ai raid aerei turchi”, di cui però non ha per ora chiesto la cessazione ad Ankara.
“Il Pkk deve tenere il campo di battaglia lontano dalla regione del Kurdistan perché i civili non diventino vittime di questa guerra”, ha affermato il presidente della regione autonoma, Massud Barzani in un comunicato diffuso dal suo ufficio.
“Non crediamo che ci possa essere una soluzione militare – si è limitato a dire il ministro degli Esteri del governo di Erbil, Falah Mustafa Bakir – Speriamo che le parti tornino al negoziato perché stabilità e sicurezza è quello di cui abbiamo bisogno ai nostri confini”.
In un suo comunicato-appello urgente, invece, il Congresso Nazionale Curdo (Knk) – che riunisce partiti e movimenti di liberazione curdi di diversi paesi – parla apertamente di terrorismo di stato turco e di aperta collaborazione di Ankara con lo Stato Islamico che pure afferma di voler combattere.
A vedere le strazianti immagini provenienti da Qandil la sensazione che i jihadisti abbiano finalmente a disposizione una loro aviazione – gli F-16 di Ankara – è davvero forte.

Per Bali, che ha parlato con askanews da Kobane, città curda siriana liberata a gennaio scorso dopo un lungo assedio dei jihadisti dell’Isis, le operazioni militari appena lanciate dall’esercito turco contro le milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis) oltre il confine con la Siria sono “una farsa turca” con altri obbiettivi rispetto a quando dichiarato: in primis “colpire i curdi”. Il vero obiettivo sarebbe bloccare la creazione di un territorio autonomo dei curdi siriani, separando due zone da loro controllate.

La zona indicata per la creazione della cosiddetto “zona cuscinetto” voluta da Ankara è lunga circa 50 chilometri, parte da Kobane a Est e arriva ad Afrin a Ovest; entrambe città curdo siriane. “Si tratta di una zona mista controllata dall’Isis e abitata da curdi, arabi e turcomanni”, afferma Bali, secondo cui parò l’esercito turco ha “bombardato solamente villaggi curdi”.

“Dopo aver capito che l’Isis non è un partner vincente – prosegue il portavoce di Ypg, che accusa senza mezzi termini Ankara di connivenza con l’Isis – Erdogan punta ora sulla carta dei qaedisti, definendoli ‘opposizione moderata’” al regime di Bashar al Assad.

Un quadro che non corrisponde a realtà, secondo l’esponente curdo. “Intanto non esiste un’opposizione moderata, basti pensare che gli Usa dopo tre anni non sono riusciti a reclutare più di 60 combattenti da addestrare contro Damasco”, argomenta Bali, spiegando che “oggi la cosiddetta opposizione moderata è composta da soli gruppi terroristi di stampo islamista come il Fronte al Nusra, Jeish al Fatah, Beit al Islam e Ahrar al Sham”. Insomma gruppi islamisti “che in comune con Erdogan hanno l’avversione per i curdi”.

Quindi “non capiamo la politica di Washington”, che pare tacitamente assecondare il piano di Ankara per la creazione della zona di sicurezza, afferma il portavoce, sottolineando che “sarà difficile che gli americani possano accettare un’alleanza con terroristi islamici camuffati da opposizione siriana”.

Tuttavia, “le forze curde non cambiano strategia: noi combattiamo i terroristi a prescindere dal nome che portano, che sia Isis o al Qaida. In fondo il Fronte al Nusra ha cominciato a sgozzare la genet prima di quelli del Califfato nero”.

Di recente la Turchia è stato colpita, per la prima volta, da attacchi da parte di milizie jihadiste legate all’Isis. Un attentato ha fatto 32 morti nella città di confine di Suruc la scorsa settimana. Per Ankara, i militanti del PKK sono terroristi, così come lo sono gli uomini del Califfo .

Con una conferenza stampa congiunta del YPG (Peoples’ Protection Units) e della sua componente femminile, il YPJ, le forze curde che combattono contro lo Stato Islamico hanno annunciato la liberazione della città di Hasaka dopo una battaglia che durava da oltre un mese.

Secondo quanto si è appreso durante l’operazione sono stati uccisi almeno 386 terroristi appartenenti al Daesh tra i quali molti comandanti di alto grado. E’ l’ennesima vittoria delle forze combattenti curde nel difficile teatro della guerra in Siria, una vittoria che arriva nonostante gli attacchi dell’aviazione turca contro i combattenti curdi.

Durante la conferenza stampa ha parlato Azima Deniz, una comandante delle forze femminili curde (YPJ) la quale nel ricordare il fondamentale apporto delle combattenti donne curde ha sottolineato come nella battaglia siano stati uccisi il “sovrano” di Hasaka nominato dai vertici dello Stato Islamico, il sindaco della città e diversi suoi assistenti.

I combattenti curdi hanno sequestrato anche una grande quantità di armi e munizioni che andranno a rinforzare le milizie curde dato che le potenze occidentali non le riforniscono adeguatamente di armi a causa della opposizione delle Turchia. La conquista della città di Hasaka porta le forze curde ancora più vicino a Raqqa, capitale del Daesh.

Intanto  la Turchia ha ammesso che durante i raid dell’aviazione turca contro obbiettivi curdi hanno perso la vita diversi civili. Il Ministero degli Esteri turco ha emesso un comunicato dove si dice “rattristato” per l’uccisione di civili e che “la Turchia farà di tutto per evitare l’uccisione di civili” confermando tuttavia che i raid contro le forze curde, in particolare contro il PKK (ma non solo), continueranno fino a quando la Turchia lo riterrà opportuno.




“Atom for peace”. Sarà vero?

«Meglio non avere un accordo che un cattivo accordo», ha proclamato  la Guida Suprema Ali Khamenei, riecheggiando le parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ostinato avversario dell’intesa di Losanna.

In sincronia con il presidente iraniano Hassan Rohani, Khamenei si è detto molto irritato perché l’Iran vorrebbe la revoca immediata delle sanzioni e non graduale, agganciata alle ispezioni dell’Aiea come nelle intenzioni dichiarate dal Cinque più Uno. Le sanzioni, secondo Teheran, devono essere cancellate il giorno stesso dell’accordo definitivo previsto entro il 30 giugno. La leadership iraniana sembra pretenziosa e intrattabile.

Il leader, in un intervento trasmesso dalla tv di Stato in occasione della Giornata nazionale della tecnologia nucleare, ha spiegato: “Vogliamo un accordo vantaggioso per tutte le parti coinvolte nei colloqui sul nucleare” e ha aggiunto: “Il presidente Usa, Barack Obama, ha riconosciuto che il popolo iraniano non si arrenderà a sopraffazioni, sanzioni e minacce, e questo fatto è una conquista” da parte della Repubblica islamica in sede di negoziati sul nucleare con le potenze mondiali.

Avere reattori civili in Iran non è come mettere il cartello “Zona denuclearizzata” all’ingresso delle nostre città di provincia, testimonianza di un grande impegno pacifista per un mondo libero da armi atomiche durato sino agli anni Ottanta.

Per Barack Obama la situazione si complica, il presidente degli USA dovrebbe pensare a un piano B, lo scenario è  mutato da  quando,  nel 1954,  Eisenhower approvò ufficialmente il progetto “Atom for Peace” al fine di agevolare l’introduzione dell’energia nucleare in applicazioni civili e per la produzione di energia elettrica, e trovare un punto di equilibrio diventa più difficile.

In Medio Oriente le trattative sono complesse e anche le parole hanno un significato diverso: l’Iran dei persiani è in guerra, le milizie sciite combattono in Iraq e in Siria contro il Califfato sunnita e i suoi alleati, da Al Qaeda alle monarchie arabe del Golfo, alla Turchia. Nello Yemen, Teheran è ai ferri corti con l’Arabia Saudita, in un conflitto dai connotati sempre più settari e inconciliabili, in cui si è arrivati a schierare navi da guerra nello Stretto di Bab el Mandeb, “la Porta delle lacrime”.

E la parola nucleare è legata più alla parola guerra che al termine energia, come vogliono invece  far credere.

Neanche la CIA sa esattamente quante testate nucleari abbia Israele (che si rifiuta categoricamente di dare spiegazioni in merito) ma la stima migliore ne accredita 80 a Tel Aviv, con plutonio sufficiente per arrivare fino a 200. Solo nel 1998 l’odierno presidente Shimon Peres rivelò che gli esperimenti israeliani sul nucleare erano cominciati già negli anni Cinquanta. Israele disporrebbe di unità terrestri, aeree e sottomarine, per il lancio dei missili.

Mentre l’Iran, per quanto accusato da Israele di essere a un passo dall’ottenere un ordigno nucleare, non ha ancora  un armamento.

L’Iran di oggi come quello dello Shah Mohammed Reza Palhevi, allora alleato di Washington, ambisce a essere una potenza nel Golfo. I suoi avversari arabi fanno di tutto per impedirlo e non esitano ad allearsi con Al Qaeda e il Califfato per raggiungere lo scopo. In questo conflitto, interno all’Islam, ma con implicazioni globali, gli Stati Uniti e l’Europa sono in posizione contraddittoria: combattono lo Stato Islamico, ormai penetrato a Damasco, e allo stesso tempo dichiarano di sostenere i sauditi nello Yemen e fanno affari con le petromonarchie che appoggiano i movimenti più radicali e terroristi.

In un colloquio a Teheran di qualche tempo fa, Shariatmadari, che perse un braccio nelle prigioni dello Shah e a sua volta torturava i prigionieri politici nel carcere di Evin, fu esplicito: «Sono gli americani che devono fare la pace con noi, non noi con loro».

Khamenei parla all’Iran  e alla comunità internazionale occidentale e araba. Deve accontentare l’ala estremista della rivoluzione islamica contraria all’accordo di Losanna.

In cima alla lista dei Paesi che possiedono armi nucleari ci sono gli Stati Uniti,che hanno condotto più test, dispongono di 7.650 testate, di cui 2.150 attive e così distribuite: 500 testate terrestri, 1.150 assegnate ai sottomarini nucleari e 300 pronte per essere montate sugli aerei. Inoltre, nell’alveo del programma di condivisione nucleare della NATO, la CIA riferisce di altre 200 bombe termonucleari (B61 a gravità) schierate in cinque Paesi NATO: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia.

La Russia dispone di 8.420 testate nucleari, di cui 1.720 attive. Gli effetti delle sperimentazioni atomiche sovietiche sono ancora oggi evidenti in molte aree dove furono condotti i test. Nell’odierno Kazakhstan, ad esempio, tra il 1949 e il 1989 il sito di Semipalatinsk fu teatro di ben 456 esplosioni termonucleari. Inutile dire che quell’area è estremamente radioattiva, per un raggio di almeno 80 km, tale che intere comunità e villaggi, ancorché distanti, portano addosso i segni indelebili di quegli esperimenti, che si sostanziano in deformazioni, leucemie e malattie ereditarie.

La Cina si ha iniziato a produrre  armi nucleari  dal 1950, dopo che gli Stati Uniti intrapresero esperimenti nucleari nel Pacifico (proprio durante la guerra tra le due Coree). Il primo test di successo con un ordigno nucleare è targato 1964, cui seguì la prima prova termonucleare due anni e mezzo più tardi (il più breve tempo tra fissione e fusione le prove di tutte le potenze nucleari). Oggi si suppone che la Cina abbia circa 140 testate terrestri e 40 assegnate per gli aerei. La CIA, che ne ha stimate 240 in totale, ritiene che le restanti testate siano conservate per un futuro impiego in un sottomarino nucleare, che oggi non possiede.

La Francia, dopo USA e Russia, è la terza potenza nucleare al mondo, anche se dispone di “sole” 300 testate, 250 delle quali assegnate a sottomarini nucleari e le restanti 50 pensate per attacchi aerei. Nel 1996, sotto la presidenza Chirac, ha smantellato tutte le testate terrestri.

Il Regno Unito ha condiviso con gli americani il “Progetto Manhattan”, padre di tutte le sperimentazioni nucleari, sviluppando poi un proprio personale programma (pur condividendo oltre la metà dei test con gli USA). Oggi dispone di 160 ordigni operativi, esclusivamente per uso sottomarino.

Pakistan e India dispongono entrambe di circa 100 testate (90/110). Islamabad decise di avviare un proprio programma nucleare nel 1972, in seguito alla guerra con l’India, sperimentando test sotterranei (nel distretto di Chagai, vicino al confine con l’Iran) e oggi dispone di missili nucleari terrestri e aerei. L’India, di converso, ha prodotto armi nucleari proprie dopo i test nucleari della Cina a metà degli anni Sessanta, testando i propri ordigni dal 1974 al 1998. Dispone di missili nucleari aerei e terrestri e da anni cerca di allargare il programma nucleare alle forze marine.

La Corea del Nord, secondo le stime della CIA, avrebbe meno di 10 testate nucleari che ha sperimentato in tre occasioni (2006, 2009 e 2013), fatto che ha comportato per Pyongyang dure reazioni della comunità internazionale e nuove sanzioni economiche. Tuttavia, la minaccia nucleare nordcoreana, particolarmente contro Corea del Sud e Stati Uniti, è poco più che un bluff. Infatti, anche se la Corea ha condotto tre test nucleari sotterranei ed effettuato test missilistici balistici, e nonostante la certezza che gli scienziati nordcoreani abbiano separato abbastanza plutonio per le 10 testate di cui sopra, non è confermato che Pyongyang sia davvero in grado di armare i missili e lanciarli, non disponendo né di sottomarini né di aerei in grado di condurre un efficace attacco dal cielo.

Mutatis mutandis, anche la politica energetica internazionale è stata modificata.

Nonostante i dati favorevoli al nucleare (soprattutto in Francia), secondo l’IAEA (International Atomic Energy Agency) il peso dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti di energia era destinato a ridursi entro il 2020. Questa previsione è datata 2004 ed è  stata smentita dagli ultimi eventi della politica energetica internazionale. L’affermazione e l’ascesa di nuovi paesi sullo scacchiere mondiale (es. Cina e India) e la conseguente crescita della domanda di energia mondiale ha spinto alla cantierizzazione di nuovi reattori nucleari. In Asia sono attualmente in cantiere almeno 15 nuove centrali nucleari (Cina, Corea del Sud, India e Taiwan). La situazione in Europa  merita invece un livello di approfondimento maggiore. L’assenza di investimenti nella costruzione di nuove centrali nucleari in Europa negli anni ’90 è un dato di fatto. La Finlandia è stato l’unico paese europeo ad avere messo in cantiere nell’ultimo decennio del ‘900 la costruzione di una nuova centrale nucleare (centrale di Olkiluoto, attiva entro il 2010).

L’approccio nei confronti del nucleare da parte dei paesi europei è radicalmente mutato nel corso del primo decennio degli anni duemila. L’effetto serra e il caro petrolio hanno fatto riavvicinare all’energia nucleare anche i paesi occidentali più scettici. Agli inizi degli anni duemila molti paesi europei nuclearizzati (Svezia, Germania, Olanda e Belgio) avevano deciso di non sostituire le attuali centrali nucleari al termine del loro ciclo produttivo.

L’acuirsi del problema ambientale e le cicliche crisi del petrolio e del gas hanno però rimesso in discussione il destino del nucleare in Europa. La politica prevalente in questi ultimi anni tende a prolungare la vita delle centrali nucleari europea, in attesa di una possibile risposta ai problemi del nucleare da parte della ricerca scientifica. Prevale pertanto una politica di attesa.

Sono circa 440 i reattori nucleari attivi nel mondo. I paesi con maggiore presenza di reattori nucleari sono i seguenti: USA (1049), Francia (59) e Giappone (53).




IRAN – A Teheran si festeggia il nucleare, ma Netanyahu chiama Obama: «Gli accordi includano il nostro diritto a esistere»

Netanyahu ha ribadito: «l’unico obiettivo» dell’Iran è ottenere la bomba atomica. Per lo Stato ebraico è un passo in una direzione «estremamente pericolosa» perché si limita a concedere altro tempo alla Repubblica islamica. Già nella notte, dopo una telefonata con Barack Obama, Netanyahu aveva definito l’accordo tra la comunità internazionale e Teheran sul nucleare «una minaccia alla sopravvivenza di Israele».

Il Consiglio di difesa del governo di Israele ha respinto «in maniera compatta» l’intesa raggiunta tra il 5+1(Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) e l’Iran sul nucleare. È quanto si legge in un comunicato pubblicato al termine della riunione di tre ore convocata dal premier Benyamin Netanyahu. Lo stesso premier,  fa sapere di «opporsi con veemenza» all’intesa,  «l’accordo non ferma un singolo impianto nucleare in Iran, non distrugge una sola centrifuga e non fermerà lo sviluppo e la ricerca sulle centrifughe avanzate. Invece, legittima l’illegale programma nucleare».

«Riconoscete il nostro diritto di esistere».

Di conseguenza «Israele chiede che ogni accordo finale con l’Iran includa un chiaro e non ambiguo riconoscimento del diritto di Israele di esistere», ha riferito il portavoce di Netanyahu con una serie di tweet. «Voglio chiarire una cosa a tutti – ha proseguito il premier – La sopravvivenza di Israele non è negoziabile. Israele non accetta un accordo che consente ad un paese che vuole annientarci di sviluppare armi nucleari». Netanyahu, a questo proposito, ha ricordato che solo due giorni fa «nel mezzo dei negoziati di Losanna il comandante della forze di sicurezza Basij in Iran ha detto:«La distruzione di Israele non è negoziabile».
Rohani: «Tutti rispettino le promesse e onoreremo gli accordi»
Venerdì pomeriggio ha preso la parola il presidente iraniano Hassan Rohani che, in una conferenza stampa, ha parlato di «giorno storico», ricordando: «Tutto il mondo deve pensare che l’accordo di Losanna soddisferà tutte le parti. L’intesa inaugurerà una nuova fase nei rapporti tra l’Iran ed il mondo intero». Non per questo Teheran accetta di essere stata chiamata al tavolo per la sofferenza imposta dalle sanzioni: «Non ci erano state imposte per portarci a trattare: il loro scopo era far arrendere l’Iran». Inoltre, un avviso: Se il gruppo 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania) «rispetterà le promesse, anche l’Iran lo farà. Se sceglierà strade diverse, altre opzioni potranno essere valutate».

SCHEDA – L’INTESA PUNTO PER PUNTO

I punti più importanti dell’intesa.
– Il “5+1” (Usa, Francia, Regno Unito, Germania, Cina e Russia) e l’Iran hanno trovato l’accordo sulla sospensione di oltre i due terzi della attuale capacità di arricchimento dell’uranio del programma di Teheran, accompagnata da 10 anni di monitoraggio.
– La maggior parte delle riserve di uranio arricchito dell’Iran dovrà essere diluita (degradata a un livello di purezza inferiore all’attuale) o trasferita all’estero.
– L’Iran manterrà dunque 6104 delle attuali 19mila centrifughe e si impegnerà a non arricchire l’uranio oltre il 3.67 per cento per almeno 15 anni.
– L’Iran, inoltre, si impegna a ridurre il suo attuale stock di 10mila chili di uranio arricchito a non più di 300 chili, arricchiti al massimo al 3,67 per cento.
– Le centrifughe in eccesso e le strutture per l’arricchimento saranno poste sotto il controllo della Aiea e saranno utilizzate solo per fornire ricambi.
– Dopo i primi 10 anni di monitoraggio, le attività di ricerca e sviluppo continueranno a essere limitate e supervisionate, con le diverse restrizioni sul programma nucleare iraniano che resteranno in vigore per 25 anni.
– In cambio del rispetto di questi vincoli, l’Iran si vedrà gradualmente alleggerire il peso delle sanzioni internazionali.
– Il mancato rispetto dell’accordo porterà automaticamente al ristabilimento delle sanzioni contro Teheran.

Anche con l’accordo sul nucleare, resteranno invece in vigore le sanzioni contro l’Iran per terrorismo, abusi sui diritti umani e detenzione di missili ad ampia gittata. Ed è stato lo stesso ministro iraniano Zarif ha sottolineare come il raggiungimento del risultato sul nucleare non comporti necessariamente una normalizzazione delle relazioni, in particolare con gli Stati Uniti. “Le nostre relazioni con gli Usa non hanno niente a che vedere con questo. Ci dividono tante differenze e nel passato abbiamo eretto una reciproca diffidenza. La mia speranza è che, con la coraggiosa implementazione di questo accordo, si possa recuperare un po’ di quella fiducia. Non ci resta che aspettare e osservare”. Da parte sua, il segretario di Stato Kerry ha sottolineato come gli Usa siano ancora “preoccupati per le attività di destabilizzazione” messe in atto dall’Iran in Medioriente. E ha rivolto un appello alle autorità di Teheran: “rilasciare gli americani detenuti nelle celle iraniane”




LIBIA – A Parigi, riunione dei ministri degli Esteri del gruppo Med. Scaroni:”Sostegno ai Paesi vicini, soprattutto all’Egitto”

Il caos Libia e le nuove minacce Isis, oggi a Parigi riunione dei ministri degli Esteri del gruppo Med, con Gentiloni, mentre dagli Stati Uniti l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, assicura che sta arrivando arrivato un sostegno forte alla mediazione che sta conducendo l’inviato speciale del segretario generale dell’Onu, Bernardino Leon, per un governo di unità nazionale” in Libia. Sul territorio la situazione resta grave: tre autobomba sono esplose ad Al Qubah una cittadina nell’est della Libia causando danni e anche “perdite” di vite umane. Una delle esplosioni ha colpito un edificio dei servizi di di sicurezza, precisano le fonti. Al Qubah si trova ad una quarantina di chilometri ad ovest di Derna, la città trasformata in Califfato da jihadisti affiliatisi all’Isis. Intanto migliaia di egiziani sono bloccati, in territorio libico, al valico tunisino di Ras Jedir e non riescono a passare la frontiera per cercare di rientrare nel Paese d’origine. Alcune centinaia di cittadini egiziani (che in precedenza lavoravano in Libia, da dove ora cercano di scappare) sono diretti verso l’aeroporto di Djerba Zarsis, da dove dovrebbe partire un ponte aereo per rimpatriarli.

Renzi, Italia solida contro minacce – “L’Italia è un grande Paese in condizione di affrontare qualsiasi tipo di minacce”. Matteo Renzi utilizza la platea della trasmissione di Rai 2, Virus, per mandare pochi e miratissimi messaggi sul ruolo e la strategia di Roma in merito alla situazione in Libia e ai rischi di attacchi terroristici da parte dell’Isis. “L’Italia è forte ed in condizione di reggere ma non intende avviare avventure belliche”. Il problema va affrontato con “grande decisione” ma senza cedere all’isteria collettiva. “Preoccupazione sì , sottovalutazione della situazione no ma non siamo assediati, non abbiamo quelli con i coltelli dietro le porte”, tranquillizza il premier rimarcando che il problema, per certi versi, non viene dall’esterno ma dall’interno: non a caso – spiega- gli attentatori in Francia e a Copenaghen, sono nativi di quei luoghi. Così come l’Isis non e’ strutturalmente in Libia ma un fenomeno accresciuto anche grazie alle moderne tecnologie di comunicazione, come Internet, per esempio. Da qui la massima esigenza di lavorare diplomaticamente per ottenere il consenso internazionale, quindi anche da parte di paesi come la Cina e la Russia, per giungere ad una soluzione che porti la pace nel paese nordafricano. “In Libia c’è il rischio di un “franchising del terrore con gruppi locali che decidono che la bandiera dell’Isis ha più visibilità” e quindi si uniscono ai jihadisti. Lo ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a Porta a Porta, sottolineando che l’Isis ha un “marchio lugubre dall’alto valore simbolico”.

Paolo Scaroni, vice presidente di Rothschild group e per nove anni numero uno dell’Eni, da profondo conoscitore del Paese nordafricano non ritiene ancora drammatica la situazione, che può essere risolta anche senza un’azione militare dell’Italia e dei Paesi alleati. «Più che immaginare un intervento, mi immagino un forte sostegno ai Paesi vicini, soprattutto l’Egitto». Scaroni ritiene che la missione militare avesse senso tre anni fa. «Sarebbe servito a disarmare tutte le milizie in Libia. Ma al punto in cui siamo, concordo con il premier Renzi, per un intervento servono 100mila uomini».

Obama: “Guerra a terrore non all’ Islam”.

Isis : “Arriviamo a Roma” – “#We Are Coming to Rome”, stiamo arrivando a Roma. La nuova minaccia dell’Isis all’Italia arriva con un hashtag su Twitter, e alimenta le preoccupazioni per la situazione in Libia, sempre più caotica. Una “situazione esplosiva”, come l’ha definita Federica Mogherini, ministro degli Esteri della Ue. Così mentre a New York, nella sede dell’Onu, si lavora incessantemente per trovare una soluzione alla crisi che infiamma la sponda sud del Mediterraneo, a Washington – dove i rappresentanti di 60 Paesi si sono confrontati sulle strategie anti-Isis – il segretario di Stato americano John Kerry si è incontrato per parlare di Libia proprio con la Mogherini e il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukri, alla presenza del numero uno dell’Onu Ban ki-Moon. Proprio l’Egitto, intanto, ha presentato una bozza di risoluzione alle Nazioni Unite che prevede anche l’uso della forza militare in Libia se necessario. Un’opzione che però al momento non sembra essere presa in considerazione, almeno stando alla discussione avvenuta in seno al Consiglio di sicurezza. Discussione che ha rafforzato il fronte dei sostenitori della via diplomatica. La priorità numero uno è quella di mettere insieme le varie fazioni che si confrontano in Libia in un contesto di unità nazionale contro le forze del terrore. Come emerso anche da una riunione a New York dell’Intenational Crisis Group sulla Libia composto da rappresentanti di Usa, Francia, Regno Unito, Italia, Germania, Spagna, Ue e Onu.

Alfano ha parlato della minaccia di infiltrazioni con i barconi di immigrati. “Non c’e’ traccia reale di un nesso tra immigrazione e terrorismo. Ma non si puo’ escludere nulla”. A confermare le sue parole arriva da Londra la notizia che una donna di 25 anni di Birmingham è stata arrestata all’aeroporto londinese di Heathrow appena scesa da un volo in arrivo dalla Turchia ed è stata accusata di terrorismo. Al Qaida, ha detto Obama, “e’ una sfida per il mondo intero, non solo per l’America”. La forza militare non e’ pero’ sufficiente, ha affermato il presidente americano. E’ necessario sconfiggere anche la propaganda, contrastare i terroristi che online “fanno il lavaggio del cervello” ai giovani musulmani. E il mondo islamico si deve mobilitare: “Schieratevi nella lotta contro gli estremisti”, ha detto il presidente rivolgendosi ai leader musulmani. Il Cairo però preme per una risposta muscolare.

L’Egitto non rinuncia però ad esercitare pressioni. C’è il rischio che “barconi pieni di terroristi” arrivino sulle coste italiane, ha avvertito l’ambasciatore egiziano a Londra, Nasser Kamel, mentre il premier libico Abdallah al Thani ha a sua volta affermato che membri dell’Isis e di Boko Haram hanno raggiunto o stanno raggiungendo i gruppi terroristici in Libia, che a loro volta si starebbero avvicinando al confine con la Tunisia. Una figura di spicco dell’Isis in Libia, Abu Arhim al-Libim, afferma invece che l’Isis vuole infiltrarsi sui barconi di immigrati nel Mediterraneo e attaccare le “compagnie marittime e le navi dei Crociati”, almeno stando a dei presunti ‘piani segreti’ contenuti in un documento di cui il think tank anti terrorismo Quilliam di Londra è entrato in possesso. Difficile capire se si tratti di propaganda o strategia. Di certo, ha affermato Obama, è necessario “aiutare il mondo musulmano a sviluppare dei social media che contrastino la propaganda degli estremisti su Internet”, dove “gruppi come al Qaida e l’Isis propagandano una visione della religione respinta dalla stragrande maggioranza dei musulmani”.

Riepilogo

È di «155 combattenti dell’Isis uccisi e 55 catturati» il bilancio del blitz via terra delle forze egiziane a Derna. Lo riferiscono numerosi media egiziani citando le informazioni diffuse da Moustafa Bakry, un influente editorialista. Per il momento l’Esercito egiziano non conferma. Il blitz «è stato condotto da truppe elitrasportate».

Escalation nella guerra egiziana all’Isis in Libia. Forze speciali del Cairo hanno compiuto un’incursione terrestre a Derna, la città dichiaratasi Califfato dell’Isis nell’est del Paese. Lo riferiscono fonti libiche ed egiziane. Le stesse fonti precisano, senza fornire altre dettagli, che nel blitz i militari hanno «catturato 55 elementi del Daesh». Già ieri i media avevano riferito che, dopo i raid aerei l’Egitto stava, prendendo in considerazione attacchi di terra. In particolare era stata evocata la «task force 999», un’unità speciale per operazioni internazionali, da inviare in coordinamento con le forze di sicurezza libiche. E oggi si è registrato il primo attacco via terra.

Almeno cinque civili sono morti sotto i bombardamenti aerei dell’esercito egiziano contro le postazioni dello Stato Islamico, in Libia. Lo riferisce una fonte della sicurezza della citta’ di Bengasi.
Secondo la fonte, tre delle vittime erano bambini e due donne, tutte abitanti della citta’ di Derna, situata a 1.300 chilometri a est di Tripoli. I bombardamenti sono scattati questa mattina all’alba contro obiettivi dell’Isis in Libia, in risposta alla barbara uccisione dei 21 cristiani copti egiziani a Tripoli.
Hollande e Sisi: “Urge riunione consiglio sicurezza Onu”.
Sale dunque la tensione nel paese nordafricano, mentre la notte scorsa sono sbarcati in Sicilia i primi italiani rimpatriati dalla capitale libica, dove la situazione e’ molto critica. Nel video diffuso ieri sulla decapitazione dei copti, i jihadisti dello Stato Islamico hanno minacciato direttamente l’Italia: “Prima ci avete visiti in Siria, ora siamo qui, a sud di Roma”. I bombardamenti dell’Egitto sono stati confermati dalla tv di Stato, dopo che il presidente Abdel Fattah al-Sisi poche ore prima aveva annunciato che l’Egitto si riservava “il diritto di rispondere”. I caccia egiziani hanno colpito campi di addestramento e magazzini di armi.
Alfano da’ l’allarme: “Subito intervento in Libia”.
Intanto il presidente al Sisi ha incaricato il ministro degli Esteri, Sameh Shukri, di andare “immediatamente” a New York per le riunioni necessarie all’Onu e nel Consiglio di Sicurezza e chiedere una reazione internazionale. Secondo Sisi, Shukri porra’ la comunita’ internazionale di fronte alle “sue responsabilita'” perche’ prendano le “misure adeguate” per far rispettare la carta delle Nazioni Unite, tenendo conto che tutto quello che sta succedendo in libia “e’ una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”.
Papa, “Copti assassinati solo perche’ cristiani”.
L’emittente ha citato il comunicato con cui l’esercito del Cairo ha dato l’annuncio: “Le nostre forze armate lunedi’ hanno effettuato attacchi aerei mirati in Libia contro i campi Daesh (l’acronimo in arabo con cui viene indicato l’Isis, ndr.), i luoghi in cui si riuniscono e i campi di addestramento e i depositi di armi”. La tv di Stato ha anche mostrato le immagini degli aerei da combattimenti egiziani che decollavano per andare a compiere i raid. Il comando dell’aviazione del Cairo ha fatto sapere che i caccia egiziani sono partiti all’alba e sono tutti rientrati regolarmente alla base, colpendo campi di addestramento e magazzini di armi del gruppo jihadista. L’aviazione egiziana sostiene di aver colpito tutti gli obiettivi rispettando i piani. Anche i caccia dell’aviazione militare libica, fedele al generale Khalifa Haftar, hanno partecipato ai raid aerei. Lo riferisce l’emittente televisiva al Arabiya.
Intanto saranno trasferiti stamattina a Roma gli italiani rimpatriati dalla Libia e approdati la notte scorsa nel porto di Augusta (Siracusa), accompagnati dall’ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi. Il catamarano noleggiato dal governo italiano ha attraccato a mezzanotte e mezzo e lo sbarco dei nostri connazionali e’ avvenuto in un’area circondate dalle forze dell’ordine, che hanno tenuto a distanza i giornalisti. Solo un siciliano, un tecnico di Siracusa, e’ uscito dal porto ed e’ stato possibile avvicinarlo. Ai cronisti ha detto che “la situazione a Tripoli e’ critica”, e alla domanda se nella citta’ ci fosse gia’ l’Isis ha risposto: “Questo lo dice pure la televisione”. Dopo la notte in Sicilia, per i rimpatriati stamattina il trasferimento a Roma con un volo dell’Aeronautica militare dalla base di Sigonella, nei pressi di Catania.

Una Libia politicamente spaccata in due e attraversata da milizie armate e jihadisti che con l’Is sono avanzati nelle ultime settimane da est a ovest. Questa  la mappa delle forze in campo.

JIHADISTI IS – È stata Derna, ex provincia dell’Italia coloniale sulla costa orientale del Paese, la prima città libica a giurare fedeltà allo Stato islamico e al califfo Abu Bakr al Baghdadi, lo scorso autunno. Inizialmente circoscritta a Derna, con poche centinaia di uomini tra cui iracheni e yemeniti e campi di addestramento sulle Montagne verdi della Cirenaica, la presenza dei jihadisti si è spostata nelle scorse settimane a Tripoli, dove il 27 gennaio ha compiuto un sanguinoso attacco all’hotel Corinthia. Di pochi giorni fa, la notizia dell’ingresso di uomini di Baghdadi a Sirte e in altre località dell’ovest del Paese.

ANSAR AL SHARIA (alleati Is) – Nati sulle ceneri della rivolta del 2011 di ispirazione qaedista, i Partigiani della Sharia oggi alleati dell’Is controllano le città di Bengasi e di Sirte. Sono ritenuti responsabili dell’attacco al consolato Usa a Bengasi dell’11 settembre 2012 in cui morì l’ambasciatore americano Chris Stevens e altri tre statunitensi. Il gruppo è inserito nella lista nera di Usa e Onu delle organizzazioni terroristiche.

FORZE REGOLARI E GOVERNO LEGITTIMO a Tobruk – In Cirenaica, a Tobruk e Baida, si è autoesiliato in agosto per motivi di sicurezza il governo transitorio di Abdullah al Thani, espressione della Camera dei rappresentanti, il parlamento eletto il 25 giugno scorso, entrambi riconosciuti come legittimi dalla comunità internazionale. Il governo Al Thani è sostenuto dalle forze regolari libiche, nelle cui file è stato riassorbito l’ex generale Khalifa Haftar, che da mesi guida l’operazione militare Dignità contro Ansar al Sharia a Bengasi e Is a Derna, e quella contro le milizie filo-islamiche della coalizione Fajr Libya (Alba della Libia) a Tripoli. A fianco delle istituzioni di Tobruk si sono schierati l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, entrambi indicati come responsabili di raid aerei sulle milizie di Tripoli sin dall’estate del 2014.

FAJR LIBYA E GOVERNO PARALLELO (islamista) a Tripoli – Dopo la battaglia di agosto contro i rivali di Zintan (oggi fedeli a Tobruk) per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, Fajr Libya (principalmente composta dagli ex ribelli di Misurata) ha imposto nella capitale un governo parallelo, denominato “di salvezza nazionale” e guidato da Omar al Hassi, esponente dei Fratelli musulmani, appoggiato dalla Turchia. Le milizie hanno riportato in vita anche il Congresso nazionale libico, l’ex parlamento il cui mandato è scaduto da tempo. Il 6 novembre scorso una contestata sentenza della Corte Suprema ha definito “illegittimo” il parlamento di Tobruk e il suo governo. Il Qatar è stato accusato di fornire armi e approvvigionamenti alle milizie filo-islamiche e di condurre una “guerra per procura” contro gli Emirati.




IRAQ – L’Isis elimina anche il pilota giordano

Muaz Kassasbeh, il pilota giordano catturato nei giorni scorsi dai miliziani dello Stato islamico (Isis) a nord della Siria, è stato ucciso, come annunciato tre giorni fa dagli islamisti. Le forze speciali americane, appoggiate da massicci raid aerei, non sono riuscite a raggiungere la casa, a 20 chilometri da Raqqa, dove era tenuto prigioniero. Per due volte gli elicotteri hanno provato a superare il fuoco di sbarramento delle anti-aeree dei miliziani. Senza successo.

A quel punto, come ha riferito per prima la tv satellitare siro-iraniana Al Mayadin, il pilota, 26 anni, sarebbe stato ucciso. Kassasbeh era stato catturato alla vigilia di Natale dopo che il suo jet F-16 era precipitato nei dintorni di Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Martedì la rivista degli Islamisti, «Dabiq», aveva pubblicato una sua foto con la tuta arancione dei prigionieri e una lunga «intervista» . Il pilota confermava di essere stato abbattuto con un missile terra-aria, come sostenuto dagli islamisti. Stati Uniti e Giordania hanno smentito che l’aereo fosse stato colpito.

Subito dopo la cattura gli islamisti avevano dato molto risalto sul Web all’abbattimento, il primo di un cacciabombardiere occidentale, e postato le foto del pilota appena catturato, che con aria spaventata mentre veniva spinto verso la sua prigione da un gruppo di jihadisti. Sempre sul Web gli jihadisti avevano chiesto ai loro seguaci «suggerimenti» su come giustiziarlo.

Secondo fonti israeliane e statunitensi, gli elicotteri che hanno tentato i blitz si sono trovate di fronte a un fuoco di sbarramento «spaventoso» e il rischio di vedere un velivolo abbattuto era troppo alto. Uno scenario che ricordava «Black Hawk Down», il film di Ridley Scott sulle forze speciali americani intrappolate nell’inferno di Mogadiscio. E la conferma che le difese attorno Raqqa sono state rafforzate: in città è probabilmente tornato il califfo Abu Bakr al Baghdadi, dopo un periodo trascorso a Mosul, in Iraq.




UCRAINA – Perdita radioattiva scoperta nell’impianto nucleare Zaporizhia

Il livello di radiazione sarebbe 16 volte superiore al limite legale. Una perdita radioattiva è stata scoperta nell’impianto nucleare Zaporizhia, nel sudest dell’Ucraina. Lo riferisce Russia Today, citando media locali. Secondo la rilevazione, il livello di radiazione sarebbe 16 volte superiore al limite legale. Si tratta della più grande a livello europeo e la quinta al mondo. Non è la prima volta che nella centrale si riscontrano incidenti: uno degli ultimi è avvenuto il 28 novembre scorso, ma il fatto è stato reso pubblico sono cinque giorni dopo, quando il primo ministro ucraino lo ha rilevato nella sua prima sessione del nuovo gabinetto.

Scrive il deputato 5 Stelle Dario Tamburrano:

Secondo incidente in un mese nella stessa centrale nucleare in Ucraina, la più grande d’Europa (denunciai il primo incidente il 3 dicembre 2014 durante un intervento proprio sulla sicurezza energetica in Commissione a Bruxelles). E il motivo sembrerebbe che siano state sostituite le barre di uranio di provenienza sovietica a sezione esagonale con quelle di fabbricazione USA (Westinghouse) a sezione quadrata.