Galleria Borghese: Le artiste presenti nella collezione (quarta e ultima parte)

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Purtroppo sono solo tre le artiste presenti in galleria e le loro opere sono esposte nei depositi, concepiti come una vera quadreria. Nel 2005, grazie al contributo di Credit Suisse, al terzo piano della palazzina si è concluso l’allestimento di una “seconda pinacoteca”, uno spazio aperto regolarmente al pubblico (per un’ora e in alcuni giorni della settimana), dove è conservata quella parte della collezione che non trova posto nei piani sottostanti. Nel grande ambiente dei depositi sono esposti, su due livelli, circa 260 dipinti. 

Lavinia Fontana – “Minerva nell’atto di abbigliarsi” (1613) 

ll salone centrale è dominato dalla grande tela di Lavinia Fontana raffigurante Minerva in atto di abbigliarsi. Della stessa autrice altre due opere.

Fig.1: Lavinia Fontana, Minerva nell’atto di abbigliarsi

E’ l’ultima opera della pittrice bolognese e fu eseguita per il cardinale Scipione Borghese, che l’acquistò direttamente dall’artista o dai suoi eredi. La dea, longilinea e casta, è rappresentata in piedi, in atto di abbigliarsi con un vestito di foggia femminile, per lei inusuale, dopo aver dismesso le armi, mentre un puttino le tiene l’elmo, suo inconfondibile attributo iconografico. Un morbido colore accarezza le forme del corpo contribuendo alla sua sensualità. Da notare la preziosità delle stoffe, e uno squarcio di paesaggio che si intravede sul fondo, al di là di una balaustra, su cui poggia una civetta, animale sacro alla dea.

Lavinia Fontana – Il sonno di Gesù, 1591

Fig.2: Lavinia Fontana – Il sonno di Gesù

E’ una delicata rappresentazione della Sacra Famiglia, a cui l’artista ha aggiunto Sant’Elisabetta, nell’atto di reggere san Giovannino, il quale, con l’indice sulla bocca, ci invita al silenzio. Il Bambino dorme, vegliato dalla Vergine e da San Giuseppe. E’ proprio la sensibilità femminile dell’autrice che riesce a rendere una versione intima e familiare di un tema più che abusato in arte.

Lavinia Fontana – Ritratto di giovane

Fig.3: Lavinia Fontana – Ritratto di giovane

Colpisce l’espressività dello sguardo del giovane che, girando di scatto la testa, assume una posa vivace e spontanea. Una massa di capelli riccioluti e liberi incornicia un viso paffuto.

Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614), figlia del pittore manierista Prospero Fontana, venne avviata alla pittura dal padre nella sua bottega, dove conobbe grandi artisti come i Carracci e Giambologna. Si è formata sullo studio delle opere di Raffaello e Michelangelo, con influssi della scuola fiamminga, soprattutto nell’interesse per il paesaggio. Tutto suo è invece il colore morbido e sensuale. Ci ha lasciato l’immagine di una donna onesta, moglie e madre, istruita alla luce del sapere umanistico, che si dedica alla pittura, alla musica e alla lettura.

Lavinia si sposò a venticinque anni, ma una delle condizioni poste dalla ragazza fu di poter continuare a dipingere anche da sposata; il marito, anch’egli pittore ma poco dotato, abbandonò la sua carriera per supportare la moglie diventandone l’assistente. Nonostante la professione, ebbe ben undici figli, di cui solo tre sopravvissero. 

Famosa come ritrattista, cercava di sondare la psicologia dei personaggi attraverso la fisionomia. Si cimentò anche in pale d’altare e soggetti mitologici.

Tra il 1603 e 1604 si trasferì a Roma, dove lavorò per le famiglie nobiliari più in vista della città ed ebbe la protezione del papa Gregorio XIII che la nominò La Pontificia Pittrice.

Nel 1613 venne colta da una crisi mistica che le fece decidere di ritirarsi, assieme al marito, in un monastero, dove morì l’anno seguente.

Fig. 4: Fede Galizia – “Giuditta con la testa di Oloferne” 

Fede Galizia – “Giuditta con la testa di Oloferne” (1601)

Il soggetto è tratto dalla vicenda che narra dell’assedio della città di Betulia da parte del re Nabucodonosor, sovrano di Babilonia dal 604 al 562 a.C. Giuditta, giovane vedova ebrea, s’introduce nel campo nemico e dopo aver avvicinato e sedotto con la sua bellezza il comandante Oloferne, lo decapita nel sonno, preservando la propria virtù. Il mattino, alla scoperta del corpo decapitato del comandante, i nemici scappano in disordine e lasciano libera Betulia. Giuditta diventa l’eroina che salva la patria, è la donna, simbolo di debolezza, che vince il nemico forte, violento. 

L’attenzione della pittrice non cade sulle potenzialità drammatiche della scena, come succederà nella Giuditta di Artemisia Gentileschi, da lì a qualche anno, piuttosto sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, derivata dalla sua attività miniaturistica. La pittrice si è interessata di questo soggetto più volte, esistono, infatti, quattro esemplari simili, gli altri tre sono nel Ringling Museum of Art, di Sarasota in Florida, nella Galleria Sabauda di Torino e in una collezione privata milanese. L’artista fece tesoro degli insegnamenti del padre costumista, aggiungendovi una sbrigliata fantasia personale di creatrice di stoffe e gioie: ogni singola immagine “prova” un diverso modello di sartoria e una diversa acconciatura. E’ probabile che aiutasse il genitore nella creazione di modelli per feste e nella produzione di abiti. La Giuditta della Galleria Borghese è la seconda versione del tema, sicuramente autografa (la firma è sulla spada). Rispetto alla versione americana la Giuditta Borghese volge lo sguardo a sinistra, anziché verso lo spettatore, che è quindi meno coinvolto. Si ritiene che Giuditta sia un autoritratto della giovane pittrice. Le artiste amavano presentarsi nelle vesti dell’eroina biblica per sottolineare la propria forza e la propria autonomia rispetto al mondo maschile. 

Fede Galizia (Milano/Trento, 1574/78 – Milano, 1630)

Figlia di un pittore di miniature, Nunzio, originario del Trentino, sin da piccola si trasferì a Milano, tanto che alcuni la danno nata a Milano. Apprese dal padre l’arte pittorica, protetta nella sua bottega. Le figlie d’arte avevano scarse possibilità di movimento poiché il loro onore era considerato più importante dell’abilità pittorica. Le difficoltà per le artiste non erano poche. Vivevano all’interno degli spazi dello studio, avevano una scarsissima mobilità, non partecipavano mai, nel caso il padre o i fratelli lavorassero anche nell’ambito della pittura murale, a cantieri. Fede fu precocissima, già all’età di dodici anni era considerata un’artista formata. Realizzò alcune pale d’altare, ritratti, ma fu soprattutto considerata per il genere della natura morta autonoma, cioè come soggetto non inserito in altre composizioni. Le sue still life sono caratterizzate generalmente da eleganti alzate con frutta, resa con straordinario realismo e morbidezza. Se ne conoscono una dozzina realizzate dall’artista, nella maggior parte delle quali, accanto ai frutti, figurano animali vivi o morti, per lo più uccelli.  Hanno un’impostazione seriale: un piano d’appoggio inquadrato da vicino, quasi sempre frontale, su sfondo cupo; frutti e fiori – pesche, pere e gelsomini, per lo più – trattati con un gusto geometrico della forma. Nature morte “attente, ma come contristate”, le definì lo storico dell’arte Roberto Longhi. 

Il genere della natura morta era molto diffuso tra fine cinquecento e inizio seicento. Fede conosceva le opere di Arcimboldi, ma anche la Canestra di frutta di Caravaggio (all’epoca a Milano) dalla quale verrà molto influenzata. Le nature morte non sono decisive o preponderanti nella sua produzione in realtà molto varia, sebbene i critici abbiano puntato molto su questa parte delle sue opere. 

L’artista preferì la pittura al matrimonio, che l’avrebbe sicuramente allontanata dall’attività, e rimase pertanto nubile. Morì nel 1630, durante l’epidemia di peste, quella raccontata da Manzoni nei Promessi sposi. 

Elisabetta Sirani – Lucrezia

Fig. 5: Elisabetta Sirani – Lucrezia

In questo dipinto è rappresentata l’eroina romana Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino. La donna, famosa per la sua bellezza e le sue virtù, secondo un racconto di Tito Livio, durante l’assedio della città di Ardea, fu stuprata dal figlio del re etrusco, Tarquinio il Superbo. Non potendo sopportare la vergogna, si uccise con un pugnale. La figura di Lucrezia è stata un soggetto molto diffuso nell’arte tra ‘500 e ‘600, dove veniva considerata come simbolo di forza, valore e fedeltà.

In questo dipinto della Sirani, su un fondo scuro emerge il bellissimo busto di Lucrezia, seminuda, con un lenzuolo bianco che le copre le spalle e i fianchi, lasciandole scoperto il seno. Rivolgendo gli occhi al cielo, sta per afferrare il pugnale con cui si darà la morte. L’espressione è estatica, rassegnata.

È la storia di un ennesimo stupro, e Lucrezia nei secoli è additata a esempio per le donne: meglio morte che disonorate. Il messaggio che si trasmette è sempre lo stesso: le donne virtuose sanno difendere il proprio onore, anche a costo della vita, e nella castità consiste tutto il loro valore. 

Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 – Bologna, 1665) 

(Foto di copertina)

Anche lei figlia d’arte: il padre, Giovanni Andrea Sirani, era un affermato pittore bolognese, primo assistente di Guido Reni. Elisabetta studiò con le due sorelle alla scuola paterna, dove già all’età di diciassette anni dimostrò grande talento realizzando alcuni ritratti. A ventiquattro anni era alla guida della bottega del padre, impossibilitato a proseguire l’attività, perché gravemente malato.

Nonostante la morte prematura, a ventisette anni, ha lasciato circa duecento opere, realizzate nell’arco di dieci anni. Era nota per la velocità del suo pennello: tratteggiava i soggetti con schizzi veloci e poi li perfezionava con l’acquarello; specializzata in rappresentazioni  sacre (in particolare Madonne) o di natura allegorica, nonché in ritratti di eroine bibliche o letterarie, realizzò anche apprezzate incisioni all’acquaforte ricavate in genere dai suoi quadri. Con l’attenuarsi delle influenze dei suoi maestri, Elisabetta sviluppò progressivamente uno stile proprio, più naturalistico e realistico.

In un ambiente dove il predominio maschile mal tollerava la presenza di protagoniste femminili, Elisabetta eseguì in pubblico una parte delle proprie opere, soprattutto per allontanare qualsiasi sospetto sull’autenticità delle stesse. Brillante “manager” di se stessa, firmava sempre i suoi dipinti, quando ancora firmare le proprie opere non era una consuetudine diffusa. Tra i suoi estimatori figuravano nobili e artistocratici, ecclesiastici, alcuni membri della famiglia Medici, la duchessa di Parma e quella di Baviera.

Elisabetta divenne una delle figure principali di quel movimento pittorico seicentesco noto come Scuola Bolognese, o scuola delle donne, che faceva capo a Lavinia Fontana. La sua bottega aveva solo allieve, e oltre alle pittrici vantava personalità come Lucrezia Vizzana, cantante, organista e compositrice di musica sacra.

Bologna fu nel ‘600 la più prolifica officina italiana di artiste donne, che poterono esprimersi così efficacemente anche grazie alla protezione dei rispettivi padri. Vi si respirava un clima culturale e sociale aperto e vivace, anche economicamente era una città florida, sede di lavorazioni che la resero famosa in tutta Europa. Fra i prodotti principali, spiccavano i filati di seta prodotti da un mercato interno. Per questo, nel grigio panorama degli Stati della Chiesa negli anni della Controriforma, la città rappresentava una straordinaria eccezione. Le donne vi godevano di una particolare considerazione, e ricoprivano cariche importanti sia in ambito civile che in quello religioso, e ricevevano adeguato sostegno tutte quelle artiste che avessero dimostrato talento. 

Elisabetta dedicò tutta la sua breve vita al lavoro. E forse fu lo stress da superlavoro a causarne la morte prematura. Per lungo tempo dopo la sua scomparsa circolò la voce che fosse stata avvelenata dall’allieva Ginevra Cantofoli, gelosa della sua bellezza e sua rivale in amore. Furono sospettati della sua morte anche il padre, forse mosso da invidia nei confronti della figlia, e la domestica.  Nessuno dei tre indagati fu però accusato formalmente e la pittrice fu dichiarata morta a causa di un’ulcera perforante. 

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Laureata in Lettere moderne con indirizzo storico-artistico alla Federico II di Napoli, è stata docente di Storia dell’arte nei licei dal 1976 al 2010. Socia cofondatrice e vicepresidente di Toponomastica femminile, è tra le organizzatrici e le relatrici dei convegni nazionali, allestisce mostre fotografiche e documentarie sulle attività femminili, pubblica articoli sulle stesse tematiche per giornali on line e riviste cartacee, segue i progetti didattici dell’associazione e presiede la giuria nel concorso nazionale “Sulle vie della parità”.