C’è una storia vecchia più di cent’anni che ancora oggi srotola un gomitolo di solidarietà femminile.
Era il 25 Marzo 1911 a New York, una giornata di primavera tiepida e soleggiata, quando alle 16,30, finito il massacrante turno di lavoro, più di cinquecento operaie, per lo più giovanissime, si accingevano a ricevere la paga della settimana e pregustavano già il giorno di meritato riposo.
Ad un tratto nell’Asch Building all’ottavo, nono e decimo piano, dove era ubicata la Triangle Shirtwaist Company, fabbrica di camicette alla moda, scoppiò un incendio. E fu l’inferno: fiamme e fumo s’impadronirono di quelle giovani vite che, disperate, tentarono invano la fuga. Le ragazze giravano impazzite come in una macabra giostra, correvano da una finestra all’altra tentando di respirare, portavano i loro manicotti alla bocca per non soffocare. Si udivano grida di disperazione in tante lingue diverse: erano operaie emigrate provenienti dall’Italia, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Romania, dall’Austria, dall’Ungheria…
Alcune restarono impietrite: gli occhi pieni di terrore, le labbra che non riuscivano ad articolare alcun suono. Ferme, aspettarono di diventare cenere. Quelle che si erano accalcate davanti le finestre, quando il fuoco iniziò a lambire le loro lunghe gonne nere, si gettarono nel vuoto. E fu una terribile pioggia di vite che si schiantavano al suolo.
Centoquarantasei vittime di cui centoventinove donne.
Così finì il loro sogno americano, in fumo tante piccole certezze appena conquistate, tanti piccoli agi strappati a forza alla miseria, alla povertà, agli stenti della terra natia.
Così si spense per sempre la loro speranza.
Così finì il coraggio che aveva loro permesso di attraversare l’oceano sfidando pregiudizi, sorte e paure.
Lunghe gonne, camicette bianche e tra i capelli forcine e qualche fermaglio: giovani donne, in alcuni casi bambine, a cui fu rubato tutto. Un furto, un ratto dell’ingordigia umana, della corsa sfrenata verso il profitto a tutti i costi.
Ma il loro sacrificio non fu vano e il filo del gomitolo di solidarietà iniziò a dipanarsi.
Altre donne, combattive e determinate, con le loro lotte riuscirono ad ottenere nuove leggi che migliorarono notevolmente le condizioni lavorative nelle fabbriche.
Rose Schneiderman, emigrata dalla Polonia, era un’attivista sindacale socialista. Parlava agli angoli delle strade, sui palchi, ai microfoni delle radio: il suo scopo era sensibilizzare le donne a una maggiore consapevolezza dei loro diritti come lavoratrici. Le incitava a iscriversi ai sindacati di settore. Dopo l’incendio del 1911 il suo impegno diventò ancora più pressante e suffragette, associazioni di donne, studentesse, in nome di “una sacra solidarietà femminile” si batterono per ottenere leggi migliori.
Anche Francis Perkinson, testimone casuale di quella tragedia, giurò solennemente a se stessa che avrebbe dedicato la sua vita affinché simili tragedie non si verificassero più. Diventò Segretaria del Lavoro negli USA, sia durante la presidenza Roosevelt che in quella successiva di Truman: prima donna al mondo a ricoprire questa carica. Grazie a lei furono introdotte tutte le leggi che miglioravano il lavoro femminile. Francis è stata per lungo tempo ignorata anche dai libri di storia americana. Per tutta la vita ripeté: “Dopo tutto quello che è successo mi resi conto del valore sacro della vita di un lavoratore, capii come le condizioni precarie della sicurezza potevano uccidere come un fucile”.
Da quel rogo si salvò l’operaia Rose Rosenfeld Freedman che riuscì a salire sul tetto del decimo piano. Rose accusò sempre i proprietari di avere ucciso le sue colleghe. Denunciò che le porte che avrebbero consentito la fuga erano tutte chiuse a chiave. Disse che volevano pagarla affinché, durante il processo, cambiasse la sua versione: lei, indignata e fiera, rifiutò, nessuna ricchezza al mondo avrebbe potuto comprare la sua dignità.
Tante, tante donne per le donne. Per quelle operaie di un secolo fa l’impegno fu grande, per non vanificare la loro atroce morte.
Con il passare dei decenni, pareva che il filo di solidarietà si fosse interrotto, che su quelle sfortunate operaie fosse calato per sempre l’oblio. Invece il caso ha deciso che in Italia iniziasse una ricerca per attribuire alle vittime il loro vero nome, la composizione del loro nucleo familiare, il paese di provenienza. Delle 38 italiane perite oggi si sa con certezza che due erano nate in Basilicata, cinque in Puglia, una in Campania e ben ventiquattro in Sicilia. Quest’isola allora piena di luce e di fame aveva pagato il tributo più alto. Le povere vittime sono rinate dai fogli ingialliti dei registri dell’anagrafe di tanti comuni.
Così tante donne di oggi hanno ripreso in mano il filo di quel vecchio gomitolo. Tante addette ai servizi demografici si sono appassionate alla ricerca. Tante docenti hanno raccontato a studenti e studentesse questo tragico evento. Tante improvvisate attrici, indossando una camicetta bianca le hanno impersonate. Tante giornaliste ne hanno divulgato la storia.
Con tenerezza e affetto migliaia di donne, in ogni angolo d’Italia, le hanno adottate e riconsegnate alla Storia.
Accogliendo la richiesta dell’associazione Toponomastica femminile, oggi molte vie sono state loro intitolate e alcune targhe commemorative renderanno indelebile il loro ricordo.
E quando questo gomitolo di solidarietà si sarà interamente srotolato, resterà, per sempre, scolpito nella pietra, il loro fugace passaggio a memoria e monito.
Così da quel lungo filo è nata una preziosa trama, intrecciata dalle donne.
Donne, da sempre, tessitrici di memorie.