Un po’ di storia
L’aristocratica famiglia romana dei Borghese raggiunse potere e ricchezza all’inizio del XVII secolo, con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1605, del cardinale Camillo Borghese, papa col nome di Paolo V. Protagonista assoluto della corte pontificia fu in quel periodo il nipote prediletto del papa, il cardinale Scipione Borghese (1577-1633), figlio di Ortensia Borghese, sorella del Papa, nominato cardinale all’età di ventisei anni, appena due mesi dopo l’elezione dello zio. Animato da una dispendiosa passione per l’arte, il cardinale nipote affidò la costruzione di una villa “fuori Porta Pinciana” all’architetto Flaminio Ponzi, su un terreno posseduto dalla famiglia. La villa, la cui costruzione iniziò nel 1607, fu poi terminata dall’architetto Giovanni Vasanzio nel 1633.
Scipione Borghese, contemporaneamente alla costruzione della villa, cominciò a raccogliere opere d’arte e a commissionare a diversi artisti dell’epoca numerosi lavori, dando l’avvio a quella che doveva essere una delle collezioni private più grandi dell’epoca. Molte opere furono acquisite con estrema spregiudicatezza, come i 100 dipinti sequestrati nello studio del Cavaliere d’Arpino, tra cui alcuni dipinti di Caravaggio, o la Deposizione Baglioni di Raffaello, prelevata dal convento perugino di San Francesco, e fatta calare di notte dalle mura della città. E per aver opposto resistenza a consegnare al cardinale la Caccia di Diana, Domenichino passò alcuni giorni in prigione. Anche la collezione di sculture antiche si arricchiva, spesso con straordinari rinvenimenti occasionali. Non era da meno la statuaria “moderna”: dal 1615 al 1623 il giovane Gian Lorenzo Bernini eseguì per il cardinale cinque celeberrimi gruppi scultorei, ancora oggi conservati nel Museo, la Capra Amaltea, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne. Per volere del cardinale, alla sua morte tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a uno strettissimo vincolo fidecommissario, che preservò l’integrità della collezione fino a tutto il XVIII secolo.
Foto 1. La facciata seicentesca
Nel 1766 cominciarono importanti lavori di trasformazione, voluti dal principe Marcantonio IV Borghese, e questa fu la seconda fase, fondamentale per la fisionomia della villa. Architetti, pittori e scultori fecero di Villa Pinciana un modello di stile neoclassico per tutta Europa. Nel nuovo allestimento dell’architetto Antonio Asprucci i capolavori scultorei furono posti al centro di ogni sala e il tema decorativo raccordato al soggetto del gruppo scultoreo. Il piano terra era riservato alle statue, mentre i dipinti furono sistemati nel piano superiore, secondo un concetto di ascesa dalle sculture antiche a forme d’arte più sublimi, come la pittura.
Agli inizi del XIX secolo la villa venne ulteriormente ampliata da Camillo Borghese, figlio di Marcantonio con l’acquisto di terreni verso Porta del Popolo e Porta Pinciana, che furono integrati alla villa con l’intervento dell’architetto Luigi Canina. A lui si devono i Propilei neoclassici (1827) su Piazzale Flaminio, realizzati su modelli dell’antica Grecia. Nel 1807 Camillo, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, fu costretto dal cognato a una vendita forzosa di statue, busti, bassorilievi, e vari vasi che oggi costituiscono il fondo Borghese del Louvre.
Nel 1902 il principe Paolo Borghese vendette il parco con tutti gli edifici e le opere d’arte allo Stato italiano per 3.600.000 lire.
La villa
La villa fu costruita per essere un museo, luogo di cultura, ma anche per la contemplazione della natura (con piante e animali rari) e della moderna tecnologia (specchi, lenti, orologi particolari). Doveva anche servire come sede di rappresentanza diplomatica della corte pontificia. Inoltre era un’azienda agricola, con vigne, orti, stalle, piccionaia, una grande uccelliera, un giardino zoologico e perfino un allevamento del baco da seta.
La facciata, articolata in due corpi aggettanti collegati da un portico, leggera e luminosa per il colore chiaro della muratura, era ornata da rilievi e sculture antiche. L’accesso al portico avveniva tramite una scala a due rampe, che alla fine del ‘700 fu smontata per cedimenti del terreno e sostituita da una scala a tronco di piramide. Nel recente restauro, iniziato nel 1983 e durato quattordici anni, la scala di Flaminio Ponzio è stata reintegrata con le sue esatte misure, tramandate nell’Archivio di Casa Borghese. Come pure è stato ripristinato il colore chiaro, e sono state restaurate tutte le statue e i busti della facciata, gravemente danneggiati dagli agenti atmosferici.
L’edificio si ispira allo schema cinquecentesco documentato a Roma da Villa Medici e Villa Farnesina, e riprende anche le ville romane, con avancorpi, portico a cinque arcate e terrazza. All’interno, su due piani, le sale sono disposte intorno a un grande salone centrale.
Foto 2. La facciata della Villa nel 1963
Sala I- Paolina e la bellezza ideale
Dopo aver attraversato il portico, dove sono esposti rilievi antichi, e il salone di ingresso, dominato dal tema della gloria della civiltà romana, entriamo nella prima sala, al centro della quale troviamo una delle sculture più celebri della collezione Borghese, la Statua-ritratto di Paolina Borghese Bonaparte, realizzata tra il 1805 e il 1808 da Antonio Canova (1757-1822).
Fig. 3. L’opera di Canova
La statua, considerata un apice dello stile neoclassico, raffigura la sorella di Napoleone, nonché moglie del principe Camillo Borghese, distesa, a busto nudo, su un lettuccio. Scolpita in morbidi e levigati lineamenti e in una posa aggraziata, Paolina regge con la mano sinistra un pomo, evocando così la Venere Vincitrice del giudizio di Paride e fissa un punto indefinito nell’aria, noncurante di tutto ciò che è contingente, terreno, umano.
Il supporto ligneo, drappeggiato come un catafalco, su cui è distesa Paolina, ospita all’interno un meccanismo che fa ruotare la scultura. S’inverte così il ruolo tra opera e soggetto fruitore: è la scultura a essere in movimento, mentre l’osservatore fermo viene impressionato dalle immagini di una scultura che, ruotando, consente di coglierne lo splendore da tutti i lati. Ad opera finita, Canova passò sul corpo nudo di Paolina un impasto di cera rosata e polvere di marmo, col quale ottenne un effetto di morbidezza e calore, di vera carne.
Questo ritratto senza veli di una persona di rango era un fatto eccezionale per l’epoca. Ma la persona storica è raffigurata e trasformata in divinità antica in un atteggiamento di classica quiete e nobile semplicità, secondo il concetto di bello ideale di Winckelmann, il massimo teorico dell’estetica neoclassica.
Antonio Canova è lo scultore più celebre della bellezza ideale, che, secondo lui, si incarnava nelle antiche sculture greche, dove il linguaggio esaltava l’equilibrio, le proporzioni, la semplicità. Nella Grecia classica la grazia era intesa come armonia delle forme, perfezione impossibile da trovare in natura, in quanto imperfetta. E il neoclassicismo, in opposizione e come reazione alla precedente estetica barocca, rifiuta ogni forma di eccesso, ogni espressione di sentimento che stravolge e imbruttisce i lineamenti del volto, che invece devono essere distesi e sereni, ogni virtuosismo o passione incontrollata e travolgente.
Se, a un primo sguardo superficiale, le opere degli artisti neoclassici sono spesso ritenute fredde e inespressive, a causa dell’applicazione di un canone estetico preciso, di principi teoretici imposti all’arte e al processo creativo, la vera grandezza del Canova consiste proprio nel superamento di questi canoni, nell’aver infuso un’anima alle sue figure che ce le rendono umane e vicine.
In copertina. La facciata oggi, dopo l’ultimo restauro