Roma – Le Terme di Diocleziano. Palazzo Massimo

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L’idea di utilizzare a scopo museale il complesso delle Terme di Diocleziano, che versava in uno stato di totale abbandono, cominciò a farsi spazio verso la fine dell’800, ma la monumentalità del contenitore era un vincolo e il progetto fu più volte abbandonato. Si poté realizzare solo in occasione della grande esposizione archeologica del 1911, per il cinquantenario dell’Unità d’Italia; da allora più volte il complesso è stato ristrutturato, fino alla ricorrenza del Giubileo 2000, quando è stato aperto l’ingresso nel giardino verso piazza dei Cinquecento e sono stati recuperati i chiostri maggiore, minore e l’antico monastero dei Certosini.

Oggi le Terme di Diocleziano fanno parte del Museo Nazionale Romano, che si articola in altre tre sedi espositive: Palazzo Massimo, Crypta Balbi e Palazzo Altemps.

Il progetto di recupero delle Terme, dell’architetto Giovanni Bulian, ha previsto più livelli: la Sezione Epigrafica, sulla comunicazione scritta nel mondo romano; la Sezione Protostorica, che illustra lo sviluppo della cultura laziale dei popoli latini della tarda età del bronzo e dell’età del ferro (negli ambienti del chiostro); nella sontuosa e imponente Aula Decima sono esposte la grande tomba dei Platorini (rinvenuta a Trastevere), la tomba dei dipinti e la tomba degli stucchi, ambedue provenienti dalla Necropoli della via Portuense; nel grande Chiostro Michelangiolesco della Certosa, infine, sono esposte più di 400 opere tra statue, rilievi, altari, sarcofagi provenienti dal territorio romano.

Palazzo Massimo

L’edificio fu costruito tra il 1883 e il 1887, per volontà del padre gesuita Massimiliano Massimo, in stile neorinascimentale dall’architetto Camillo Pistrucci, nell’area dove sorgeva la cinquecentesca villa Montalto-Peretti, passata poi di proprietà ai principi Massimo. Il palazzo, che svolse la funzione di collegio d’istruzione fino al 1960, è stato acquistato e restaurato dallo Stato italiano e inaugurato come sede museale nel 1998.

L’esposizione si articola nei quattro piani del palazzo. Nel piano interrato si trovano la Sezione Oreficeria e la Sezione Numismatica, dove è esposta una collezione, che va dalle origini nel VII secolo a.C., al conio della moneta fino ai prototipi dell’Euro. Oltre 20.000 pezzi testimoniano i sistemi di pagamento dall’età romana e alto-medievale, alle monete dei pontefici romani, a quelle dei Signori del Rinascimento, fino alla lira italiana nel secolo XIX, alla comparsa delle banconote e all’euro.

Nella sala intitolata “Il lusso a Roma” è offerta una panoramica delle ricchezze dei Romani, attraverso sfarzosi corredi funerari o preziosi gioielli rinvenuti nel Tevere e nel sottosuolo urbano.

Eccezionale interesse, fra gli altri, riveste il corredo funerario della bambina di Grottarossa, esposto integralmente assieme alla piccola mummia e alla sua bambola. Il rito dell’imbalsamazione, sebbene conosciuto a Roma, trova qui l’unica documentazione nota: è la mummia di una bambina di circa otto anni, risalente al II secolo d.C. circa, ritrovata sulla via Cassia all’interno del suo sarcofago. La fanciulla romana era probabilmente originaria dell’Italia settentrionale o centrale, di famiglia agiata. Le analisi hanno messo in evidenza che la fanciulla aveva sofferto di infezioni e carenze nutrizionali, ma la causa della morte dovette essere una fibrosi pleurica. Il corpo fu mummificato, senza asportare cervello e viscere, e avvolto in bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose. Una pregiata tunica di seta cinese la ricopriva e la pietà dei genitori volle ornarla con una collana in oro e zaffiri, due orecchini d’oro e un anello con castone aureo sul quale era incisa una vittoria alata.  Nel sarcofago a farle compagnia è stata trovata una bambola in avorio alta 16,5 cm con braccia e gambe articolate, e ancora vasetti di ambra e amuleti. Il sarcofago che la racchiudeva, in marmo bianco, presenta scene di caccia al cervo.

Nelle sale del piano terra sono esposti splendidi originali greci rinvenuti a Roma, capolavori della statuaria antica dall’età repubblicana all’epoca della dinastia Giulio-Claudia e la ritrattistica coeva.

Niobide morente (originale greco, 440-430 a.C.) di autore sconosciuto

La statua, trovata negli Horti Sallustiani, raffigura una giovane donna che, colpita a morte alle spalle da una freccia, cade in ginocchio tentando di estrarla. Vi si può identificare una delle figlie di Niobe, la mitica regina madre di sette figli che osò vantarsi di essere più prolifica di Latona e per questo fu punita da Apollo e Artemide con l’uccisione dei suoi figli e delle sue figlie. La fanciulla morente ha la testa rovesciata all’indietro, con gli occhi spalancati rivolti verso l’alto e la bocca dischiusa ad emettere un gemito di sofferenza. I capelli sono divisi in due bande da una discriminatura centrale e trattenuti da una fascia. L’opera è originale e ed è ritenuta appartenente alle figure del frontone del tempio di Apollo a Eretria; sarebbe dunque una delle numerosissime opere portate a Roma dalla Grecia come bottino di guerra e che tanta parte ebbero nel diffondere a Roma la cultura e lo stile greco.

Foto 1. Bambolina di avorio – Niobide morente- Ritratto di Saffo

Tra le opere esposte a Palazzo Massimo spiccano la statua di Augusto Pontefice Massimo, in piedi intento a celebrare un sacrificio col capo velato; la statua bronzea del Pugile in riposo, scultura greca datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia, e quella di un Principe ellenistico, del II secolo A.C.

Interessantissima a Palazzo Massimo è la ritrattistica, i numerosissimi esemplari, anche originali, che ci sono giunti, hanno permesso una valutazione molto approfondita di questo genere artistico. Volti di uomini e donne sbucano dal passato: persone comuni, imperatori, atleti, soldati, divinità.

Il ritratto greco ellenistico, per realismo e introspezione psicologica, fu sicuramente il modello; ma anche le immagini degli antenati in cera, che i patrizi solevano esporre nell’atrio della propria casa, furono determinanti. Il ritratto romano prevedeva raffigurazioni anche dei soli busti e di sole teste, a differenza dell’arte greca dove il corpo era concepito come qualcosa di inscindibile.

Il periodo repubblicano fu caratterizzato da una esasperazione della realtà; con l’età augustea invece si diffuse lo stile classico e i ritratti vennero improntati ad una maggiore idealizzazione, pur non mancando di spunti realistici.

Nella galleria di ritratti femminili troviamo donne ignote, anziane o giovani, un ritratto di Saffo, due dell’imperatrice Livia, uno di Agrippina minore, uno di una principessa Giulio-Claudia, altri personaggi femminili dell’età degli imperatori Flavi e Antonini, (Crispina, Plotina, Faustina minore ..) e infine personaggi femminili del II-IV sec. d.C.

In base a numerose repliche che ritraggono la celebre poetessa di Lesbo con la stessa pettinatura, si crede che questo splendido ritratto immortali le sembianze di Saffo (612- 580 a.C.). Questa testa, in marmo bigio morato, proveniente dal Museo Kircheriano (Wunderkammer)  è forse una replica moderna del XVI o XVIII secolo, ma potrebbe anche essere una scultura antica  rilavorata e rilucidata: la poetessa, dai lineamenti regolari e la bocca carnosa, ha i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura, quasi una cuffia, mentre due boccoli le pendono ai lati del volto.

La grande varietà di ritratti femminili presenti ci permette di approfondire la nostra conoscenza sulla moda femminile di acconciare i capelli. Le donne romane in epoca repubblicana coprivano il capo con veli o mantelli, quando uscivano di casa; ma in epoca imperiale tolsero il velo e adornarono le chiome in vario modo: acconciavano i capelli in complicatissimi riccioli, o in lunghe trecce innalzate sulla sommità della testa come delle torri, il tutto ornato con diademi, coroncine e spilloni, o rinforzato da capelli posticci.

Foto 2. Ritratto di Livia- Afrodite accovacciata- Fanciulla d’Anzio

L’imperatrice Livia, in questo ritratto, si concede un grosso boccolo sulla fronte, poche onde sui lati e trecce raccolte dietro la nuca. Niente di troppo elaborato, quindi. Le donne dell’epoca si adeguarono, ma alla sua morte si scatenarono: ricciolini a ciocche pendenti, o che incorniciano il viso, anellini e fasce che spuntano tra le onde, rotoli di trecce che scendono sul collo, o trecce avvolte dietro la nuca e tanti riccioli inamidati davanti a mo’ di cappello, o ancora boccoli allineati perfettamente con giri precisi.

Livia Drusilla Claudia (Roma, 58 a.C. –  29 d.C.), fu la seconda moglie dell’Imperatore Augusto e visse negli anni della trasformazione di Roma da Repubblica a Impero. Rappresentò per le matrone romane un modello di dedizione ai valori tradizionali. Certamente fu una grande figura storica. In una società conservatrice e maschilista, Livia seppe affermarsi come personaggio pubblico, gestendo una propria sfera d’influenza riconosciuta e pretendendo il riconoscimento della sua presenza imperiale accanto al consorte. Per mezzo secolo recitò la parte della sposa perfetta: sobria, austera, nemica del lusso e dei vizi, secondo i dettami moralistici della restaurazione augustea. Obbediva ciecamente a tutti i desideri del marito, affiancandolo e sostenendolo in ogni momento. Col tempo prese anche l’abitudine di accompagnarlo nelle varie parti dell’impero, sempre presente in momenti di grande responsabilità. Ciononostante, alcuni storici, come Tacito e Svetonio, ci hanno restituito un’immagine di donna maligna e prepotente, intrigante e senza scrupoli, pronta a uccidere anche i suoi stessi familiari pur di spianare la strada verso il trono al figlio Tiberio. Certamente fu molto scaltra, una “Ulisse in gonnella”, come la definì il nipote Caligola, ma fu anche una donna colta, perfino naturalista e salutista. Con le sue erbe continuò a mantenersi in buona salute fino a ottantasei anni.

La sua personalità cambiò per sempre la concezione della donna romana, assumendo una funzione sacra, di divinità benefica e salutare, protettrice dell’impero. Livia Drusilla fu dunque, la prima imperatrice di Roma e, certamente un esempio dell’avanzata delle donne nella storia del genere umano.

Al primo piano sono esposti altri celebri capolavori della statuaria, tutti di età imperiale e Flavia, tra i quali Il Discobolo Lancellotti. Di notevole importanza sono anche le sculture in bronzo che decoravano le navi di Nemi.

Afrodite accovacciata  era una scultura bronzea di Doidalsa, databile al 250 a.C. circa e oggi nota solo da copie di epoca romana, tra cui la migliore è considerata quella marmorea senza braccia nel Museo di Palazzo Massimo. Altre copie sono al Louvre, al British Museum e agli Uffizi. Doidalsa rappresentò Afrodite in una posa originalissima, accovacciata sulle ginocchia, mentre si prepara a ricevere l’acqua del bagno sacro, sviluppando l’idea dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. La diversa inclinazione delle gambe, la schiena piegata, la testa ruotata con grazia verso sinistra, mostrano la dea in un atteggiamento umanizzato, lontano dalle atmosfere di idealizzazione ultraterrena delle opere del precedente periodo classico,  e più rispondente al clima culturale dell’Ellenismo.

La Fanciulla di Anzio è stata rinvenuta nella Villa Imperiale, detta di Nerone, ad Anzio, a seguito di una mareggiata, nel 1878. Acquistata dallo stato italiano nel 1907, è esposta dal 1998 nella sede museale di Palazzo Massimo. La statua è composta di due blocchi di marmo greco e raffigura una fanciulla rivolta verso sinistra, mentre avanza vestita di chitone e imation, che porta arrotolato, per non inciampare. Appoggiandosi sulla gamba sinistra, sostiene un vassoio, verso il quale tende lo sguardo, contenente degli oggetti votivi: un rotolo semiaperto, un ramo d’alloro e un oggetto del quale rimangono solo due piedi a forma di zampa di leone. Alcuni studiosi ritengono che si tratti di una copia romana di un perduto originale ellenistico in bronzo, mentre altri (e questa oggi è la tesi prevalente) ritengono che si tratti di un pregevole originale ellenistico del III secolo a.C. Un’ipotesi che sarebbe provata dall’altissimo livello qualitativo della resa, soprattutto dalla scioltezza del panneggio e dalla naturalezza della posa. Per quanto riguarda l’identificazione potrebbe trattarsi di una sacerdotessa, ma è più probabile che si tratti di una giovane fanciulla che si appresta a partecipare a un rito sacro.

Al secondo piano, pareti affrescate e mosaici pavimentali documentano la decorazione domestica di prestigiose residenze romane.

Foto 3. Villa di Livia

Il giardino dipinto della Villa di Livia a Prima Porta, databile intorno al 30-20 a.C. ricopriva le pareti di una sala semi-sotterranea, per questo protetta per duemila anni dalle ingiurie del tempo e degli uomini, probabilmente un fresco triclinio per banchetti estivi, nella Villa suburbana dell’imperatrice Livia. Il grande sito archeologico fu rinvenuto nel 1863 sulla via Flaminia, nei pressi del Tevere (all’altezza di Prima Porta), insieme a una grandiosa statua di Augusto loricato. La villa è chiamata ad gallinas albas. perché qui Livia vi allevava delle bianche galline: una curiosa  leggenda vuole che un’aquila abbia fatto cadere sul grembo di Livia, al tempo delle sue nozze con Augusto, una gallina bianca con un rametto di alloro nel becco. Consigliata dagli aruspici, Livia allevò la gallina e la sua discendenza e piantò il rametto che generò un boschetto di alloro. L’affresco, appartenente al secondo stile, presenta con colori e dettagli straordinari una varietà di piante e di uccelli naturalisticamente riprodotti. Numerose sono le specie botaniche individuate: in primo piano, il pino domestico, la quercia, l’abete rosso; oltre un recinto marmoreo crescono meli cotogni, melograni, mirti, oleandri, palme da datteri, corbezzoli, allori, viburni, lecci, bossi, cipressi, edera e acanto. Nel prato, sotto agli alberi fioriscono rose, papaveri, crisantemi e camomilla, mentre nei vialetti in primo piano si alternano felci, violette e iris. Le specie vegetali sono 23 e quelle avicole ben 69. Ma la verosimiglianza dei dettagli non deve trarci in inganno, questo non è un giardino reale, bensì un luogo incantato: infatti vi si possono trovare specie che non fioriscono nello stesso periodo dell’anno. In seguito ai danni della seconda guerra mondiale si decise per il distacco degli affreschi, un’operazione che fu eseguita, nel 1951-1952, a cura dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (ICR); da allora sono conservati nel Museo nazionale romano, oggi nella sezione di palazzo Massimo alle Terme.

 

 

 

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Laureata in Lettere moderne con indirizzo storico-artistico alla Federico II di Napoli, è stata docente di Storia dell’arte nei licei dal 1976 al 2010. Socia cofondatrice e vicepresidente di Toponomastica femminile, è tra le organizzatrici e le relatrici dei convegni nazionali, allestisce mostre fotografiche e documentarie sulle attività femminili, pubblica articoli sulle stesse tematiche per giornali on line e riviste cartacee, segue i progetti didattici dell’associazione e presiede la giuria nel concorso nazionale “Sulle vie della parità”.