Passeggiata nel Padule

0
1226
image_pdfimage_print

Il termine “padule”, variante toscana di palude, è presente in senso letterale o figurato negli scritti di alcuni suoi autori – Boccaccio, Carducci, Collodi – e lo si ritrova spesso  tra i toponimi dell’Italia centrale, ove ha dato nome a strade (nel grossetano), frazioni (Sesto Fiorentino e Gubbio) e aree naturali: Pian d’Alma, Trappola, Diaccia Botrona, Scarlino (provincia di Grosseto); Orti-Bottagone, Bolgheri, Suese e Biscottino (provincia di Livorno); Massaciuccoli (LU) e Fucecchio.

Quest’ultima area, seppur ridotta rispetto all’omonimo ambiente che occupava un tempo gran parte della Valdinievole, rappresenta oggi la più estesa palude interna del Paese, condivisa tra le province di Firenze, Prato, Pistoia, Lucca e Pisa: poco meno di 2.000 ettari, in gran parte protetti, ospitano peculiarità floristiche, faunistiche e paesaggistiche di grande interesse.

Vi sopravvivono, infatti, rare piante flottanti – come la carnivora erba vescica, le ninfee dai fiori gialli, le felci natanti (erba pesce o salvinia) – associate a specie di clima caldo-umido (morso di rana e felce reale) e a specie nordiche, come i muschi sfagni e le grandi carici, che formano tipici isolotti di canne, lavorate un tempo dalle donne del luogo.

La raccolta delle erbe palustri, infatti, per tutta la prima metà del Novecento è stata una delle principali attività delle donne locali. Tra le piante più ambite c’erano la sala,che andava a ricoprire i fiaschi di vetro, e il sarello, destinato all’impagliatura delle sedie.

Foto 1.  Monsummano Terme – Lavorazione del sarello, 1920 – A.F.F.

Scrive Laura Candiani nel volume Tracce, storie e percorsi di donne.La Valdinievole  (Universitalia, 2018).

Quest’area – attraversata da numerosi corsi d’acqua – punto di passaggio ma anche di sosta e ripopolamento per tante specie di uccelli, fino agli anni Cinquanta del XX secolo era soprattutto una fonte inesauribile di cibo e di lavoro per le popolazioni di “padulini” (o padulani), sia mezzadri sia povere genti contadine costrette alla sussistenza.  Grazie al Padule si poteva sopravvivere e molti compiti erano riservati alle donne, talvolta anche ai bambini. Alcune anziane raccontano ancora di materassi imbottiti con cartocci di mais, di tetti così sguarniti per cui si vedevano le stelle (o si dovevano mettere secchi per terra, se pioveva) e di famiglie così povere per cui le poche paia di zoccoli disponibili toccavano a chi si alzava prima. Ma per fortuna – qualcuno ancora ricorda – «il Padule era la nostra fabbrica…».

[…]

Dopo la raccolta, l’erba veniva fatta seccare, quindi lavorata a forma di lunghe trecce (da lavoranti dette appunto trecciaiole) che servivano anche per realizzare rustiche sporte. Si usavano anche il biòdano e la gaggìa (acacia), dai rami flessibili, per completare il cesto robusto che veniva posto alla base della damigiana.                                                                                                                                                               

Si raccoglieva poi la legna, indispensabile per scaldarsi e cucinare, che però non doveva superare precise dimensioni e quantità, verificate dal “fattore”. Venivano raccolte anche le cannelle che servivano a realizzare cannicci di protezione per orti o coltivazioni e a far essiccare l’uva nei sottotetti (con cui produrre vin santo). Tutti gli avanzi delle erbe (“pattume”) si usavano come lettiera per gli animali per diventare poi letame; era una società con una cultura naturalmente ecologica, senza sprechi e senza rifiuti.                                                                                                                                                            La saggina invece non era una pianta spontanea, ma era coltivata; se ne ricavavano soprattutto spazzole, scopini, scope che alimentarono anche una discreta attività economica, specie nel larcianese, fino agli anni Settanta-Ottanta del XX sec. 

Sulla via Provinciale Lucchese che da Serravalle porta verso Pistoia, fuori quindi dalla Valdinievole, al n. 336 in località Spazzavento, sulla facciata di un’abitazione una piccola targa ricorda questi mestieri, diffusi in vari luoghi della provincia. Posta il 2 maggio 2012, la targa menziona anche le “portantine”, ovvero le donne che con i carretti trasportavano i fiaschi nelle case delle lavoranti, prima e dopo l’impagliatura.

Foto 2. Le Morette. Foto di Alessio Bartolini

Molti sono gli itinerari possibili nel Fucecchio: a piedi, in auto, in mountain bike, in barchino.

La passeggiata consigliata, in primavera, parte dal Porto delle Morette, che deve il suo nome alle omonime anatre tuffatrici. Superato il ponte sul canale e il Casotto dei Criachi, tristemente noto per l’eccidio del 1944 perpetrato dai tedeschi, inizia il percorso lungo l’argine, dove passano, sostano o nidificano circa duecento specie di uccelli. Punto privilegiato di osservazione è il Casotto del Biagiotti, dalle cui feritoie si intravedono i nidi di sette diverse specie di aironi. Si tratta della più importante colonia di nidificazione dell’Italia centro meridionale, per numero di coppie, e per varietà di specie (aironi cenerino, guardabuoi, bianco maggiore, rosso e poi nitticora, garzetta, sgarza ciuffetto).

Foto 3. Il casotto. Foto di Alessio Bartolini

I casotti, posizionati in prevalenza lungo i canali, fungevano un tempo sia da rimesse per agricole e da pesca, sia da ricovero temporaneo per contadini, pescatori e cacciatori.

In autunno, nei giorni di silenzio venatorio, nelle acque libere s’incontrano tranquille anatre svernanti, svassi e cormorani.

Nel complesso, le aree fangose sono il regno di beccaccini e pavonelle, chiurli e pittime, mentre i canneti sono prediletti da passeri e folaghe.

 

Foto 4.  In Padule, dal barchino. Foto di Alessio Bartolini.

 

Certamente suggestivo e indimenticabile è il percorso in barchino, mezzo tipico dei cacciatori, scurito dal catrame e a fondo piatto. È l’unica imbarcazione che percorre ancora oggi il Padule, un tempo importante via d’acqua. Nel medioevo, infatti, il canale dell’Usciana raccoglieva e convogliava le acque in Arno, collegando Pistoia e la Valdinievole con Firenze e Pisa. A fine Settecento sopravvivevano ancora una cinquantina di approdi e strutture portuali.

Agli inizi di aprile è stato varato un barchino destinato alla settima tappa della via Francigena: pellegrini e pellegrine, tra Altopascio-San Miniato, potranno seguire il percorso alternativo che scivola a ritmi lenti nel silenzio dei canali.

 

 

CONDIVIDI
Articolo precedenteLa Chiesa al passo con i tempi: l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII
Articolo successivoFocaccia ligure
Laureata in Lettere e in Storia e Società a Roma, insegna Geografia nella scuola superiore e coordina progetti di didattica di genere. È fondatrice e presidente nazionale dell'associazione e del gruppo di ricerca-azione Toponomastica femminile. Autrice negli anni di numerosi articoli su testate diverse, cartacee e on-line, ha pubblicato nel 2011-2013 le guide turistico-culturali Roma. Percorsi di genere femminile, (voll. 1 e 2, ed. Iacobelli). Ha curato i volumi Sulle vie della parità (Universitalia, 2013) e Strade maestre (Universitalia, 2015) e cura, per EUS edizioni, la collana Le guide di Toponomastica femminile, volta a riscoprire tracce femminili nei diversi territori.