Il voto in Turchia. La diretta al centro culturale curdo di Roma
Nel primo pomeriggio del 24 giugno il centro culturale Ararat si comincia a riempire. Pane, frutta e piatti mediorientali occupano la tavola dove è riunita la comunità curda di Roma. Mentre i bambini giocano a biliardino o si rincorrono nel cortile e gli adulti sorseggiano il çay bollente appena versato, il collegamento con la televisione turca inizia a mandare le prime notizie. Tutti i presenti hanno il fiato sospeso.
Nel frattempo, dall’altra parte del Mediterraneo, la popolazione turca sta votando per le elezioni parlamentari e presidenziali anticipate, indette dal presidente uscente Recep Tayyip Erdogan per frenare il calo di consensi che la sua politica di odio sta affrontando. «Se oggi cambiano le cose in Turchia, forse potremo finalmente tornare a casa», dicevano commosse alla vigilia delle elezioni alcune donne curde che vivono in Italia con lo statuto di rifugiate politiche.
Prima di indire le elezioni, per assicurarsi di rimanere al governo, Erdogan ha scritto una Costituzione che trasforma la Turchia in Repubblica presidenziale con un enorme potere in mano a un solo uomo, capo dello Stato e dell’esecutivo, ridimensionando di molto il ruolo del Parlamento. Tutt’altro che democratica è anche la legge elettorale turca, che presenta una soglia di sbarramento al 10%, la più alta al mondo, e i seggi che spetterebbero ai partiti che hanno mancato il quorum vengono attribuiti d’ufficio alla lista di maggioranza relativa (che è il partito di Erdogan); la legge prevede la possibilità di formare coalizioni di più partiti che si presentino separati alle parlamentari ma con un unico candidato alle presidenziali.
Questa campagna elettorale è stata segnata da toni violentissimi. La faccia di Erdogan era presente su ogni muro del Paese, i suoi slogan citavano Dio e accusavano di terrorismo gli avversari e in particolare il popolo curdo. Per ottenere consensi ha attaccato la città curdo-siriana di Afrin e poi i villaggi curdo-iracheni del Qandil, muovendosi fuori dal proprio territorio e dal diritto internazionale. Era chiaro che il dittatore turco avrebbe fatto qualunque cosa pur di vincere la sfida.
Quando inizia lo spoglio delle schede la tensione è alta.
A effettuare lo scrutinio non sono persone indipendenti ma un’agenzia legata al partito di governo. Tramite gli osservatori internazionali (molti dei quali legati a Rete Kurdistan) arrivano notizie di brogli e violenze. Si parla di cinque italiani arrestati senza un’accusa chiara, di diecimila soldati inviati nelle zone a maggioranza curda, di schede sparite e altre truccate e di rappresentati di lista aggrediti. In alcuni seggi del Bakûr (il Kurdistan turco) l’esercito ha tolto le cabine elettorali e costretto i cittadini e le cittadine a votare apertamente davanti ai soldati in armi e un elicottero ha portato via urne piene di schede votate.
Ararat, fila di bandiere
Il clima ad Ararat è teso. Sono presenti ovunque le bandiere dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, la principale opposizione al regime turco.
La prima notizia che arriva è un duro colpo per chi sperava di poter tornare in Turchia da cittadino libero: con il 52% di voti della sua coalizione, Erdogan è di nuovo presidente.
Non tutti i dati sono attendibili per via dei brogli, risulta addirittura che Erdogan abbia vinto in città che hanno sempre sostenuto la guerriglia del PKK. Arrivano informazioni di numeri poco credibili. Le sorti dell’HDP sono ancora incerte, in condizioni normali potrebbe superare il 20%, ma con i voti che spariscono nel nulla è difficile fare previsioni attendibili. Alle presidenziali Selahattin Demirtaş, leader dell’HDP e fondatore della sezione turca di Amnesty International, candidato alla presidenza dal carcere in cui è rinchiuso da mesi, risulta essersi attestato all’8%. Far sparire l’HDP dalle istituzioni è il sogno del dittatore turco. I deputati e le deputate dell’HDP, che hanno sempre difeso i diritti umani e la causa curda, sono in carcere, accusate da Erdogan di avere legami con il PKK, ma la magistratura turca non ha mai emesso una condanna nei loro confronti.
Nel tardo pomeriggio all’improvviso un forte applauso scuote l’aria sotto la tettoia del centro Ararat. Secondo le ultime proiezioni, l’HDP ha superato lo sbarramento con l’11,2%, ottenendo così quei 66 deputati sufficienti per strappare la maggioranza all’AKP di Erdogan. Qualcuno alza il pugno e sorride, qualcuno telefona ai parenti rimasti in Bakûr, qualcun altro porta un vassoio pieno di bicchieri di çay. Quando vengono proiettati i risultati di Diyarbakir (una delle principali città curde) si sente esclamare Her bijî! (evviva!): nonostante i brogli l’HDP risulta aver ottenuto oltre il 65% dei voti locali. Alle elezioni parlamentari il partito di governo AKP si ferma al 42%, ben lontano dalla maggioranza assoluta cui puntava.
Oltre all’HDP, all’opposizione parlamentare vi è anche il CHP, moderato partito kemalista nazionalista ma laico, non certo filocurdo ma comunque ostile alla esasperata islamizzazione della Turchia che Erdogan sta portando avanti. È rimasta invece fuori dal Parlamento la candidata ultranazionalista Akşener, anch’essa temuta e odiata dal popolo curdo.
Persino i bambini interrompono i loro giochi e guardano lo schermo che mostra il nuovo Parlamento turco, dove il giallo dei conservatori occupa adesso meno di metà dell’emiciclo. Ora il vincitore solo formale, rimasto in realtà senza una maggioranza, non può più fare il bello e il cattivo tempo da solo. La Costituzione gli dà la possibilità di governare attraverso decreti d’emergenza, ma questi dovranno comunque confrontarsi con un potere legislativo non più asservito all’esecutivo. E, per poter stipulare accordi che gli permettano di governare, il presidente dovrà comunque rinunciare a parte del suo autoritarismo.